Memoria liquida XXI

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1“La testimonianza” (prima parte).
Sono sempre stato un individuo gretto e materialista.
Ho avuto due mogli, ma non le ho mai amate. Ho tre figli che non si degnano più nemmeno di darmi gli auguri a Natale e che ho scientemente allontanato dalla mia vita fino a renderli degli sconosciuti. Non sono neppure mai stato un uomo coraggioso: ho scelto l’avvocatura perché era il campo lavorativo di mio padre e sapevo che al suo pensionamento lo studio sarebbe diventato mio, assieme a un pacchetto di clienti di assoluto rispetto. In gioventù ho cincischiato all’università tra feste, donne e alcol, concentrandomi sugli esami quel tanto che bastava per strappare il minimo indispensabile, verbalizzando una sfilza di diciotto e venti. Ero perfettamente consapevole che la mia insulsa carriera accademica non avrebbe nuociuto in alcun modo alle mie possibilità future: un impiego al fianco di uno stimato principe del foro mi era assicurato per diritto di nascita.
Senza il fuoco della passione né per il mio lavoro, né tantomeno per i miei famigliari, ho trascorso un’esistenza fatta di appartamenti di lusso, giovanissime amanti, passeggiante in centro e interminabili aperitivi.
Ho sempre provocato negli altri una certa antipatia. Devo confessare che non risultai molto simpatico neppure alle due signore che mi sposarono: entrambe usarono nei miei riguardi appellativi non proprio edificanti quali viscido, mellifluo, ambiguo, porco. Ho fatto di questa mia ambiguità, del mio essere un voltagabbana nato, un’infallibile arma di conquista: le donne le ho frequentemente illuse e appena incominciavano a stancarmi (ho un carattere molto volubile e portato alla noia) gettavo loro qualche briciola per rabbonirle. Due camere e cucina in una zona residenziale, un fisso mensile e potevo anche dimenticarmene.
La mia storia inizia nel 2016. Pressappoco due anni fa.
Finito il mio secondo matrimonio, mi ero trasferito in un vecchio palazzo di Monteverde Vecchio, un edificio aggrappato come un rampicante al ciglio di un’altura.
Mi ero innamorato di quell’appartamento nell’attimo in cui l’agente immobiliare (detesto gli agenti immobiliari e il loro abbigliamento esasperatamente elegante senza la minima ricercatezza) mi aveva introdotto nel grande salone. Il parquet chiaro risplendeva ai raggi del sole pomeridiano, l’ampio balcone con la ringhiera di ferro battuto era rivolto verso Trastevere. Non ebbi dubbi, lo acquistai il giorno successivo.
Seduto sul divano rosso di pelle di fronte alla finestra, scrutavo i tetti della città, pacificato dall’immobilità del panorama urbano. La stabilità delle costruzioni, il loro ergersi imponenti dal brulichio sporco delle strade mi infondeva un senso di calma.
Da bambino corpulento e indisponente, mi ero evoluto in un uomo profondamente triste, sciatto, invecchiato prematuramente, trasandato e inevitabilmente solo. Il mio aspetto tendeva al malaticcio, la mia mente alla distrazione: bevevo troppo e non facevo moto. Quando mi specchiavo, leggevo nei miei occhi un brulichio di ansie complesse. I miei pensieri si affollavano di inquietudini.
Conobbi Kim una sera di novembre, lo rammento con precisione.
Era stata una giornata molto faticosa allo studio: due praticanti, ai quali avevo affidato un compito estremamente delicato confidando, a torto, nelle loro capacità, avevano combinato un pasticcio e questo rischiava di crearci dei problemi diplomatici con uno dei nostri migliori e più affezionati clienti. Stanco e infreddolito (aveva diluviato ininterrottamente dalla mattina) mi ero preparato un bagno bollente e, uscito profumato dalla vasca idromassaggio, avevo sorseggiato un whisky guardando il vento autunnale schiaffeggiare le cime dei platani.
Non era la prima volta che affittavo un’accompagnatrice. Lo stress del lavoro bastava a riempirmi la testa e quella sera avevo solo voglia di puro sesso senza problemi. Al contrario delle altre occasioni nelle quali mi ero tenuto compagnia con indossatrici ventenni, in quel momento desideravo una puttana di basso livello, volevo una giovane donna sfruttata e con lo sguardo colmo di infelicità, non un’arrogante modella prestata alla prostituzione.
Visionai qualche annuncio su Internet e la scelsi. La chiamai e lei si rese disponibile per una cifra esigua visti i miei standard. Dovevo pagarle il taxi per andare e venire, certo, non era un problema. Era italiana, ma non di Roma. Dall’accento avrei detto fosse umbra, o marchigiana.
Quando la feci accomodare in salone non mi colpì particolarmente. Mi strinse la mano e si sedette sul divano. Proferì qualche convenevole insulso tipo: “È bello qui… complimenti per la casa…”
Sistemammo rapidamente l’aspetto economico e ci recammo in camera da letto. Mi disse di avere vent’anni e di chiamarsi Kim, ma, come scoprii in seguito, era leggermente più grande. Mi offrì del freddo e professionale sesso a pagamento. Rimasi soddisfatto, anche se si era trattato solo di ginnastica. La mandai via piuttosto bruscamente e mi feci una doccia. Mentre saggiavo il getto bollente con la mano, mi tornarono alla mente i suoi occhi da gatta, i suoi capelli sfibrati pettinati da punk e i suoi piercing di cattivissimo gusto. E, quasi senza rendermene conto, mi sentii nuovamente eccitato.
Nel mese successivo la chiamai non meno di tre volte alla settimana. Il cinismo del primo incontro si sciolse e Kim mostrò interesse per me e per la mia attività. Voleva sapere dei miei matrimoni, dei miei figli: ero cresciuto a Roma? Ero felice? Come impegnavo il tempo libero?
I nostri appuntamenti erano sempre accompagnati dal sesso e dal susseguente pagamento della prestazione, ma considerare che nulla tra noi fosse cambiato e che si trattasse ancora di un gelido rapporto cliente-prostituta avrebbe significato negare l’evidenza.
Non mi parlò del suo fidanzato fino a quando non decidemmo di intraprendere una convivenza. Fino ad allora, Kim era stata molto abile a gestire due relazioni parallele.
La mia disponibilità economica aveva sciolto facilmente i suoi dubbi.
Scegliere un coetaneo senza un soldo in tasca e poche possibilità di futuro o un uomo adulto con una posizione sociale stabile e perfettamente introdotto nella borghesia cittadina?
Senza troppi ripensamenti o patemi d’animo, finì per dividere il letto con il sottoscritto.
Ma probabilmente sto anticipando i tempi. Cercherò di rendere la narrazione più lineare, semmai qualcuno, per caso o per errore, dovesse leggere ciò che sto scrivendo. Lo sto facendo soprattutto per me, non ho alcuna pretesa di pubblicazione e nessun editore pronto a dare alle stampe il mio manoscritto: buttando sulla pagina la mia storia, la mia storia e quella di Kim, s’intende, mi auguro di riuscire a capire cosa mi abbia spinto a trasformarla in… beh, in quello che è adesso…

