Cuba

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1Gli occhi azzurri brillarono per l’eccitazione. Lo straniero inclinò la testa e fece un breve sorriso, prima di scendere dalla macchina e tendergli la mano. La portiera si chiuse da sola.
“Raul Valdes” disse. “Piacere.”
“Piacere. Uhm… c’è qualcosa che posso fare per lei?”
“Al contrario.”
“Scusi?”
“Sono io che posso fare qualcosa per lei. Possiamo parlare in privato?”
A Ninni Raimond il suo accento suonava vagamente familiare. Georgia, forse?
“Oh… certamente, certamente. Da questa parte, prego. Solo un attimo.
Le consiglio di alzare il finestrino e di chiudere la macchina.”
La palazzina dell’appartamento di Raimond era stata costruita nel 1924, e i vecchi mattoni rossi occhieggiavano nei punti in cui l’intonaco si era scrostato. Il piccolo ascensore Otis non funzionava, così i due uomini presero le scale mal ridotte e salirono fino al terzo piano. Nel corridoio a U Raimond teneva la destra e faceva strada; oltrepassarono tre porte d’ingresso prima di inserire la chiave nella serratura dell’appartamento 314.
L’insegnante afferrò in fretta una camicia sporca che giaceva su una vecchia poltrona verde, prese un annerito lume a kerosene che si trovava su un tavolino e calciò una pantofola sotto un’altra poltrona. Dopo aver acceso una lampadina da 60 watt, posò il lume sullo scolapiatti del cucinino e lanciò la camicia in una buia stanza da letto dove regnava il disordine. Raimond chiuse la porta d’ingresso, aprì una finestra che si affacciava sulla strada e invitò Valdes a sedersi sul divano.
“Prego, si accomodi, Mr. Valdes.”
“Chiamami Raul.”
“Va bene, Raul. Gradirebbe…? Posso portarti un bicchiere d’acqua?”
“Acqua va bene” disse Valdes prima di lasciarsi cadere sul divano. Indossava una camicia sportiva di color marrone-rossiccio che si abbinava ai pantaloni cascanti color cachi e alle scarpe da barca.
Imbarazzato, Raimond aprì il frigorifero antidiluviano marca Hotpoint e versò dell’acqua in due vecchie lattine di Coca-Cola. I bicchieri non erano in vendita nei negozi dell’Avana, e le lattine erano un regalo della ragazza che aveva rotto accidentalmente il suo ultimo bicchiere quasi un anno prima.
Mal celando il suo stupore, Valdes prese il contenitore e lo portò alle labbra, mentre Raimond lo osservava dalla sua poltrona: radi capelli color sabbia, carnagione rossastra, una corporatura pesante, quasi un metro e novanta. I loro sguardi s’incontrarono per un istante, l’insegnante lo distolse e poi trangugiò la sua acqua.
Valdes svuotò la sua lattina e la posò sul tavolino. Estrasse il portafogli dalla tasca posteriore ed esibì una patente della Florida, una carta di credito, e un biglietto da visita.
“Controlla le mie credenziali” disse con un ampio sorriso, mentre porgeva i documenti a Raimond.
Per la prima volta in vita sua l’insegnante tenne in mano una carta di credito e una patente di guida straniera. Entrambe erano intestate a Raul Valdes. Sul biglietto da visita, sotto il nome, c’era scritto: “Investigatore privato autorizzato”. Raimond annuì confuso, mentre restituiva i documenti.
“Mi hanno detto che i cubani hanno qualche sorta di documento d’identità” disse Valdes.
“Sì, lo abbiamo.”
“Posso vedere il tuo?”
Dal taschino della sua camicia verde chiaro a maniche corte, Raimond estrasse un libricino blu e lo porse a Valdes. Il visitatore inforcò un paio di lenti bifocali senza montatura, osservò attentamente la fotografia di Raimond e sfogliò alcune pagine prima di restituire il documento. Quindi emise un sospiro di sollievo. Si tolse gli occhiali e si adagiò sullo schienale del divano.
“Ninni, ho una notizia buona e una cattiva.”
“Prima la cattiva” disse Raimond con ansia.
“Tuo padre è morto il 14 maggio.”
L’insegnante si appoggiò allo schienale della poltrona e fissò il suo ospite. Ma non lo vedeva più. Nella sua mente era apparso il ricordo di un viso gioviale che lo sovrastava. La sua piccola mano si perdeva nell’ampio tepore di quella che lo guidava nel sentiero boscoso. Si ricordava sempre di suo padre o in quel giorno agli Everglades, o mentre leggeva “L’Avana Post” su una sedia a dondolo nella loro casa di Santa Cruz del Norte, o a Sebastian, quando giocavano a pallone e gli insegnava a fare passaggi in avanti. Aveva altri ricordi, ma in genere uno di quei tre era il primo a riaffiorare. Raimond provò un misto di nostalgia, autocommiserazione e tristezza.
