Memoria liquida X

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1La cattedrale si levava maestosa dall’acquitrino come un dinosauro che emerge dalla mota. La foschia fluttuava a un metro da terra, tanto corposa da poterla stringere tra le mani come il cuoricino pulsante di un cucciolo. Aste ornamentali e maschere tribali lasciate lì a marcire da guerrieri estinti segnavano un percorso tra il fango. Oltre il tracciato, la tenebra pura.
Cadevo dal sonno, la visione offuscata da un peso inspiegabile sulle palpebre, ma arrancavo ugualmente verso le fauci della cattedrale.
L’interno era smisurato e rimbombava a ogni mio passo.
A osservarmi dai banchi c’erano il Grande Capo, Astreana, il Santo Padre, Zhu e De Crescenzo, perfino Paolo Tagliaferri, tutti inespressivi come bambolotti.
Attorno a me una cacofonia di voci, bisbigli, sussurri amorosi, lamenti, grida colleriche, ansimi, amplessi, le volte infinite di quella chiesa sembravano racchiudere tutti i rumori del mondo.
La Pam e Francesca mi attendevano a ridosso dell’altare. La prima in abito da sposa, la seconda con i dread legati in una coda alta, i denti anneriti dalla vita di strada.
La Pam allungò la sua minuscola mano verso di me e io gliela strinsi, avvertendo una scarica elettrica arrampicarsi come un goblin lungo la mia schiena. Non c’era felicità nel suo sguardo o gioia, nemmeno uno straccio di umanità, solo disperazione.
“Seguici nella cripta.”
Scendemmo una rampa dai gradini scivolosi, tanto che per non cadere dovetti sorreggermi alla parete.
Le catacombe penetravano nelle viscere della cattedrale. Più ci spingevamo in profondità, più quel budello assumeva l’aspetto di un incubo fetish. Ganci da macellaio ondeggiavano dal soffitto, manichini di cuoio ardevano crepitando senza consumarsi su bracieri arroventati, attrezzi ritorti e dal sapore medioevale stavano appesi ai muri stillanti umidità.
La mia ex moglie e mia figlia ridacchiavano e parlottavano a bassa voce tra loro, escludendomi.
“Aspettatemi…”
Si toccavano. La mano di Francesca accarezzava il fianco della madre e mentre lo faceva si voltava a guardarmi con espressione ammiccante. Più si stringevano, più i loro gesti si facevano audaci, coordinandosi in una bizzarra danza lesbica e incestuosa. Tra le pieghe della casacca intravidi le minuscole tettine da cagna di Francesca.
“Non ti curare di noi, papà…” disse Francesca con voce alitata, la voce di una fanciulla eccitata. La mamma le leccava il collo e le scostava i dread dalle guance. “Guarda nelle gabbie…”
“Sì, Manlio, guarda nelle gabbie” disse la Pam.
Brancolando al chiarore vermiglio dei bracieri raggiunsi la zona più recondita del tunnel.
Alla mia destra e alla mia sinistra si aprivano ipogei serrati da sbarre arrugginite.
Un gorgoglio, un raschiare ritmato proveniva dalle celle. Proveniva da loro, dai quattro mostri che le occupavano. Quattro abomini animali, quattro esseri stravaganti che mi studiavano dal fondo dei loro sepolcri.
Uno di essi grugniva. La sua carne era talmente deformata in pieghe innaturali che si era strappata in numerosi punti sino a mostrare il rosso vivo dei tessuti. Aveva innestati sottopelle degli oggetti sferici.
Poi c’era il pesce, o comunque la parodia di una specie ittica: una bocca spaventosa e senza denti era spalancata e tirata all’inverosimile da ami conficcati nelle labbra e nelle gengive.
Andando oltre mi avvicinai all’insetto. Le cicatrici esagonali che intarsiavano i suoi occhi erano rese lucide dalle lacrime. Aghi metallici, attorno ai quali erano proliferate fasce muscolari, erano conficcati nella spina dorsale e sorreggevano due protuberanze piatte e larghe simili ad ali membranose. L’estremità della proboscide terminava in un mulinello di cartilagine.
L’apparato scheletrico dell’occupante dell’ultima nicchia era stato ridotto in pezzi e modellato a piacimento di qualche prestigiatore della chirurgia. Il petto della bestia toccava il pavimento e sia le braccia che le gambe erano piegate al contrario, con gli angoli delle giunture rivolti verso l’alto. Delle vesti maculate erano cucite dentro la sua carne. Il mostro strisciava, cercando appiglio con le zampe anteriori. Nel muoversi mi mostrò la complessa scarnificazione dei suoi fianchi, trasformati in scaglie, affettati e infibulati.
I quattro esseri erano vivi e supplicavano. I loro versi esprimevano un codice primitivo.
Inorridito, mi voltai nella direzione della mia famiglia, implorando spiegazioni.
Le due donne mi raggiunsero ridendo. Ebbi la netta impressione che fossi io il motivo di tanta allegria.
“Dove ci troviamo?”
“Questo è lo zoo, papà” rispose Francesca. E la sua testa divenne immensa come una mongolfiera.
Mi svegliai di soprassalto, le mucose della bocca aride come il Sahara.
Maledissi mio nonno per il dono che mi aveva regalato: un briciolo di preveggenza.
Una sola certezza: Astreana non doveva mai più uscire disarmata.