6Il giorno seguente mi attendevo una convocazione al dipartimento. Con mio immenso sollievo, invece, il telefono rimase muto. Non ero così ingenuo da ritenere che tutto si fosse sistemato: quasi certamente il Grande Capo stava aspettando i risultati di laboratorio sui campioni organici e inorganici prelevati dalla mansarda di Brundlefly.
Ingannai l’attesa lavandomi i denti – dopo dodici ore avevo ancora in bocca il sapore fermentato di quel kebab infame – e facendo due bagni. Le undici di sera erano lontanissime e dovevo trovare qualcosa con cui occuparmi il cervello.
Pranzai. Maccheroni al pesto pronto del discount in pratica vaschetta monodose.
Guardai un po’ di televendite in TV e mi godetti la millesima replica di Girls-damned su TeleRoma56.
Sfogliai due libri che mi aveva lasciato mio nonno. Si trattava di quei testi che di solito regalano le banche, mattoni indigesti su argomenti futili: I papi marchigiani, Palazzo Sciarra, La storia dei rioni di Roma.
Irritato dalla medusa pallida della noia, considerai anche di fare un salto nella bottega del Santo Padre e farmi aprire un nuovo foro.
Astreana si era dissolta nel giorno feriale.
Ascoltai un po’ di musica.
Le solite cose mi penzolavano nella mente come filo spinato: la Pam, Francesca, il Vate e la sua testa esplosa, Gomez Addams, il Gran Maestro.
Salii e scesi le scale condominiali tre volte. Mi imposi di non lasciarmi prendere dallo sconforto rammentando la conversazione con la Base Profonda di mia figlia. Ci riuscii, ma a metà pomeriggio venni colto da un attacco di diarrea fulminante. Colpa della tensione, colpa dei nervi.
Allora andai a fare shopping. Prima però passai a dare un’occhiata alle chitarre e ai bassi dai fratelli Bandiera.
Non entravo in un negozio di abbigliamento da quando la Pam mi aveva mollato.
Resistetti mezzora. Poi scappai urlando all’ennesima richiesta di una commessa miss culetto d’oro: “Posso esserle utile?”
Rimasi imbambolato a guardare il pizzardone di piazza Venezia che regolava lo scorrimento del traffico con fluidi e suadenti movimenti delle braccia, impassibile e distaccato, mentre attorno alla sua isoletta soprelevata automobilisti inferociti dall’attesa bestemmiavano e sollevavano forti dubbi riguardo alla fedeltà della di lui signora.
In via del Corso comprai una rosa da un ambulante indiano e la regalai a una ragazzina che fumava annoiata una Pall Mall seduta sui gradini di una delle chiese gemelle di piazza del Popolo.
Entrai in un megastore di libri e musica. Presi l’ultimo mattone di King senza nemmeno degnarmi di leggere la quarta di copertina. Sapevo che mi sarebbe piaciuto a priori.
Tagliando per Fontana di Trevi risalii sino a via Nazionale. Bevvi una Guinness in un pub per turisti. Un’inglesina niente male mi scoccò un bacio. Ricambiai.
Il tempo era immobile.
Cercai il barbone in giacca da camera nei pressi dell’ospedale Santo Spirito. Niente.
Lessi le prime pagine del libro a cavalcioni sul parapetto del Quirinale.
Prima che tutto fosse finito dovevo tornare all’albergo Regina a trovare Tagliaferri.
Sì.
Fare visita a Paolo Tagliaferri.
Un’ultima volta.

