Milordia: Sandra

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1Quando il colonnello Alfredo Vivarelli, un ricco ferrarese, arrivò qui a San Giovanni nel 1841, la città era piccola. A sud del tribunale c’era un bell’appezzamento di terra boschiva, che era stato di proprietà di un pontificio, un certo  Bartolo Buzzone, chiamato “àl biscutein” (il biscottino). Il militare aveva comprato la terra e assunto un architetto bolognese, Vittorio Laccaferri, perché gli costruisse una casa.
Per prima cosa la terra dovette essere ripulita. I servi lavorarono per settimane buttando giù le grandi querce, i pioppi e i sicomori, bruciando i tronchi e facendo piazza pulita dei cespugli di ribes e caprifoglio. Poi costruirono una fornace e con l’argilla e la paglia cominciarono a fare i mattoni per la costruzione.
Lentamente la struttura prese forma. La dimora allora aveva più o meno lo stesso aspetto che ha oggi: due piani, nello stile emiliano pontificio, con un salotto a entrambi i lati dell’ingresso, mentre la cucina era collocata in un edificio separato alle spalle della casa. Di sopra, proprio come ora, c’erano quattro camere da letto. Quelle stesse quattro colonne di marmo sostenevano il tetto in stile greco che ripara la piccola balconata. Le finestre al piano superiore e inferiore avevano le persiane e un vialetto di mattoni conduceva alla porta d’ingresso. Sulla stradina che conduceva alla casa c’erano sempre quegli enormi alberi di magnolia.
La famiglia Vivarelli vi si stabilì nel 1845. Quell’anno nacque una figlia e il militare la chiamò Sandra. Era la persona più importante della sua vita. Al mattino non usciva mai di casa prima che la balia la facesse mangiare e tornava alla grande casa più presto, in modo da poter passare un’ora con lei, sedendosi quieto a guardarla giocherellare con le punte dei piedi, e fare piano le fusa come se sapesse che, finché lui restava con lei, niente poteva andarle storto.
Non appena fu abbastanza grande, lui la portò con sé; la bambina si appollaiava come un uccellino sulla sella all’inglese davanti a lui, e si teneva alle briglie poggiando le mani su quelle del padre. Le insegnò ad amare l’odore e il contatto dei cavalli, i nomi degli alberi e degli animali, e le raccontava storie di viaggi, di colonizzatori e di guerra. Erano inseparabili.
Nel 1855 Sandra aveva dieci anni, e anche se era ancora una bambina, era magra e scattante come un ragazzo. Aveva una gran massa di capelli biondi domati tutte le mattine dalle forcine che le metteva la balia. Dopo una giornata passata all’aperto – ad eccezione delle poche ore di irrequieto sconforto trascorse con l’istitutore e il maestro di piano – tornava a casa per il lungo viale al calare del buio, con la faccia e gli abiti macchiati d’erba e di polvere, le ciocche allentate e arruffate per il sudore delle tante arrampicate sugli alberi e le corse nei boschi a piedi o in sella a un pony. Quando correva per il viale, cosa che accadeva piuttosto spesso, il bordo della gonfia e lunga gonna di cotone strisciava per terra, e allora se la tirava su sopra il ginocchio e correva verso casa, ben sapendo che la pesante campana di ferro aveva già suonato da tanto e che per l’ennesima volta lei era in ritardo per la cena.
Nel 1857, quando Sandra aveva dodici anni, cominciò la Guerra tra gli Stati. Una mattina d’autunno si recò a piedi con la madre e il padre lungo il miglio che portava alla piazza principale della città, per unirsi agli altri e vedere i giovani belli e orgogliosi vestiti di bianco e di grigio dell’esercito pontificio, che partivano per dar battaglia ai loro confratelli piemontesi in divisa blu.
Quando l’ufficiale in carica diede alle truppe l’ordine di muoversi, dalla folla si levò un vivo applauso e, nel baccano, si sentì una voce argentina: “Al diavolo i piemontesi!”. Era Sandra. “Al diavolo, al diavolo, al diavolo!”. Si ritrovò sollevata sulle spalle del padre.