2Poco prima di arrivare a Regina Coeli chiamai la mia collega. La visione del suo viso mi rinfrancò. Si era appena svegliata.
“Buongiorno!” dissi.
“Manlio… ma che ore sono?”
“Quasi le due, dormigliona…”
“Ho passato tutta la notte a leggere la Profonda difensiva di Amodio. Ti ho sottolineato le parti più significative…”
“Ti ringrazio.”
“Prova a leggerle all’Ispettore, magari può dirci qualcosa di importante…”
“Lo farò. Il nostro Brundlefly non si è fatto sentire?”
“No. Ma oggi è domenica, diamogli qualche giorno per riflettere. Se ne starà fuori porta con la sua famigliola.”
“Astreana…” la mia voce si frantumò dall’apprensione. Le immagini delle bestie umane nelle gabbie erano ancora vivide nei miei ricordi.
“Sì?”
“Da oggi in poi portati dietro la tua pistola d’ordinanza, ok? La mia sono stato costretto a riconsegnarla quando ho rassegnato le dimissioni e da semplice consulente non ho il diritto di girare armato.”
Lei si accigliò: “È successo qualcosa?”
“No, niente. Non ancora, perlomeno. Allora, lo farai?”
“Sì, certo. Anche se le armi mi mettono a disagio, ma se ti fa stare tranquillo… l’hai detto tu che il tuo stato d’animo ultimamente assume un andamento carsico…”
Lei sorrise. Anche io. Piccola Astreana… incominciavo a volerle bene.
“Allora ci vediamo dopo, ti chiamo tra un paio d’ore” dissi.
“Dove stai andando?”
Attaccai facendo finta di non aver sentito. Non desideravo darle alcuna spiegazione.
“Sto morendo. I dottori mi danno al massimo un mese di vita. Mi sto consumando dall’interno.”
Queste furono le prime parole che proferì Paolo Tagliaferri entrando nel cubo del colloquio.
“Quando l’hai scoperto?”
“Da un po’ di tempo, ma non è importante.”
Non sembrava cambiato. Non era dimagrito e la sua pelle non aveva assunto quella tonalità grigiastra che hanno i malati terminali. A prima vista era il solito pazzo schizoide di sempre.
“So già che, se esiste un inferno, brucerò tra le sue fiamme per l’eternità. E so anche che questo ti farebbe enormemente piacere” continuò.
“Certamente” gli concessi.
“Prima di andarmene, però, ho preparato per te una nuova dimensione di dolore.”