“Non lo vedo da… trentaquattro anni” disse, spostando lo sguardo verso il pavimento.
Valdes rimase zitto.
“Com’è morto?”
“Cancro ai polmoni.”
Raimond fece una smorfia. “Fumava?”
“Non ha mai acceso una sigaretta in vita sua.”
L’insegnante fece un sorriso forzato, scosse la testa e si guardò intorno per un istante. Poi si alzò, entrò nel2 cucinino, aprì la credenza e ritornò nel soggiorno con una bottiglia senza etichetta.
“Vuoi un sorso di rum clandestino, Raul? Io lo chiamo “Scintilla del treno”? Perché? “Mi dà la carica.”
“Va bene.”
Raimond versò un po’ di liquore nella lattina di Valdes e una razione più consistente per sé.
Valdes tracannò la sua parte. “Per Dio!” esclamò.
L’insegnante inghiottì la sua senza battere ciglio.
Valdes si schiarì la gola. “Eravamo amici, Fernando e io. Lo scorso marzo i medici lo hanno informato che era allo stadio terminale. Un paio di settimane dopo è venuto nel mio ufficio dove parlammo a lungo, soprattutto di te.”
Raimond schioccò la lingua e si riempì nuovamente la lattina. Sembrava che Valdes volesse continuare il suo racconto, ma avesse cambiato idea. L’insegnante bevve.
“Qual è la buona notizia?” domandò.
Valdes dischiuse le labbra. Fece un respiro profondo, rifletté per un momento, e poi sorrise in modo disarmante.
“Te lo dirò a cena, in un ristorante a tua scelta.”
Raimond lo fissò attentamente e si morse il labbro inferiore, valutando l’invito. Era da quattro, forse cinque anni che non mangiava fuori. Per giunta quella sera era esausto. Pensò al menu scarso e poco appetitoso che aveva in programma per la cena, e diede uno sguardo distratto all’orologio.
“Va bene. Mi faccio una doccia e mi cambio. Nel frattempo puoi vedere, trasmessa via etere a Cuba, in diretta da Washington, il programma pirata Crossfire. “
L’insegnante accese un televisore in bianco e nero, un ventiquattro pollici russo con due manopole di plastica. E, in pochi secondi, Valdes poté assistere stupefatto allo spettacolo di Pat Buchanan.
“Non ci posso credere” disse l’americano.
Raimond avanzò con passo pesante verso la stanza da letto. Cinque minuti più tardi, mentre l’insegnante faceva la doccia e Kinsley sollecitava un esperto d’armi riguardo alla crisi nucleare coreana, andò via la corrente.
Colto alla sprovvista, Valdes si domandava cosa stesse succedendo, quando sentì il cubano urlare dalla doccia.
“Stai tranquillo, Raul. È un oscuramento d’emergenza. Sarebbe dovuto cominciare alle otto.”
“Va bene. Non c’è problema.”
Il visitatore udì delle imprecazioni in spagnolo che provenivano dagli appartamenti vicini. Valdes sentì un paio di colpi, come di bottiglie di vetro lanciate sulla strada. Spostò lo sguardo su un’alta libreria stipata di edizioni economiche in inglese. Un minuto dopo Raimond uscì dal bagno, a piedi nudi, con un asciugamano avvolto intorno alla vita.
“Ogni quartiere della città ha un orario d’oscuramento” spiegò mentre entrava nel cucinino annaspando alla ricerca di un fiammifero. “Ogni tanto però anticipano o ci sono oscuramenti improvvisi e la gente si arrabbia.”
Raimond trovò la scatola e accese un fiammifero. La capocchia cadde. Riprovò altre due volte. In uno scatto di rabbia, l’insegnante sciorinò una serie di bestemmie cubane e il quarto fiammifero finalmente si accese. Sollevò il cilindro di vetro del lume a kerosene, accese lo stoppino e risistemò il cilindro, infine piazzò l’aggeggio sul tavolino.
“Hai sentito le bottiglie infrangersi sulla strada?”
“Sì”
“È la nuova forma di protesta.”
“Mi pare sciocco” derise Valdes. “Non riusciranno a colpire i veri responsabili dell’oscuramento.”
“Probabilmente hai ragione” ammise Raimond. “Vado a vestirmi.”
“Prendi la lampada: non mi occorre mentre me ne sto seduto qui.”
Poco dopo le 20:00, Raimond uscì dalla camera con il vestito della domenica: una giacca leggera marrone, calzoni marroni e mocassini dello stesso colore. Mise nuovamente il lume sul tavolino e chiuse la finestra. Vestito, rasato di fresco, con i capelli ordinatamente pettinati, l’insegnante dimostrava cinque o sei anni in meno dei suoi quarantaquattro.
“Sono pronto” annunciò Raimond.
“Bene, andiamo” disse Valdes dandosi una pacca sulle cosce, e si alzò.