Lui urlò: “Sì tesoro, diglielo!”.
Ma la madre si lamentò, infastidita: “Alfredo, mettila giù. Metti giù la ragazzina”.
La voce della madre era acuta e incrinata dal nervosismo. “Non è più una bambina.
Ormai è troppo grande per essere portata sulle spalle. Sei sempre il solito sciocco!”.
Il colonnello Vivarelli, a quanto pareva, non sembrò accorgersi delle richieste sussurrate dalla moglie finché l’ultimo cavallo non scomparve. Poi abbracciò stretta Sandra, la mise giù dolcemente e si voltò verso la moglie. La bambina ignorò2 l’aspro battibecco che proseguì sopra la sua testa, mentre lei si sforzava di cogliere l’ultima immagine delle truppe che cavalcavano sempre più in lontananza. Le parole le erano ormai così familiari che non le facevano alcun effetto: “troppo viziata… incontrollabile… è anche mia figlia…” e visto che nella piazza avevano intorno vicini e amici, i due parlavano con la stessa velenosa tranquillità che qualche volta Sandra percepiva dalla loro stanza da letto, quando si supponeva che lei dormisse già da un pezzo.
Il primo anno la guerra non sfiorò Sandra, se non per alimentare la sua immaginazione con trionfali fantasie di giovani coraggiosi a cavallo e in divisa bianco-grigia che si lanciavano intrepidi nella battaglia, incuranti della propria sicurezza e senza la minima traccia di viltà: le spade dardeggianti nella luce del sole, le bocche aperte in un ininterrotto grido di vittoria. Imparò a memoria i nomi eccitanti e remoti dei luoghi della battaglia che il padre le descriveva: Passo della Futa, Modena, Montecchio o Fidenza. Nei suoi occhi non c’era preoccupazione e di certo nessuna paura.
Ma, alla fine del 1858, le cose cominciarono a cambiare.
Alfredo Vivarelli era a casa, non perché gli mancasse il coraggio o il desiderio di servire Il Santo Padre, ma aveva problemi alla vista e le rughe del suo volto si scavavano sempre più via via che le notizie della guerra arrivavano a San Giovanni. Anche a casa allora c’era poca pace. Le giornate erano lunghe, cominciavano prima dell’alba e finivano dopo il tramonto e il lavoro era duro dentro la grande dimora bianca e nei campi intorno. La maggior parte degli uomini se ne era andata in posti come la Toscana, o il Lombardo Veneto, che a Sandra erano familiari perché ne aveva letto, ma che ormai sembravano non solo strani e stranieri, ma anche pericolosi. Sapone, sego, tessuti, zucchero, perfino il sale ormai scarseggiava e tutti impararono a farne a meno. Anche se restavano sulla credenza accanto al tavolo della sala da pranzo, le belle argenterie antiche non splendevano più. Le dita che si erano occupate della loro pulizia ora maneggiavano le zappe nei campi e non c’era nessuno nella grande casa che avesse tempo di accorgersene o energia sufficiente a porvi rimedio.

2Eppure alla gente di San Giovanni la guerra sembrava comunque lontana. Poi nella primavera del 1859 giunse spaventosamente vicina. Le forze del Piemonte erano a Reggio Emilia, ad appena novanta miglia. Per tre notti odorose all’inizio di aprile di quell’anno – Sandra aveva allora quattordici anni – rimase seduta in salotto con i genitori, mentre la lampada ardeva piano e lo stoppino fumava e scoppiettava.
Poi la madre si alzava e la spegneva con un soffio, così restavano al buio. Un vento leggero agitava le tende un po’ polverose e lise delle alte finestre e faceva entrare l’intenso e inebriante profumo del glicine. Aspettavano notizie della battaglia.