3Finalmente si parlava di qualcosa di serio. “Sei chiuso in questa fogna da anni, verme, cosa potresti aver tramato?”
“Qualcosa che ho predisposto prima che mi arrestassero. L’ultimo esperimento condotto su tua figlia” disse Tagliaferri senza riuscire a nascondere la soddisfazione.
“Perché non me ne hai parlato prima?”
“Vedi, amico mio, in questi mesi tu mi hai fatto domande per le quali pretendevi risposte chiare. Io provavo a fornirtele, ma non sempre trattavamo argomenti o sfaccettature della personalità di Francesca delle quali fossi a conoscenza. Ho triturato il tuo rapporto di coppia, l’ho digerito e rigurgitato. Ma ho sempre avuto l’impressione che la tua pena non fosse assoluta: non sono mai riuscito a liberarmi dall’idea che il tuo strazio non fosse veritiero.”
“Ma che cazzo stai blaterando, Tagliaferri?”
“Parlo dell’apice dell’esperienza, D’Altavilla, parlo della fine del segmento. La condizione ultima dell’angoscia. Posso regalarti la follia, qualcosa che ridefinirà i parametri dei tuoi sensi.”
Si era preparato una presentazione roboante. Avrei accettato come una liberazione qualsiasi novità avesse significato totale privazione di controllo mentale. Esaurite le sofferenze prosaiche, non mi restava che una nuova enunciazione di delizia.
“Sarebbe?”
“C’è un posto, oltre la zona allagata, dove è nascosto un portatile…”
Lasciò la frase a mezz’aria. Bastardo!
“Un portatile? Che portatile?”
“Un computer, hai presente? E in questo computer è registrata una Base Profonda…”
“Di chi?”
“Di tua figlia, D’Altavilla. Lì dentro è conservata la riconfigurazione di Francesca!”
La stanza divenne un turbine.
Signore e signori, mi era appena arrivato un destro alla bocca dello stomaco!
“Mi prendi per il culo? Tu non hai mai avuto le conoscenze e la tecnologia per fare una cosa simile!” ringhiai. “Tu e la tua comune di deficienti fricchettoni fuori tempo massimo passavate il tempo a farvi le seghe sul web!”
“Amico mio, povero stupido ignorante, tu non hai proprio la più pallida idea di ciò che si può fare illegalmente nella kasba portandosi dietro una ragazzina consenziente…”
L’emozione aveva spento nel mio cervello qualsiasi capacità di analisi.
Quando riaccesi il videofonino la compagnia telefonica mi informò gentilmente che Astreana mi aveva cercato mentre la mia utenza non era raggiungibile.
Mi parve di vedere sulla sponda del Tevere il vecchio cencioso in giacca da camera che mi aveva fermato prima della mia precedente visita in carcere.
Ero tanto assorto nei miei pensieri che quando partì In the Court of the Crimson King per poco non mi prese un infarto.
“Astreana…”
“Manlio, ma dov’eri? Brundlefly mi ha lasciato un messaggio in codice sulla segreteria… ha usato dei riferimenti a un film di Godzilla per darci appuntamento… un tizio veramente interessante…”
“Splendido…” feci senza entusiasmo.
“Ma che hai?”
“Niente, scusa, ma per il momento non posso dedicarmi alle indagini…” risposi, accelerando il passo.
La macchina, dovevo raggiungere la mia auto. Entrare, partire, levarmi di mezzo, levarmi dal cazzo e andare da mia figlia…
“Se il giornalista ha acconsentito a incontrarci vuol dire che ci rivelerà qualcosa di forte, qualcosa che potrebbe spingerci…”