3Il man-in-the-middle consiste in questo: l’hacker intercetta il traffico tra utente e server e inizia a sniffare i pacchetti che viaggiano bidirezionalmente tra le due parti. L’attacco ha il fine di far credere all’utente di comunicare con il server e al server (nel quale sono contenuti gli ambienti virtuali) di rispondere all’utente, mentre nel frattempo l’hacker intercetta il flusso di informazioni. Nel vernacolo dei pirati informatici è conosciuto anche col nome di Janus Attack, per via del parallelismo con Giano Bifronte.
Conoscevamo tutto: l’IP della postazione dell’avvocato Vanni, l’orario in cui si sarebbe collegato alla cripta e i nickname di ogni membro.
Ci trovavamo nuovamente nel furgone del Santo Padre, parcheggiati nelle vicinanze della villetta. Questa volta eravamo decisamente su di giri. Dovevamo agire in fretta. Quanto tempo ci restava prima che il dipartimento ci piombasse addosso?
“Riesci a sostituirti a Minosse?”
“Certo…”
“Fammi capire: noi penetreremo nella cripta al posto di Vanni e lui nel frattempo che farà?”
“Si perderà nella simulazione che gli rispedisco indietro. Avrà lo stesso aspetto dell’ambiente nel quale sono soliti riunirsi. Non troverà nessuno ad attenderlo, ma ci metterà un po’ a capire di essere collegato con una scatola vuota. Non durerà a lungo, ma dovremmo avere il tempo sufficiente per entrare in contatto con i Signori delle Catacombe.”
Ore 23.00.
“Minosse è on line… entriamo…”
Di fronte a noi si spalancò un’autostrada in mezzo al deserto.
Grandi cactus spuntavano tra le dune e il vento sollevava turbini di sabbia.
Eravamo stati catapultati in una simulazione incredibilmente realistica.
Osservavamo quell’universo virtuale dalla soggettiva dell’alter ego dell’avvocato Vanni. Il Santo Padre guidava i movimenti dell’avatar con rapidi spostamenti del mouse.
“Non difficile” mormorò tra sé.
Non troppo lontana, seminascosta dalle nuvole basse e da alcuni palmizi, si ergeva una costruzione color bianco sporco vagamente arabeggiante.
“Deve essere lì” disse Astreana.
Un’insegna spenta e cadente recitava: Hotel California.
Oltrepassammo una cancellata arrugginita e una piscina vuota, nella quale erano state gettate delle sedie a sdraio sconquassate e dei manichini.
“Gli altri dove sono?”
“Non ne ho idea” disse il Santo Padre.
“Ci avranno scoperto?”
“Così rapidamente è impossibile…”