Quando giunsero, la mattina dopo, erano pessime: parlavano dello scontro di Reggio e dello stagno insanguinato. Del piccolo e quieto specchio d’acqua per il bestiame posto nel mezzo di un frutteto di peschi, già in fiore, che dopo due giorni di lotta era diventato rosso per il sangue degli uomini e dei ragazzi che avevano strisciato fin là per spegnere la sete e vi avevano riversato la loro vita; parlavano delle ripetute cariche sulla strada sprofondata, e della morte del generale de Becdelièvre comandante degli Zuavi pontifici. In quel luogo, il Papa aveva perso una delle battaglie più importanti della guerra.
Nel giro di pochi giorni, il treno e i carri carichi di soldati feriti o moribondi, sia Pontifici sia del Piemonte, cominciarono a raggiungere San Giovanni, mentre le truppe nemiche prigioniere giungevano sui treni. Molti morirono in viaggio e vennero seppelliti lungo i binari in tombe poco profonde, senza lapide. Mentre il treno entrava all’alba nella stazione di San Giovanni, i lamenti dei feriti si udivano sopra il clangore delle ruote e gli sbuffi di vapore.
Sandra e la madre e le altre donne giunsero alla stazione per andare incontro alla vettura. Aspettarono in silenzio che si fermasse, con i volti cinerei nell’ombra.
Quando le pesanti porte di legno si aprirono, le donne sobbalzarono per la puzza e irrigidite avanzarono verso i vagoni. La ragazza deglutì a lungo per contenere il vomito che si sentiva venire in gola. I soldati Pontifici vennero spostati il più rapidamente possibile verso l’università, dove le aule erano state trasformate in ospedale. Solo alcuni restavano a soffrire la loro agonia sui vagoni. Erano quelli del Piemonte e, anche se feriti, bisognava tenerli sotto controllo.
7Il soldato responsabile del treno guardò le donne rimaste nella stazione, con le mani e gli abiti macchiati di marrone scuro. Chiese: “C’è il colonnello Vivarelli?”.
Alzò la voce quasi in un grido isterico: “Serve aiuto, qui! Dov’è Vivarelli? Se non c’è lui, almeno Tommaso Scola. Qualcuno deve assumere il comando. Io devo tornare indietro!”.
Fu la madre di Sandra a parlare: “Loro non sono qui, capitano. Sono andati a Castelfranco. Diteci cosa dobbiamo fare”.
“Portate questi uomini con voi. Sono innocui, come vedete. Non vi creeranno nessun problema. Sono agli arresti domiciliari finché non riusciamo a deportarli a Bologna”. E già si avviava a lasciare la stazione. “Dovete solo tenerli finché non viene qualcuno a prelevarli”. Prima che potessero rispondere, si girò e scomparve oltre l’angolo della stazione.
I tre uomini in blu non batterono ciglio né si lamentarono quando vennero trasferiti in un carro. “Li portiamo a casa”, disse Sandra, mentre lei e sua madre salivano sul carro. “Non possiamo prenderne nemmeno uno”, disse piano la madre a Sandra. “Tuo padre non vorrà sentire ragioni”.
La ragazza costrinse il mulo stanco a muoversi: “Ne prendiamo uno soltanto, mamma”, disse lei. Quello giovane – pensò – quello con i capelli striati d’oro.
Il soldato semplice Mario Davighi, del Reggimento Fanteria Aosta, si svegliò per la prima volta tre settimane dopo. La testa non gli faceva male, e dopo aver toccato con cautela la pesante benda che gli premeva sulla fronte, si guardò intorno nella stanza illuminata dal sole. Il soffitto era alto, più di sei metri – almeno così gli sembrava – e di certo si trovava nella stanza di una ragazza. La coperta a fiori, delicata anche se un po’ logora, che gli copriva le gambe, la porta del guardaroba, aperta di quel tanto da fargli intravedere le gonne, e soprattutto il profumo nell’aria, glielo indicavano chiaramente.
La volta successiva, quando si svegliò, vide un vassoio accanto al letto, la minestra era calda e la porta era stata appena chiusa piano. “C’è nessuno?”, chiamò. Era disorientato. Dove si trovava? Dov’era il suo reggimento? Cos’era successo dopo l’ultima disperata carica dei pontifici?