“Spegni il lume.”
In quell’istante, come per magia, lo stoppino scoppiettò e la fiamma si spense. L’ultimo goccio della scorta di kerosene di Raimond si era esaurito.
Il bar e ristorante Floridita era stato rinnovato nel 1991, ma da quando la nuova direttiva finanziaria del governo cubano aveva decretato che i clienti dovevano pagare in moneta convertibile liberamente, in pratica dollari americani, Raimond non era più stato in grado di visitare quello che un tempo era stato il suo bar preferito. Dato il contrasto stridente con le sue condizioni economiche, il posto a Raimond sembrò opulento, anziché semplicemente gradevole. Tende di velluto rosso, tovaglie di lino immacolate, posate d’argento, camerieri in divisa, un maître in smoking erano elementi non frequenti per una normale cena a Cuba. Quando Valdes ordinò le bevande, solo tre tavoli erano occupati.
Sorseggiarono due daiquiri a testa, parlando del più e del meno. Valdes mostrò di essere ben informato raccontando due episodi dell’infanzia di Raimond. Il primo quando nel 1956, durante una gita a Silver Springs, era rimasto a bocca aperta a contemplare i pesci e i pescatori subacquei attraverso gli oblò sommersi di una barca semiaffondata. L’altro quando, a Santa Cruz del Norte, era caduto mentre imparava a pattinare. In entrambe le situazioni si era trovato da solo con suo padre.
3Mangiarono in silenzio brodo di granchio, insalata di gamberi e aragosta Thermidor. Svuotarono una bottiglia di vino bianco cileno. Dopo il caffè Valdes chiese il conto, lo guardò di sfuggita, e consegnò una banconota da cento dollari al cameriere. L’americano propose un ultimo bicchiere al bar, così Raimond lo guidò verso la sua postazione preferita, l’angolo sinistro del locale, accanto al mezzobusto di Ernest Hemingway. Si appollaiarono sugli sgabelli e decisero di prendere un Wild Turkey liscio; Valdes lo rinforzò con una birra. Raimond lanciò un’occhiata rispettosa al grande dipinto (che occupava l’intera parete) raffigurante il porto dell’Avana nel diciottesimo secolo. Ai lati c’erano due belle lampade di bronzo e sopra era ben ordinata una fila di bicchieri.
“Altro che embargo” disse l’americano, indicando il frigorifero a otto ante ben fornito e le diverse marche di liquori americani e sigarette.
“Il problema principale non è l’embargo; sono i soldi” rilevò Raimond. Stava riportando il punto di vista di Susana Vila, un’economista divorziata che negli ultimi quattro anni aveva frequentato regolarmente. “Se il governo avesse i fondi sufficienti, potrebbe acquistare tutto ciò che occorre dagli stati confinanti, pagando un sovrapprezzo. O magari pagando il giusto prezzo di mercato. Il Messico potrebbe vendere a Cuba il petrolio necessario per porre fine agli oscuramenti. Ma il governo non ha dove attingere per i pagamenti.”
“Capisco.”
“Ascolta Raul, ora però sto davvero bruciando dalla curiosità. Come hai fatto a trovarmi? Devi consegnarmi un messaggio? C’è qualcosa che mio padre voleva che facessi per lui?”
Valdes annuì e appoggiò le braccia sul lucido mogano del bancone del bar, intrecciando le dita. Guardò dritto avanti a sé mentre diceva: “Mi pare che abbiate in comune questa… “infiammabilità”. Tu bruci di curiosità; mentre parlavamo Fernando bruciava dal rimorso”.
Raimond rise. “E che ne sai?”
“Aveva previsto che ti saresti arrabbiato e lo avresti giudicato uno stronzo, un figlio di puttana.”
“Era un figlio di puttana” disse Raimond con amarezza.
Valdes tacque per qualche istante, percorrendo con il dito l’orlo del bicchiere.
“Tua madre è viva?”
Raimond scosse il capo. “È morta dieci anni fa. Emorragia cerebrale. Soffriva di ipertensione da tempo.”
L’americano sorseggiò il suo liquore. “Probabilmente il suo atteggiamento è cambiato quando si è reso conto che sarebbe morto presto. Voleva pareggiare i conti con te, ma non era ricco. Tutto ciò che possedeva in banca era…”
“Scusa, solo un momento…” lo interruppe Raimond, perdendo l’autocontrollo, mentre si girava bruscamente a guardare Valdes in faccia. “Stai cercando di dirmi che voleva comprarsi il perdono?”
“Tutto quello che voleva era portarti via da questo schifo di posto.”