13Una luce si accese dietro una grande finestra al primo piano.
“Sono già di sopra” disse Astreana.
Il bancone di legno del portiere cadeva a pezzi, divorato dagli insetti. Alle pareti stavano appesi oscuri pannelli sui quali erano disegnati i segni zodiacali e da qualche parte ticchettava un orologio a pendolo. L’arredamento era anonimo e rozzamente rifinito.
Chi aveva programmato quell’ambiente ci si era dedicato con cura maniacale: lo squallore del mobilio era certamente voluto. L’architettura stessa dell’hotel appariva sgradevole e vacillante. Era un ritrovo di cannibali in mezzo al nulla, un luogo pauroso dove nessuno ti avrebbe sentito urlare.
Dall’esterno giunsero rumori di tempesta. Udimmo porte sbattute, il pianto di un neonato, tonfi, una radio lontana che suonava gli Eagles, un suono continuo e formicolante, come se qualcuno stesse grattando sulle pareti.
La parte superiore del corrimano era consumata e gli impolverati tappeti erano lucidi dove era più frequente il passaggio dei visitatori. Le assi gemevano al nostro passaggio.
“Impressionante…”
Giunti al piano superiore notammo due corridoi speculari che si perdevano nella semioscurità a destra e a sinistra. Lungo i muri del corridoio di destra si aprivano le camere dell’albergo numerate da uno a sedici. Dalla parte opposta il corridoio di sinistra proseguiva rettilineo fino a una grande porta chiusa.
Una donna uscì da una stanza. Non ci notò subito, poi quasi sobbalzò quando si accorse della nostra presenza. Indossava un’ampia gonna di pizzo color vinaccia e un corpetto che le metteva in risalto i seni generosi. Ostentava un’acconciatura talmente fastosa che avrebbe fatto furore in un ballo nella Vienna del Settecento.
Nell’Hotel California ognuno era ciò che desiderava. Nell’Hotel California il tempo non scorreva come negli altri posti. Una volta dentro, dall’Hotel California non se ne usciva.
“Ah, sei tu” fece la dama. “Mi hai fatto spaventare…”
Chissà come ci vedevano gli altri. Chissà quale aspetto aveva scelto l’avvocato Vanni per il suo avatar.
“Sei ancora qui? Sbrigati, gli altri sono già nella sala. Manchiamo solo noi…”
La voce della donna scaturiva chiara e vibrante dagli speaker.
Mentre il Santo Padre guidava Minosse verso il salone, io, nella realtà, dissi: “Meglio non sovrapporci al microfono. Parlo io durante la riunione. E mi raccomando, registriamo tutto…”
Alcuni adepti sedevano attorno al grande tavolo, altri erano in piedi e parlottavano a bassa voce. Il mormorio si interruppe quando facemmo il nostro ingresso. Ci venne incontro un uomo sui cinquanta in un raffinato abito scuro. La definizione grafica delle sue espressioni facciali era minuziosa.
Alle mie spalle Astreana sussurrò: “Quatermass…”
Quatermass disse: “Ho già accennato qualcosa al Coniglio Psicotico. Non preoccuparti…”
In quel gruppo di alter ego virtuali c’era qualcosa di accozzato, di carnevalesco, di caotico. Sembravano una comitiva di bambini stupidi a un’equivoca festa in maschera. La sensazione era quella di un manicomio nel quale i pazienti, abbandonati a se stessi e avviluppati dal delirio, avessero organizzato un risibile veglione.
“Che sta facendo l’avvocato?” chiese Astreana.
“L’ho appena introdotto in un ambiente virtuale che ho copiato dal panorama del deserto. Ho moltiplicato per dieci il tratto dell’autostrada, incollando un estratto dopo l’altro. Sono tutti identici, ma non credo che Vanni se ne possa accorgere. In questo momento sta vagando in un deserto simile a un pianeta morto… e si starà certamente chiedendo cosa diamine sta succedendo” rispose il Santo Padre senza riuscire a celare un ghigno soddisfatto.
Ci sedemmo tra Quatermass e un uomo in calzamaglia e mantello. Di fronte avevamo una donna (almeno sembrava una donna, dal momento che il suo corpo nudo possedeva le fattezze di una top model) con la testa metà gatto e metà orchidea. Accanto all’ibrido si era accomodata la dama che avevamo incontrato poco prima in corridoio e un diavolo con un paio di enormi corna a spirale e la bocca triangolare, dalla quale affiorava una fila di zanne aguzze.
Mi chiesi chi tra quei personaggi fosse l’autore della lettera che avevo letto nella Comunità di Priori.
Forse il ciclope? O forse l’iniziato che per avatar aveva scelto un canguro con i guantoni da pugile? E se invece il maniaco fosse stato quel tremendo vecchio con la barba da eremita e il corpo interamente flagellato da affilate lastre romboidali conficcate nella carne?