“Salve”, rispose Sandra ed entrò nella stanza. Ora lui aveva un aspetto molto migliore, pensò lei, non così emaciato, non così piemontese. E i capelli erano proprio belli.
Lui disse: “Dove sono?”.
“San Giovanni. Sei qui da tre settimane. Ti ho vegliato giorno e notte”. Si fermò di colpo, arrossì e guardò per terra.
“Sono prigioniero?”.
“Certo che sì. E non appena papà torna a casa ti manderanno a Bologna. Così ha detto il capitano del treno”.

3Si ricordò tutto: quel viaggio orribile, quel tragitto interminabile mentre lui agognava il benedetto sollievo della morte.
“Come sono arrivato qui?”.
“Ti abbiamo portato noi, io e la mamma, perché nessuno sapeva cos’altro fare”.
Lui la fissò e quando parlò, sperò che l’ansia che gli esplodeva dentro, alle parole di lei, non trapelasse dalla voce.
“Qui ci siete solo tu e tua madre?”.
“Sono andati via tutti”, disse Sandra. “Il vecchio Signor Marchetti viene a controllarti tutte le mattine. Papà è partito per Castelfranco il giorno in cui tu sei arrivato qui e non abbiamo ancora avuto notizie da lui. Ma sono sicura che sta bene. Non c’è nessun dannato piemontese in questo paese che possa far del male al mio papà”. Poi diede una lunga occhiata a quel bel volto e balbettò: “io… io, non parlavo di te!”.
Che bella bambina, pensò lui. “A proposito”, disse sorridendo, “mi chiamo Mario Davighi e tu?”.
“Sandra Vivarelli”.
“Quanti anni hai, Sandrina?”.
“Nessuno mi chiama Sandrina. Io mi chiamo Sandra, hai capito?”.
“Sì, signora”, rispose lui, “e che Sandra sia”.
“Ho quattordici anni e tu?”.
“Sono vecchio, Sandra. Ho compiuto ventun anni il giorno del mio ultimo compleanno, un secolo fa a Asti”.
La conversazione ormai era facile, si parlava di scuola e del fatto che lei la odiava, dei cavalli e di quanto li amava, del raccolto, delle famiglie, della caccia e della primavera. Quando la mamma chiamò dal fondo delle scale un’ora più tardi, la ragazza prese il vassoio e lasciò la stanza. Mario Davighi sentì che sarebbe scappato e Sandra Vivarelli sentì che quello era l’uomo che avrebbe sposato.
Il giorno dopo egli era in piedi. Lei lo scortò in giardino tra le proteste della madre:
“E un prigioniero, Sandra. Stammi a sentire! E se decide di scappare non siamo in grado di fermarlo. Tuo padre morirebbe se sapesse che c’è un piemontese in questa casa, lo sai bene, e se lo lasciamo andare via… beh, non riesco neppure a pensarci…”.
Sandra disse: “E tutto a posto, mamma”. “Non ha intenzione di andarsene, almeno non per ora”.

4Camminarono e chiacchierarono nella parte orientale del giardino e per due giorni condivisero segreti e sorrisi, sempre alla luce del sole e sotto la costante vigilanza della mamma. Il giardino era bello, anche se in quella primavera nessuno se ne occupava: i fiori selvatici crescevano tra le varietà piantate, i colori erano così brillanti e i profumi così acuti che qualche volta Sandra aveva difficoltà a respirare.
Il terzo giorno, Mario si sedette a tavola con loro. Non si mise a capotavola – era ancora l’unico uomo presente – ma di fronte a Sandra, alla sinistra della signora Vivarelli.
Quando finirono l’ultimo pezzo di focaccia di granturco con la melassa, Mario soppesò cautamente la sua risposta alla domanda della signora Vivarelli sulla madre: “Non mi ricordo molto di lei, tranne che doveva essere alta, con i capelli lunghi dorati che per lo più portava raccolti in uno chignon. O forse ricordo solo i suoi ritratti. Forse non la ricordo affatto”.