L’insegnante rimase stordito di fronte alle implicazioni che le parole di Valdes comportavano. Più volte aveva pensato di lasciare il suo paese, soprattutto durante gli ultimi anni di crollo economico, ma un misto di orgoglio, paura e amore gli avevano impedito di farlo. L’orgoglio lo aveva trattenuto dal rintracciare il padre, che lo aveva abbandonato, per chiedergli di fare da garante per ottenere un visto all’Ufficio Immigrazione americano dell’Avana. La paura lo frenava su due fronti. In primo luogo Raimond provava un’avversione per tutti i tipi di barche e navi, e non prendeva minimamente in considerazione l’idea di attraversare lo stretto della Florida con una zattera insicura. L’alternativa era quella di compilare a Cuba un modulo d’emigrazione e ciò implicava il prendere una posizione precisa che avrebbe avuto gravi ripercussioni politiche. Sarebbe stato etichettato come individuo ostile, licenziato dal suo posto di lavoro e probabilmente aggredito dai vicini ultra rivoluzionari. Era un membro della comunità rispettato, e molti dei suoi ex allievi, adesso giovani laureati, ufficiali dell’esercito, dirigenti di medio livello, o semplicemente colletti bianchi, lo salutavano con simpatia per la strada e gli rendevano i propri servizi quando ne aveva bisogno.
Dopo essere giunto alla conclusione che gli aspiranti emigranti verso gli Stati Uniti o altre democrazie occidentali erano pedine indifese sulla scacchiera della politica, Raimond aveva previsto una possibilità del cinquanta per cento che la sua domanda fosse accettata, e temeva di perdere il proprio status sociale. A complicare ulteriormente le cose, Raimond amava la bella e sofferente isola dove era nato. Agli emigranti veniva venduto un biglietto di sola andata e Raimond non era certo di voler rimanere per sempre lontano da Cuba.
Raimond, senza dire nemmeno una parola, seguiva il corso dei suoi pensieri.
Sarebbe stata questa l’occasione della sua vita? Svuotò il bicchiere e lo porse al barista. Gli unici altri clienti erano una prostituta cubana e il suo cliente, probabilmente un messicano, che tubavano silenziosamente all’estremità opposta del locale. Il barista restituì il bicchiere riempito generosamente e si allontanò per riprendere a lucidare la cristalleria.
“La sua ultima moglie lo ha ripulito” spiegò Valdes. “La sua pensione non era alta, e tutto quello che possedeva in banca erano quindicimila dollari. Ha pagato in anticipo il suo funerale e ha depositato novemila dollari nella mia banca per noleggiare uno yacht, venire fino a qui, trovarti e portarti via, se lo vuoi, naturalmente.”
“Stai rischiando diversi anni di prigione per novemila dollari?”
Valdes guardò il bancone e sorrise. “I novemila dollari coprono appena le spese, Ninni”
“Allora… non capisco.”
“Tuo padre mi ha salvato la vita. Gli sono debitore.”
“Davvero?”
“Sì. Germania, dicembre 1944. Ero stato ferito alla gamba sinistra e Fernando mi salvò la vita, portandomi sulle spalle per almeno un’ora.”
Raimond scosse la testa sorpreso. Era un comportamento eroico che non avrebbe mai attribuito a un padre che aveva abbandonato la sua famiglia.
“Non lo sapevo.”
“Non amava parlare della guerra.”
Ricordi d’infanzia tornarono alla memoria di Raimond. “È vero. Da bambino mi piaceva giocare alla guerra, e una volta saputo dalla mamma che aveva combattuto nella Seconda guerra mondiale, lo avevo supplicato di raccontarmi delle storie. Lui aveva rifiutato ma io avevo continuato a insistere fi-no a quando non mi prese per le spalle, mi scosse e mi ordinò di non chiedergli mai più della guerra.”
“Lo so” disse Valdes. “Non si è mai unito alla Legione, non ha mai fatto amicizia con i compagni d’armi, non ha mai partecipato alle parate. Non lo vedevo da quindici, sedici anni. Immagino che si sia messo in contatto con me perché riteneva che fossi la persona adatta per questo tipo di lavoro.”
“Cosa ti fa pensare di farcela?”
Valdes sorseggiò un po’ di whisky e continuò con una sorsata di birra.
5“Cuba ha diversi chilometri di costa, e nessun governo al mondo può sorvegliare una costa così estesa ventiquattro ore al giorno. Gioca a nostro favore anche il fatto che la guardia costiera cubana non ha pezzi di ricambio e carburante sufficiente. Mentre venivo, ho visto gente pescare a due miglia dalla costa su zattere fatte con camere d’aria di trattori e camion. Io ho uno yacht di dieci metri. È attraccato alla marina con il nome di quel tale…” Valdes indicò nella direzione del busto di Hemingway. “Quindi nascondere una o due persone dovrebbe essere un gioco da ragazzi. Sei sposato, o che?”