6Il Coniglio Psicotico, corpo da uomo e testa, appunto, da coniglio bianco con gli occhi iniettati di sangue, prese la parola. Seduta al suo fianco, una porno infermiera dall’espressione annoiata si limava le unghie.
“Signori,” iniziò il Coniglio Psicotico, “come sapete, un nostro adepto, Orca…”
In molti si voltarono in direzione del mammifero acquatico che stava eretto sulla coda ed emetteva squittii topeschi. Per ringraziare gli astanti della considerazione tributatagli, Orca estrasse dalle fauci oblunghe una bavosa lingua seghettata.
“Orca ha chiesto ufficialmente di poter ampliare la sua personale collezione. Ricordo che diversi tra voi possiedono già due bestie, quindi, almeno per quello che mi concerne, non ho alcuna controindicazione ad accettare la sua richiesta, stante naturalmente il pagamento della somma già pattuita per la lavorazione precedente…”
“Questo è ovvio…” disse Quatermass rivolto a noi.
“Ci mancherebbe…” ribadì il diavolo.
La votazione avvenne democraticamente per alzata di mano. Tutti diedero il loro assenso, noi compresi, per non dare nell’occhio. Anche se molto presto saremmo dovuti uscire allo scoperto.
“Orca,” continuò il Coniglio Psicotico, “ci ha già segnalato un nominativo. Abbiamo precauzionalmente dato mandato a chi di dovere di accertare la fattibilità della cosa…”
La manovalanza… tra cui Subcomandante.
“Durante la festa organizzata per dopodomani sera dovremmo già avere una relazione in proposito…”
Applauso. Secondo punto all’ordine del giorno.
Era il nostro momento.
“Come molti di voi già sanno, uno dei nostri ultimi iniziati in ordine di tempo, Minosse, ha avuto un contrattempo piuttosto seccante. Sembra che un giornalista molto ben informato si sia presentato alla sua porta facendogli strane domande… Senza che entri nei particolari, voi immaginerete l’argomento… ecco, è il caso di dire che Minosse ha reagito alle insinuazioni dell’uomo in maniera quantomeno esagerata… Non credo che questo problema possa in alcun modo crearci dei fastidi, ma inviterei tutti voi a evitare le imprudenze…”
Era il momento di intervenire. Dissi al Santo Padre di far alzare l’avatar e di posizionarlo in un angolo della sala, in modo da avere la visuale di tutti gli adepti.
“Il capo ha confermato quello che in pratica già sapevamo.”
Sul muso animalesco del Coniglio Psicotico si dipinse un’espressione stupita molto umana.
“A cosa ti riferisci, Minosse?”
“All’omicidio del giornalista. Senza contare le decine di rapimenti che possiamo ricollegare alla vostra allegra brigata… è bellino questo posto. Molto indicato alle vostre attività…”