“Quanti anni aveva quando sua madre è morta?”, la faccia della signora Vivarelli era visibilmente dispiaciuta.
“Due… due e mezzo”. Mario sperò che la sua faccia avesse l’aria triste e vulnerabile che lui voleva. La memoria di sua madre per lui non era mai esistita, e la cosa non aveva alcuna importanza. Capì che era giunto il momento di fare la sua mossa.
“E una serata così bella”, disse, “possiamo fare una passeggiata in giardino? Tutti e tre? Da noi la primavera non arriverà ancora almeno per un mese”.
Smise di parlare e lasciò che il silenzio riempisse la sala da pranzo. Le due donne lo osservarono alzarsi e muoversi goffo e lento intorno al tavolo: “Ma naturalmente qui in Emilia arriva sempre prima, no?”, non era vero.
La signora Vivarelli fissava il piatto. La sua mente era piena di immagini di quella fattoria in qualche posto del Lombardo Veneto, del figlio maschio che non aveva mai avuto e della bambina a cui aveva dato la vita.
Poi con voce morbida: “Andate ora, ma non vi trattenete troppo, presto farà buio”.
Mario e Sandra si avviarono verso la porta del salotto per uscire in giardino.
Sentivano la signora Vivarelli che faceva avanti e indietro tra la cucina e la casa, mentre sparecchiava e cominciava a lavare i pochi piatti del magro pasto. Mario prese la mano di Sandra e uscirono dal cono di luce e ombra prodotto a intervalli irregolari dalla madre, via via che si spostava dal tavolo alla cucina. Camminarono nell’erba alta, pesante di umidità, con le lucciole che cominciavano ad agitarsi nella serata precocemente calda; alla loro improvvisa irruzione esse sciamarono, scintille che vorticavano intorno a Sandra e Mario come mille stelline.
“Mario, guarda! Che belle! Papà dice sempre…”.
La attrasse verso di sé: “Sandra non posso restare qui, lo sai. Devo tornare a casa. Solo per un po’. Poi tornerò. Tornerò per te. Mi aiuterai? Non posso farcela da solo”.
Erano accanto agli alti cedri. Le lucciole erano ovunque. La notte era tutta in fiamme.
“Che devo fare Mario?”, la voce di Sandra era un sussurro.
“Niente. Devi solo restare qui per un po’. Non devi dire o fare niente. Capito? E
ricordati, tornerò per te”.
Poi sparì.
Sandra restò da sola nel buio. Trattenne furiosamente le lacrime che le salivano agli occhi. Si sforzò di catturare un’ultima immagine di Mario, ma non vide altro che i motivi volteggianti delle lucciole.

La signora Vivarelli restò anche lei ferma in cucina, schermando la lampada con la mano destra. Anche lei cercò di guardare la notte dalla finestra. Le sembrò di sentire un lieve rumore attutito, un piede poggiato cautamente sull’orlo della staccionata che circondava il cortile. Poi più niente.
“Se n’è andato”. Non si accorse di aver parlato ad alta voce: “Che Dio gli metta le ali ai piedi”.
“Mamma”. Sandra parlò dalla sala da pranzo nel buio. La madre fece i pochi passi nel cortile che separava la cucina dal corpo principale della casa, tenendo alta la lampada. Entrando in salotto, con un soffio la spense. Più che vedersi, madre e figlia percepirono la presenza l’una dell’altra. Non si toccarono neppure mentre, con la sicurezza che deriva dall’abitudine, passarono lentamente dalle stanze buie alla scala e poi al pianerottolo di sopra. Si fermarono un attimo di fronte alla stanza di Sandra e fissarono, senza vedere nulla, la finestra che dava sul balcone di sopra, in quel momento aperta per lasciar entrare la brezza notturna.
Sentirono solo il lieve frusciare dei cedri.