“Che.”
“Cioè?”
“Appuntamenti ogni tanto. Nulla d’impegnativo.”
“Hai figli?”
“No.”
Seguì il silenzio. Mentre rifletteva, Valdes si raddrizzò e posò le mani sull’orlo del bancone. Aveva braccia forti ricoperte di lentiggini e macchie marroni dovute alla vecchiaia. Raimond notò la differenza tra un viso segnato dalle intemperie e uno abbronzato. Da vicino, Valdes aveva l’aspetto di un individuo che trascorre la maggior parte del tempo in casa e va in barca, o gioca a tennis durante il fine settimana. Di certo non si dedicava a uno sport troppo faticoso, come confermava il rotolo di grasso attorno alla vita.
Probabilmente pescava e beveva birra in una barca di venti metri o in un motoscafo che restava ormeggiato dal lunedì al venerdì.
“Come ho detto, un gioco da ragazzi. Sai nuotare?”
“Galleggio. Il mio tempo migliore sui cento metri stile libero è diciannove minuti e sedici secondi.”
Valdes rise di cuore prima di ribattere: “Dai, nessuno ci mette così tanto”.
“Cerco solo di dirti che, se accetto la tua offerta, non puoi fare affidamento su un nuotatore esperto da caricare a bordo a un miglio dalla costa.”
Il sorriso di Valdes si congelò. “Ascolta Ninni, ci sono persone a Miami che in simili affari ci guadagnano, tra questi un mio amico. Gli ho parlato giorni fa. Tu non puoi entrare alla marina, depositare il tuo bagaglio sulla banchina accanto alla mia barca, e saltare a bordo. Il posto è pieno di guardie e ti scoverebbero. Ma se io dichiaro di andare a Varadero, lascio il porto da solo così come sono arrivato e navigo lungo la costa, tu potrai salire a bordo con facilità nel punto e all’ora che avremo stabilito prima.”
Raimond svuotò il bicchiere. Le sue guance e le labbra avevano perso la sensibilità. Calcolò quanto aveva bevuto: due rum belli forti a casa, due daiquiri, tre bicchieri di vino e due di whisky. L’insegnante non prendeva mai decisioni mentre beveva, ma desiderava un altro goccio. Fece un gesto al barista. Dopo aver servito Raimond, l’uomo cercò di riempire il bicchiere di Valdes, ma l’americano sollevò la mano.
“Devo guidare” si scusò.
Il barista sorrise e si dileguò. Raimond bevve d’un fiato metà del suo whisky e posò con cura il bicchiere sul bancone. “Come posso salire a bordo?”
“Te ne intendi di barche?”
“Assolutamente no.”
“Allora. Ecco quello che devi sapere: se navigo verso est, come farei per fare rotta verso Varadero, il lato destro della barca è rivolto alla costa e quello sinistro all’oceano. Io potrei mettere una scaletta sul lato sinistro, mantenere una velocità di crociera molto bassa e tu riusciresti a salire a bordo senza essere visto.”
“Quanto ti puoi avvicinare alla costa?” chiese Raimond, che improvvisamente sentì il liquore dargli alla testa.
“Il mio pescaggio è di un metro e mezzo.”
“Il tuo cosa?”
“L’altezza della parte della barca che è immersa nell’acqua. Per stare sul sicuro, non dovrei navigare in meno di tre metri. Quindi, se ti carico a bordo in una spiaggia poco profonda, tu dovrai nuotare per trecento metri per raggiungere una profondità di tre metri. In altri posti potrei prenderti a meno di cento metri dalla costa.”
“Hai in mente un posto particolare?”
Valdes annuì, si assicurò che il barista non stesse ascoltando e, per la prima volta, fissò Raimond negli occhi. “A ovest del fiume Almendares ci sono acque profonde dove è possibile navigare molto vicino alla costa, più o meno a cento metri.
“È una zona molto popolata” disse Raimond con un tono allarmato.
“E proprio per questo difficile da controllare. Quando sono arrivato, ieri pomeriggio, ho visto dozzine di nuotatori, alcuni dei quali si spingevano molto al largo, e un paio di zattere a quasi mezzo miglio dalla costa. Non c’erano guardie costiere, nessun elicottero. Nessuno pareva interessato.
D’altra parte è del tutto normale che le barche si dirigano a est della marina.
Raimond scosse la testa; il viso segnato dalle rughe dell’americano gli appariva sfuocato.
“Scusa, Raul. Ora sono mezzo ubriaco. Potremmo incontrarci di nuovo domani? Dammi la possibilità di rifletterci.”
Valdes distolse lo sguardo dall’insegnante e guardò in avanti, come uno che sta per perdere la pazienza. Un secondo dopo i suoi lineamenti si rilassarono. “Meno ci vediamo meglio è. Questo è tutto quello che volevo dirti.