4La interruppi.
“Fatti accompagnare dal Santo Padre. È una persona fidata. Spiegagli sommariamente come stanno le cose. Non ti farà troppe domande, lo conosco da sempre. Se c’è una persona di cui ti puoi fidare è lui.”
Astreana rimase muta a fissare lo schermo del videofonino.
“Il Santo Padre? Ma se a malapena si regge in piedi? Spero tu stia scherzando… Manlio, ma che diamine ti è successo?”
“Devo andare nella zona allagata. Subito.”
“Nella zona allagata? E a fare cosa?”
“Presentati al Bar Mocambo appena apre, il Santo Padre lo troverai certamente lì, praticamente ormai fa parte del mobilio. La sua bottega dei nuovi fori oggi è chiusa, altrimenti potevi andarci subito. Te lo ricordi, no? Lo riconoscerai?”
“Sì, ma…”
“Vai armata, Astreana… ho un bruttissimo presentimento… io devo andare…”
Il sole del tardo pomeriggio pugnalava il parabrezza della mia Toyota.
La nuova Roma-Fiumicino, costruita in fretta dopo l’esondazione del 2012, si protendeva parallelamente e solo leggermente sopraelevata rispetto alla vecchia autostrada.
Durante il primo decennio del duemila la zona sud ovest della Capitale aveva attraversato un periodo di sviluppo urbanistico abnorme. Si stava compiendo, dopo quasi un secolo, l’idea mussoliniana di estendere la Terza Roma sino alle soglie del Tirreno, facendo assomigliare la Città Eterna a una grande stella cometa. L’esperimento darwiniano si era risolto in un cataclisma epocale che aveva seppellito interi quartieri e quasi reso inutilizzabile l’aeroporto più importante d’Italia.
La selezione della specie si era basata su assunti economici: benvenuti nel ventunesimo secolo!
E laggiù, tra le rovine di una civiltà ingrassata ed egoista, tra le macerie e gli scarti suppuranti della metropoli, in fondo a quel pozzo di lacrime e mancanza di prospettive, laggiù era conservata la Profonda della mia bambina! Tagliaferri non aveva mentito, non avrebbe potuto!
In quali condizioni sarebbe stata la Base Profonda di Francesca?
La riconfigurazione non era stata effettuata da un professionista e questo già non era un elemento positivo. Se anche le Basi Profonde informatizzate direttamente dall’equipe di Huang e Sinatra in molti casi non erano altro che blocchi chiusi di schegge di pensiero, chissà che pasticcio rischiava di aver combinato un pirata in un cesso di laboratorio nella zona allagata!
Dovevo fare tabula rasa nella mia testa. Ero felice. E atterrito.
Un particolare, soprattutto, mi dava i brividi: la computerizzazione delle connessioni neurali di Francesca era avvenuta dopo che il suo aguzzino l’aveva portata nella Città delle Scatole, dopo che decine di malati mentali e barboni l’avevano assunta a Madonna della palude.
In quale stato psichico si era sottoposta al trattamento?
Premetti sull’acceleratore.
Tagliaferri mi aveva fornito indicazioni precise.
Accostai in una piazzola di fronte a una fila di capannoni bassi di lamiera. Avevo bisogno di un caffè. Il bar era uno di quei tipici posti di frontiera sorti lungo le grandi arterie di scorrimento, semibuio e ammorbato dall’odore di stracci bagnati.
Oltre al barista, un uomo grasso e dall’aspetto laido, il classico guardone da giardinetti, era presente un solo avventore, un tipaccio butterato e malvestito. Mi pentii immediatamente di essermi fermato, ma ormai ero dentro e mi sentivo in obbligo di consumare qualcosa.
I due smisero di parlare non appena si accorsero della mia presenza. Trassi un profondo respiro inalando l’aria viziata e raggiunsi il bancone a lunghi passi esibendo uno studiato sorriso di circostanza.
“Buongiorno, mi fa un caffè?”
In quel momento non avrei mai potuto immaginare che quella breve sosta in quel tugurio mi avrebbe salvato la vita a distanza di settimane.
“Solo?” rispose il ciccione. Evidentemente riteneva di essere oltremodo spiritoso.
Colpetto di tosse scenico. “Mi dia anche un pacchetto di Big Babol.”
Mi è sempre piaciuto fare i palloncini con la gomma da masticare!