“Buonanotte, mamma”, la voce di Sandra si udì appena sopra il mormorio del vento tra gli alberi.
“Buonanotte Sandra”.
Ancora una volta, non si toccarono. Erano entrambe felici che il buio le favorisse.
Nessuna delle due sarebbe riuscita a guardare l’altra negli occhi.

5Alfredo Vivarelli tornò a casa dopo una settimana. Il furore per il prigioniero piemontese fuggito, Mario Davighi, venne assorbito dalla frenesia generale delle notizie sulla guerra. Nei mesi seguenti, il fatto venne praticamente ignorato dalle conversazioni sull’aumento del numero delle vittime, sulla mancanza di viveri, sulle schermaglie senza successo, e sulla crescente e sconfortante consapevolezza, soprattutto che il Sacro Regno Pontificio e che la guerra forse era perduta. Alla fine del 1863, di Davighi si ricordavano ogni giorno, anzi ogni ora, solo due persone: Sandra e la madre. Ma non per questo il suo nome venne mai pronunciato.
Anche se le due donne – perché Sandra tale era ormai, più alta della madre e con una morbidezza nel corpo che le mancava fino a un anno prima – lavoravano fianco a fianco nelle lunghe ore del giorno, nessuna confidenza trapelò mai.
Alfredo Vivarelli si faceva vecchio sotto i loro stessi occhi. La sconfitta del suo amato Santissimo Regno era per lui una perdita personale; pativa enormemente alla notizia di ogni nuova battaglia. Solo l’odio cieco per i piemontesi lo spingeva ad andare avanti. Via via che questa pulsione distruttiva cresceva dentro di lui, si consumava anche l’amore che aveva provato per Sandra e per la sua terra.
Nell’estate del 1864 divamparono in città notizie terrificanti. I pontifici stavano tornando. Il generale Manfredo Fanti era arrivato nell’autunno del 1862, senza danneggiare la città o le proprietà, ma questa volta nessuno riusciva a credere che sarebbero sfuggiti alle devastazioni della guerra. Il generale Cialdini era il comandante in capo; stando alle voci del piccolo circondario sembrava sul punto di arrivare.
All’inizio la gente era paralizzata dalla paura, poi passò a una frenesia isterica nell’ansia disperata di salvare il salvabile. Presero l’argento dalle credenze, lo buttarono dentro ai sacchi e si precipitarono nei pascoli, dove le donne con grosse pale scavarono furiosamente la dura terra. Dovevano seppellire tutto e quando l’argento fu nascosto, corsero alle fattorie, per salvare il bestiame, ormai prezioso come l’argento per tutte le famiglie che fossero tanto fortunate da avere ancora una vacca, un maiale o un mulo. Li portarono nel folto della foresta, dentro recinti tirati su in fretta e lavorarono freneticamente per camuffare quei nascondigli. Al calar della notte, anche se la città era buia e tranquilla, nessuno dormiva.
Sandra sedeva da sola alla lunga tavola da pranzo, le mani congiunte e abbandonate davanti a sé. Anche lei aveva passato la giornata a lavorare duramente, ma benché la schiena e le braccia le dolessero, l’animo era tranquillo. Aveva aspettato pazientemente per lunghi anni, rammentava i giorni e le notti, le ore e i minuti in cui i suoi pensieri erano stati riempiti dai ricordi del giovane con il sole nei capelli, il suo piemontese, il suo Mario. Domani sarebbe stato lì con lei. Sarebbe arrivato. Se lo sentiva.
Domani a quest’ora, pensava, sarò con lui per sempre. E prima di dormire, preparò con cura il suo unico vestito buono, quello bianco con l’applicazione di merletto che aveva meticolosamente ricavato dai fazzoletti della nonna e cucito sul collo e sulle maniche.
La città venne invasa dagli uomini in divisa blu prima che i raggi del sole toccassero il tondo dell’orologio del tribunale. Col giorno, per la gente di San Giovanni tutte le paure si avverarono. All’inizio erano solo voci, ma a metà pomeriggio, la gente seppe che il generale Cialdini voleva bruciare la città.