Domani, il giorno dopo, e venerdì sempre nel tardo pomeriggio tu perlustrerai quella zona da vari punti. Ci incontreremo da un’altra parte il prossimo sabato a mezzogiorno, e a pranzo mi darai la tua risposta. Se è no, tornerò a casa con la coscienza tranquilla; se è sì, mi indicherai il punto preciso dove nuoterai all’imbrunire quella stessa giornata, e qualche grande riferimento sulla costa che io possa individuare facilmente. Mi stai seguendo?”
“Sono solo un po’ alterato, non ubriaco fradicio.”
“Bene. Ora, forse vicini o amici ti chiederanno chi sono e perché sono venuto. Se ti fai sfuggire una sola parola di questa conversazione, io non investirò un dollaro per la tua libertà. Mi hai capito?”
Raimond annuì con veemenza e due facce indistinte gli ballarono davanti.
“Bene. Inventati una storia. Non so, un americano conosciuto a una festa. Non nominare Fernando e la sua morte. Io sono arrivato in aereo, non dire una parola sulla barca. Siamo intesi?”
“Intesi.”
“Non cercare di metterti in contatto con me per nessun motivo. Non chiamare al telefono la marina. E, per favore, ispeziona con attenzione la costa nel punto che ti ho indicato.”
“Sissignore.”
“Dove possiamo incontrarci il prossimo sabato a mezzogiorno?”
Raimond, sbattendo le palpebre, ci pensò per qualche momento. La svolta inaspettata degli eventi e l’alcol6 avevano sopraffatto la sua mente generalmente sveglia.
“C’è un posto nuovo chiamato Morambon all’angolo tra la 5a e la 32a.
Non ci sono mai stato, è frequentato da turisti quindi dovrebbe andare bene.”
“Perfetto. Fa come ti ho detto e comunicami la tua decisione il prossimo sabato al Moram… quello che è. 5a e 32a. Andiamo?”
“Certo.”
“Barista? Il conto, per favore.”
Ninni Raimond si svegliò alle 5:23 della mattina seguente. Il ricordo di Raul Valdes lo pervase di gioia. Rimase a letto a gustarsi quella sensazione quasi dimenticata, consapevole che persino una speranza incerta risolleva-va il suo spirito.
È quello che capita agli emarginati, pensò, e gli tornò in mente Anita Robles. Ogni tanto sperava di non averla mai incontrata, due anni prima, in un negozio. Da sempre si era considerato un cittadino di seconda categoria, ma dopo l’incontro con Anita si era abbassato ancora di livello.
Alla fine degli anni ‘70 Anita era stata una tranquilla allieva di Raimond, che si distingueva in inglese. Quattordici anni dopo, in un incontro casuale, lo aveva abbracciato calorosamente e baciato sulle guance. Tra i soliti convenevoli Raimond aveva appreso che Anita era diventata vicedirettrice di un’agenzia di viaggi, che il suo matrimonio era paradisiaco e che la figlia di sette anni era un angelo. Lei aveva voluto sapere come andava.
“Come sempre” aveva risposto l’insegnante con un sorriso rassegnato.
“Vuole cambiare?” aveva chiesto Anita.
Raimond aveva stretto le spalle e aveva abbassato gli angoli della bocca.
“Perché non passa dal mio ufficio lunedì prossimo?” aveva suggerito Anita tirando fuori dalla borsa un biglietto da visita. “Potrei avere qualcosa per lei.”
Moderatamente curioso, l’insegnante aveva deciso che il meno che potesse fare fosse vedere di che cosa si trattasse. Quel lunedì, Anita gli spiegò che il turismo stava crescendo incredibilmente del trenta per cento l’anno, e che vi era grande richiesta di cubani che parlassero inglese. La sua compagnia gestiva trenta autobus con aria condizionata, e lei aveva bisogno con urgenza di cinque guide. Raimond era interessato? Avrebbe ricevuto capi di vestiario, buoni pasto, e avrebbe guadagnato più o meno lo stesso salario d’insegnante. Aggiunse che le guide migliori guadagnavano anche quaranta o cinquanta dollari al mese in mance. Raimond colse l’occasione al volo e compilò i moduli per la domanda.
Cinque settimane dopo, imbarazzata ed evitando il suo sguardo, Anita aveva riferito all’ex insegnante che la sua “verifica” non era stata favorevole. Il rapporto dichiarava che varie “persone di fiducia” condividevano l’opinione che l’insegnante non fosse abbastanza rivoluzionario per intrattenere rapporti con i turisti. Anita puntualizzò inoltre che lei avrebbe passato dei seri guai nel caso in cui lui fosse ricorso in appello. Raimond aveva chiesto l’identità dei colpevoli. Anita giurò di esserne all’oscuro. Il rapporto lungo un paragrafo non conteneva nomi.