5Mentre mi preparava una risciacquatura di piatti spacciandomela per caffè, il grassone appoggiò cinque salsicciotti pelosi sul piano di marmo. Quei ciuffetti di pelo mi ricordarono le mani del mio professore di matematica del liceo, circa un milione di anni prima.
Diedi un’occhiata alla sala deserta.
“Pochi clienti, eh?”
La mia boutade crollò nel silenzio. Da qualche parte un bambino urlò.
“Dov’è diretto?” mi chiese il cliente butterato e malvestito.
“All’aeroporto” mentii. “Questioni di lavoro. Forse mi fermo per la notte. Il tramonto sul mare è bellissimo… soprattutto dopo l’incendio alla raffineria, sapete? Evidentemente qualche sostanza chimica è rimasta sospesa nell’atmosfera e riflette la luce come un prisma. È uno strano effetto…”
“Sarà” mi rispose l’altro con noncuranza. “Non vado mai al mare.”
“Nemmeno io, sinceramente…”
Di nuovo alla guida.
Quanto mi separava da Francesca? Due ore? Cosa sono due ore? Un filmetto della domenica pomeriggio, cinque puntate di una soap opera.
Era una sensazione talmente eccitante che mi artigliava le viscere. Proprio quando tutto sembrava irrimediabilmente perduto…
Scavavo a mani nude le pareti di una grotta. C’ero io. E c’era lei. E tutto era speciale, adesso. Scoprii Francesca in un altopiano sconfinato, anteriore all’Eden, e la mia bambina odorava di amido, di cuoio intriso di sudore, di carta, di indumenti stesi. Al sicuro in un bunker, la stringevo al petto e le sussurravo parole tenere mentre fuori la città veniva bombardata.
Un cartello di lavori in corso segnalava la riduzione della carreggiata.
Le mani serrate attorno al cerchio vinilico del volante, seguii la traiettoria.
Un furgone con scritto a caratteri cubitali sul portellone posteriore Pescheria Masaniello mi bloccò l’andatura. Quel pachiderma non voleva saperne né di accelerare, né di lasciarmi passare.
“E forza, cammina!”
Azzardai il sorpasso, ma il sole basso sull’orizzonte mi accecò. Battei in ritirata, picchiando per la frustrazione il pugno sul sedile del passeggero.
Riprovai a togliermi dalle scatole quel cadavere appena mi sembrò di avere uno spazio sufficiente per buttarmi.
Diedi gas…
Accadde l’inaspettato, l’evento incontrollabile che ti porta a sopravvivere all’attacco di uno squalo bianco, a conquistare la donna della tua vita, a schivare casualmente un proiettile vagante: uno dei bracci dell’avantreno si spezzò e il pneumatico posteriore destro schizzò oltre il guardrail. Cercai di tenere la strada, sterzando disperatamente, ma ormai avevo perso il controllo. Mi irrigidii.
Alle mie spalle non proveniva anima viva e il conducente del furgone, abbagliato dai raggi, non si avvide della macchina che dietro di lui sfondava una transenna e si tuffava giù lungo la china del terrapieno.
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17 pensieri su “Memoria liquida X

  1. La bellezza incontrastata della scultura della parola. Forma e modelli che si insinuano nella ment e trascinano in quella realtà che non conosciamo.
    Grazie, milord, per queste pagine.
    Buona giornata

    Susi

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  2. Un bel capitolo, dottore. Complesso e che fa riflettere. L’ho letto quasi in un soffio, me sono tornto a leggere. Il suo capitolo, oggi, è come quella letteratura andata e ritorno. ogni volta che si legge si trova qualcosa di nuovo.
    Intellettualmente impegnato.
    importante.
    Grazie

    Furio

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