Il panico squassò la piazza. Le grida acute delle donne e dei bambini si mischiarono alle urla rudi dei soldati piemontesi. Torce fiammeggianti colpirono il legno asciutto dei magazzini e delle case, e nuvole di fumo nero salirono in cielo come uno stormo di uccelli che volano bassi. Al frastuono quasi assordante di urla, pianti e grida si aggiungeva il crepitio e la caduta di pesanti travi. Mentre per gli abitanti di San Giovanni, l’intero universo sembrava essere diventato rosso, oro, nero di carbone, mentre tutto il mondo sembrava andare in fiamme, Sandra aspettava.
Era rimasta ad aspettare da molto prima dell’alba, vestita di tutto punto, con il piccolo baule nascosto dietro la magnolia più grossa, quella giù in fondo al viale, la pianta che lei aveva amato da bambina, i cui rami toccavano la terra di sotto e raggiungevano il cielo di sopra. Ma Mario non venne. Era stata paziente nel corso delle lunghe ore funeste del mattino e fino al pomeriggio, ascoltando i rumori dell’orrore, sentendo l’odore del fumo, e osservando il vento che depositava fuliggine sui davanzali delle finestre.
6Dapprima pensava: “Verrà, lo so”. Era serena, con quella risolutezza del cuore e della mente che deriva solo dalla fede. Ma, mentre il giorno finiva e lei sedeva immobile nel salotto all’ingresso, e fissava il vialetto oltre le finestre, con le ombre dei grandi alberi che si allungavano e il crepuscolo ormai vicino, il primo dubbio irritante, doloroso, acuminato, la trafisse: “E se non viene?”.
Distolse la mente da quel pensiero, ma non tanto rapidamente da impedire ad esso di stringerle la gola e mozzarle il respiro. Si impose di ritrovare la calma e il respiro si chetò. L’unico rumore era quello dell’orologio a pendolo del nonno nell’atrio, che scandiva il dissolversi delle speranze e dei sogni di tutta la sua vita. Sandra pensò:
“Verrà, deve venire”. E poi formulò la prima scusa: “Non è ancora arrivato perché non può scappare. Dovrà aspettare finché fa buio. Ora non è il momento di venire da me. Arriverà appena può. Sarà qui quando si sarà fatto buio”.
E alla fine il buio fu. Sua madre e suo padre entrarono in casa, sopraffatti non solo dalla stanchezza, ma dalla disperazione. Non si accorsero di Sandra seduta in salotto immobile come la morte. Non parlarono mentre si avviavano verso le scale. La madre non rispose al padre quando egli finalmente disse: “Beh, se non altro quei bastardi se ne sono andati ormai. Tutti quanti. E non torneranno. Perché qui non c’è più niente per loro”.
Mentre si spogliavano per andare a letto, non sentirono la porta d’ingresso che si apriva, né i passi leggeri di Sandra sui gradini. Se avessero guardato fuori dalla finestra laterale, in direzione dell’ala orientale del giardino, l’avrebbero vista, perché lei rimase là a lungo, a guardarsi intorno come se fosse la prima volta che vedeva la notte d’estate, come se mai prima di allora avesse visto le lucciole, che ballavano e si agitavano intorno a lei, levandosi in volo dalla pesante rugiada per inseguirsi tra i cedri. Poi camminò fino al cortile e si inginocchiò sotto la magnolia, solo per un attimo.
Se solo avessero guardato, avrebbero potuto vederla. O avrebbero potuto vedere la scia di scintille tutto intorno e dietro di lei, mentre tornava verso l’ingresso. Ma ormai erano quasi addormentati. Quindi non sentirono la porta della sua stanza che si apriva e si richiudeva. Non la udirono riaprirsi qualche minuto dopo, né intesero i suoi passi nell’atrio mentre si avviava verso il balcone. Non udirono niente di niente, finché il rumore dell’impatto del corpo che si schiantava e si infrangeva sui gradini d’ingresso li scaraventò fuori dal letto. Si precipitarono al balcone e guardarono di sotto il corpo della figlia.