“Mi dispiace, professore” disse concludendo il discorso. “So che lei è una brava persona, ma i fatti stanno così. Non posso farci nulla.”
Anche dopo aver inghiottito quel boccone amaro, Raimond non aveva preso in considerazione l’idea di trasferirsi negli Stati Uniti. La possibilità rimase latente nella sua mente, ma quando considerava la faccenda era evidente che ciò che desiderava realmente era porre fine a questo stato di cose: che persone sconosciute dietro porte chiuse potessero, su una base essenzialmente politica e con la piena immunità, prendere decisioni irrevocabili su esseri umani assenti era inaccettabile. Costoro potevano decidere a chi concedere la promozione, l’appartamento, la macchina nuova, o il corso d’aggiornamento all’estero. Chi poteva lavorare con gli stranieri e chi no.
4Chi era buono e chi cattivo.
Non c’erano mezze misure, essere rivoluzionari al novanta per cento non era possibile. Coloro che non approvavano ogni singola misura politica o di governo erano considerati potenziali nemici.
Ma questo non aveva nulla a che vedere con il luogo in cui era nato e con i suoi ricordi. Avendo trascorso la maggior parte della sua vita a Cuba, si sentiva profondamente radicato nella sua terra. La gentilezza propria della maggioranza della gente era impressionante, il rapporto tra le varie razze era armonioso, lo stile di vita leggero e romantico, le donne belle, il clima fantastico. Ma quante punizioni ingiuste può sopportare un uomo?
Troppo era troppo. Non avrebbe rifiutato un’offerta per cui milioni di suoi connazionali mettevano a repentaglio la propria vita. La decisione era presa. Stava valutando le proprie qualità in rapporto alle possibilità di lavoro negli Stati Uniti, quando la sua vescica lo sollecitò. L’insegnante si alzò, andò in bagno, e accese la luce.
Raimond non aveva mai sperimentato i postumi di una sbornia e, dopo lunghe considerazioni nel corso degli anni, era arrivato a credere che il suo corpo possedesse una specie di sostanza rara che neutralizzava l’alcol e lo liberava da mal di testa, bruciore di stomaco e occhi arrossati. Ma, per qualche strana ragione, la misteriosa sostanza non aveva funzionato, e si sentiva disfatto come un qualsiasi altro ubriacone. Solo quando raggiunse il letto, la sostanza sconosciuta fece effetto.
Mentre s’insaponava i baffi, Raimond si irritò con se stesso per aver bevuto troppo. Valdes aveva dovuto caricarlo su un taxi e dargli venti dollari per la corsa. L’insegnante maledisse contemporaneamente il rasoio usato e il pesos cubano, cartaccia senza potere d’acquisto, eccetto che nei negozi dello stato, dove regnavano le razioni stabilite e la quota non poteva essere superata in alcun modo. Il cambio ufficiale era pari, sebbene nel maggio del 1994, al mercato nero, con un dollaro si comprassero centoquaranta pesos. Il suo salario mensile equivaleva a 2,25 dollari, mentre, nei negozi riservati a tale valuta, una bevanda in lattina costava ottanta o novanta centesimi, e un paio di scarpe decenti quaranta o cinquanta dollari. Raimond finì di radersi, si lavò i denti con l’acqua, ritornò nella camera da letto e accese la luce.
Frugò nelle tasche dei pantaloni e con sollievo trovò 14,55 dollari insieme al suo grosso rotolo di cinquecento pesos. Mentre osservava le banconote americane, Raimond scosse tristemente la testa. Il resto di Valdes ammontava quasi a sette mesi di salario mensile di un insegnante. Trascorse qualche secondo per terra cercando la pantofola mancante, prima di ricordarsi che l’aveva gettata sotto una poltrona del soggiorno. Con le pantofole, indossò un paio di jeans tagliati e una vecchia camicia bianca a mezze maniche, poi entrò in un’altra stanza e capovolse la sua bicicletta per smontare la ruota posteriore. Un vicino che per vivere riparava camere d’aria apriva bottega verso le 6:00.
Raimond aveva quasi terminato quando udì tre colpi alla porta d’ingresso.
(Tutte le immagini utilizzate a corredo fotografico, sono state manipolate dall’autore e provengono, di massima, dalla rete – Programmi utilizzati: Adobe PS5 64, Topaz Professional, M Bullet Pro)
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21 pensieri su “Cuba