2Gli avatar seduti attorno al grande tavolo si mossero a disagio. Il vecchio con la barba da eremita balzò in piedi e le sue scaglie rifletterono la luce virtuale del salone.
“Vanni, ma cosa…” fece Quatermass, ma si interruppe.
“Silenzio! Non si fanno nomi!” urlò il Coniglio Psicotico. Poi si rivolse a noi: “Questo è un ambiente privato, lei non è stato autorizzato a collegarsi…”
“Su, su, non perdiamoci in beghe burocratiche, le pare?”
“Chi siete? Devo immaginare che siate più persone, visto che parlate al plurale…”
“Solo io e mia moglie. Ci piace il vostro gioco, l’abbiamo scoperto per caso.”
“Come avete fatto ad accedere a questa Rete?”
“Non è stato difficile rubare le informazioni a colui che normalmente occupa questo personaggio. Ve l’ho detto, sappiamo molte cose sulla vostra setta. Certo, ci sfuggono dei particolari, ma non potete immaginare quante persone stiano stringendo il cerchio attorno alle vostre pagliacciate…”
“Questo non ci risulta…”
“Avete dei contatti con le persone giuste all’interno delle istituzioni, sappiamo anche questo. Ma dateci retta, non siete così inafferrabili. La nostra presenza qui ne è la dimostrazione…”
“Rintracciamo questo buffone” disse il ciclope. “Lascerà la sua Base informatica sul server che ci ospita, non sarà difficile trovare da dove trasmette.”
“Fossi in voi rivedrei i vostri sistemi di sicurezza. Sapete benissimo che seguendo il nostro collegamento arrivereste solo all’indirizzo di Minosse… che Quatermass immagino conosca senza bisogno di sofisticate apparecchiature informatiche… e non vi pare incosciente scambiarvi dei semplici documenti word dove c’è scritto per filo e per segno quello che fate?”
“Cosa sta dicendo?” chiese il diavolo. “Quali documenti? Ci era stato espressamente vietato…”
“Io mi disconnetto” disse la dama.
“Anche io” disse il canguro coi guantoni.
“Non mi piace, non mi piace…” fece un adepto in uniforme nazi. “Ho le competenze adatte per cancellare ogni prova dei miei accessi a questo ambiente virtuale. Non credo sentirete più parlare di me…”
Orca ci si fece vicino e protrasse la lingua frastagliata verso di noi in segno di scherno. Batté festosamente le pinne: più che un’orca sembrava un delfino ammaestrato.
“Aspettate! Aspettate!” gridò il Coniglio Psicotico.
Ma il nazi si era già disconnesso e la sua sedia era vuota. Gli altri rimasero al loro posto.
“Minosse mi ha inviato una sorta di Profondale. Un’autobiografia. Mi ha chiesto di leggerlo e di sottoporgli un giudizio. Si tratta della cronistoria di come è nata la sua passione per la ragazza che ha ora nel suo zoo…”
“Zitto! Stai parlando troppo” gli intimò la porno infermiera.
“È stata un’imprudenza accettare il suo documento. Ho ceduto alle sue moine. Non esiste un’emozione che possa rendere un uomo un burattino più del sentirsi compiaciuto.”
“Niente è compromesso” feci dire a Minosse. “Non siamo qui per mettervi nei guai. Avremmo già potuto farlo, se avessimo voluto… abbiamo letto il racconto, sappiamo cosa fate, conosciamo il vostro passatempo…”
“Cosa volete?” chiese il Coniglio Psicotico.
“Solo essere invitati alla festa di dopodomani…”

5Più tardi, seduti sul muretto di fronte al dormitorio cristiano, silenziosi e vagamente stravolti dalla piega che stavano prendendo gli eventi, io e Astreana parlammo della zona allagata. Le raccontai minuziosamente della mia segregazione. Le raccontai anche della Base Profonda di Francesca.
La notte marciava a grandi passi, cancellando i miei ricordi.
Man mano che raschiavo i recessi più polverosi della mia mente, mi ero accorto che un’ombra si era allungata sui miei pensieri. Come accade dopo una lite furiosa o dopo un evento traumatico, le immagini erano fuggite via.
“Nella kasba ci sono laboratori di riconfigurazione clandestini…”
“Ne ho sentito parlare…”
“Qual è il parametro per giudicare se le proprie azioni sono giuste o sbagliate?”
“Vuoi dire che ti penti di aver cancellato la Base di Francesca?”
“Quello che ancora mi sfugge, e che forse se l’avessi interrogata con maggiore attenzione mi sarebbe stato finalmente chiaro, è il perché, il perché di tanta avversione…”
“Continui a girarci intorno” disse Astreana.
“Sai, a volte cerco di concentrarmi e mi accorgo che è tutto sempre più fosco. Non saprei più descriverti i suoi lineamenti, non saprei dirti neppure di che colore erano i suoi occhi. Come muoveva le mani? Come inclinava la testa?”
“È una fortuna che i ricordi svaniscano…”
“Così svanisce anche la persona, però…”
“No. Quella la porti dentro. E non importa che tu non riesca a far riaffiorare i particolari. Anche un nome col tempo si dimentica. Persino un grande amore dopo anni diventa un territorio vuoto. Ma chi ti è stato vicino ed è stato importante è come se guidasse le tue scelte ogni giorno. Per un periodo il tuo carattere si è sagomato seguendo il suo profilo e, anche se la persona non fa più parte della tua vita, non si ritorna mai quelli di prima…”
Saltai giù dal muretto e aiutai Astreana a scendere.
“Andiamo a dormire. È quasi l’alba.”