  1. Leggo, con piacere questo capitolo, che ha e contiene flash e situazioni interessantissime.
    Una freschezza che le fa onore.
    Ogni tanto, sbagliare la digitazione su Google di alcuni termini, è sinonimo di fortuna. Sto avendo la fortuna di leggerla e conoscerla.
    Buon weekend

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    • Preg.mo Dott. “MARE”,
      intanto la ringrazio per essere passato da qua, malgrado il caso fortuito.
      Come la ringrazio per avermi lasciato un commento, certamente, gradito.

      Deve sapere che, soprattutto per i nominativi a carattere anonimo, (come nel suo caso), un po’ per curiosità o per celia, vado a controllare mail di invio (non la divulgherò, ci mancherebbe) e indirizzo IP (non si sa mai, con tutta la gente “cattivella” che gira in rete).
      Nel suo caso lo stupore è stato grandissimo. Come grandissimo e stupefacente è stata la sua permanenza, per complessivi 23 Min. sulle pagine di questo umilissimo spazio web.

      Quindi dovrei essere contento, no?
      No, preg.mo Dott.
      Non sono rimasto contento, almeno nel modo.
      Mi spiego meglio.

      In un momento in cui fame, disoccupazione e piccole nefandezze quotidiane ci vedono coinvolti, in quanto cittadini quotanti la cosa pubblica (eccome), mi addolora rilevare come Lei, preg.dott, indugi per così tanto tempo su “Lord Ninni” tramite un apparato dello Stato (PC istituzionale) e quindi dalla cittadinanza ampiamente pagato.

      Nulla da ridire, per carità, se a carattere personale e con mezzi propri ….
      Mi perdoni queste due righe, ma sono sempre molto diretto.
      Grazie a lei per il passaggio e buon fine settimana.
      Le allego la pagina con lo screen del suo indirizzo IP attuale.
      Buona giornata

      ____________________________________

      .

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  2. Una bella pagina matura e scritta bene.
    Un interesse che va al di la delle apparenze.
    La seguo dottore.

    PS: sembrerebbe visionato da molto alto. Condivido le sue determinazioni in merito.
    Una bellissima e responsabile argomentazione.
    Buona sera

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  3. Ecco uno dei tuoi racconti al fulmicotone che mi ricordano i pomeriggi su Splinder.
    Siamo cubani eh?
    Bellooooo
    Aspetto la seconda puntataaaa (perché di seconda puntata si tratta, giusto?)
    Bacion bacioni…
    Bello il pesciolino che hai messo su… ah ah ah ah ah
    ;-)))
    Ciaooooo e buona domenicaaaaaa

    🙂

    La Manu

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  4. Ninni Ninni, io c’ero, io ho vissuto il GB e so, perfettamente, quanta passione ci mettevi proprio su Cuba.
    Il fascismo di sinistra (una sinistra non ben definita, dicevi)e ti seguivamo tutti e tutte come fossi il nostro Duce.
    Ricordo che dicevi anche:”mettete Mussolini al posto di Fidel e il risultato non cambia”.
    Avevi ragione e dopo tantissimi anni ho capito che, qualsiasi rivoluzione del popolo, ma che venga proprio dal basso, è uguale a quella che auspicavi tu sul modello cubano o italiano di Mussolini.
    Una rivoluzione che nasca dal dolore e sottomissione.
    Un qualsiasi dolore che nasca dalla distruzione dell’individualità, porta a costruire.
    La revolucion cubana (OGGI è LA FESTA DELLA REVOLUCION CUBANA) non è sovietica o comunista.
    Venne detta, dal Lider Maximo, una rivoluzione socialista e proletaria.
    Nel ventennio era proletaria e fascista.
    Questo spaccato mi rinvigorisce.

    Un romanzo (non potrebbe essere diverso) che vede la nascita sotto i migliori auspici.
    Non m’illudo, però.
    Ti conosco: tutto e il contrario di tutto per cui non mi faccio abbindolare dalle parole facili.
    Hasta luego mio signore.

    Un bacio e buona domenica al GB, ovunque sia.
    Ciao

    Isy

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  5. Beh, kompagno, detto da te non mi sconfinfera.
    Cuba e a carattere socialista, né sovietica, né comunista (anche se il PCC-Partito Comunista cubano, in questa infelice espressione, si definisce comunista).
    Differenze enormi, mr kompagno komunista.

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  6. Caspita che inversione di rotta … devo affrettarsi a leggere le altre puntate oppure perdo il treno … e mi dispiacerebbe perché qui si respira un’arietta che mi si confà… hasta lungo

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