8Avevamo depositato il Santo Padre all’altezza della metropolitana Cavour. Aiutandosi col bastone, si era trascinato claudicando fino alla scalinata che scendeva nella suburra.
Se avessi saputo che non l’avrei rivisto mai più, avrei detto qualcosa di importante, mi sarei spremuto le meningi per pronunciare una frase a effetto, per declamare un’asserzione memorabile… invece ci eravamo salutati come si salutano due vecchi amici, in fretta e senza guardarsi negli occhi, ognuno già proiettato sulle proprie future necessità.
“Quel kebab mi ha fatto male” aveva detto il Santo Padre poco prima di scendere. “Mi sento indisposto. Mi sa che domani passerò tutto il tempo sulla tazza…”
“Sono le giornate migliori” avevo risposto.
Per quella sera il furgone me lo tenevo io. Al massimo potevo farci un puttan tour.
“Vuoi andarci veramente alla festa?” mi chiese Astreana.
“No. Abbiamo già fatto abbastanza i dilettanti allo sbaraglio. Abbiamo la registrazione e abbiamo la data nella quale i Signori delle Catacombe si riuniranno. Quelli del dipartimento potrebbero anche decidere di infiltrare due agenti al nostro posto. Domani porterò tutto al Grande Capo e vediamo come si mette la questione. Che lui sia colluso o meno, nella registrazione ci sono degli elementi che mi scagionano da un’eventuale accusa di omicidio. Ci siamo spinti fin dove potevamo arrivare. Un bel risultato, partendo da un banale controllo di routine di una manciata di Basi Profonde…”
Astreana mi baciò.
“Possiamo sempre fare una partita a Cluedo!” proposi.
“Non lo digerisco Cluedo a quest’ora” rispose lei.
Si chiuse la cancellata alle spalle, si fermò un momento sul primo scalino, in bilico sulle punte, come se volesse tornare indietro per dirmi qualcosa, poi si passò una mano tra i folti capelli ricci e scomparve dietro agli oleandri.
Rimasi immobile, sospeso nel buio.
I pugni stretti piano piano si rilassarono.
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13 pensieri su “Memoria liquida XXI

  1. la sto vivendo con forza.
    Manlio è un furbacchione. ecco cosa si nasconde nei social e purtroppo, anche le ultime situazioni di sangue, in Francisa, porta a delle conferme.
    Dark social.
    Un capitolo bellissimo, caro Milord

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    • Vivere, con forza, un’esperienza porta e comporta, mia signorina, essere presenti in corpo e spirito all’avvenimento stesso.
      manlio è un furbacchione? mah, probabilmente, da come a vedo io è un disilluso che crede, ancora, nell’illusione.
      O almeno le ha dato una chance.
      Buona giornata

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  2. Un passaggio drammatico che porta un solco profondo nel suo inserimento della Testimonianza.
    Ci si sente proiettati in quella realtà che uccide. L’intensificarsi si vede nel proseguimento.
    Oggi c’é un attacco frontale, un excamotage per vincere, anche con strumenti informatici.
    Un thriller particolare che appassiona.
    Attendo il seguito. Questo è di sicuro interesse.
    Buongiorno

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    • Quel solco profondo di cui parla, preg.mo Sig. PickWick appartiene all’intimo di ognuno di noi.
      Almeno, nello specifico del discorso.
      inquadrare il problema, probabilmente, è ininfluente.
      L’attesa del !problema” non esiste in quanto, nello specifico, lo si sta vivendo in pieno.
      Grazie e buona giornata

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  3. Una distruzione di massa preordinata con quel sistema d’attacco informatico.
    Bellissimo, ma adesso voglio sapere come continua.
    Domenica l’ultimo capitolo. 😦
    Ciao

    😦

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