Giaceva contorta e immobile come una bambola di pezza buttata via per gioco, le pieghe del vestito bianco sparse tutto intorno a lei nel portico, i lunghi capelli biondi come striature sui gradini, dietro il suo collo spezzato.
Alfredo Vivarelli quella mattina scavò una tomba poco profonda sotto la magnolia e seppellì Sandra. Dalla città non venne nessuno, nemmeno un sacerdote. Non si seppe niente di quella storia fino a molto dopo. Quando il suo corpo fu coperto di terra, il colonnello e la moglie ripercorsero il viale ed entrarono in casa: da soli.

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Quando Antonmaria finiva di raccontare la storia di Sandra, ti preparavi per quel che veniva dopo. Nel silenzio tombale del portico a Milordia, con il buio interrotto solo dalla tenue e tremolante luce delle due lanterne di zucca, tu sentivi gli altri bambini che, con addosso maschere e costumi, cominciavano a stringersi più vicini.
C’è qualcuno che vuole fare visita a Sandra?”, chiedeva Antonmaria. E tu trattenevi il respiro per essere sicuro di non rispondere. Quando uno più coraggioso diceva “Ci vado io”, allora sapevi che Antonmaria avrebbe detto: “E chi gli tiene compagnia?”.
Il più spavaldo allora prendeva una candela accesa e camminava lentamente verso la magnolia dov’era la tomba stretta e spoglia. Non ci cresceva erba, né fiori e nemmeno gramigne. Sandra era rimasta sotto la fredda terra al riparo delle foglie di magnolia per molti anni, a parte, ovviamente, le volte in cui usciva dalla tomba e faceva un giro, passeggiando per Milordia, con i piedi scalzi che toccavano appena l’erba umida, le braccia tese, in cerca del suo innamorato perduto. Il due novembre era un appuntamento obbligato.
Mentre insieme a tutti gli altri bambini ci affollavamo lungo il percorso disegnato dai mattoni, ci aspettavamo a ogni momento di vedere una figura bianca che galleggiava nel buio, naturalmente oltre il raggio di luce della candela. Cercavi di sentirti sicuro nella consapevolezza che Antonmaria era seduto a vigilare sui gradini dietro di te, ma gli adulti non sono più affidabili dei bambini nella notte del due novembre a Milordia, neppure Antonmaria. Se ti giravi a guardare, se n’era già andato.
Via via che ti avvicinavi alla tomba, speravi con tutto il cuore che Sandra non soffiasse sulla candela e ti lasciasse in pieno buio. Perché quando accadeva, vale a dire sempre, c’era un momento terribile in cui spalancavi gli occhi per mettere a fuoco le immagini nella notte nera come la pece, e tu solo vedevi Sandra camminare verso di te.
Poi la vedevano tutti gli altri, e scappavamo via.
E così il buio, la paura, la tristezza senza una carezza, la mancanza del suo Mario, ce la faceva sentire nel cuore.
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64 pensieri su “Milordia: Sandra

  1. Sono stupito.
    Questa è pura poesia. Un capitolo denso di drammaticità, proprietà dei fatti e tragedia degli eventi che hanno sconvolto l’Italia.
    Ma che bravo che sei.
    Ho visto la guerra e le sue miserie. La vita nei campi avversi e come si viveva dalla parte del “torto”.
    La storia dei vincitori ci ha sempre presentato, il regno pontificale, come un regno da operetta, un regno inutile.

    Beh, Ninni, ci hai ricordato che per quel regno qualcuno ci credeva e ci è morto per difenderlo.
    Anch’io, allora, mi schiero dalla parte di chi ci ha lasciato la vita perchè è stato sopraffatto.

    poi la storia.
    Bellissima.
    Le illusioni di ragazza che nascono, vivono e muoiono nell’arco di un anno nell’illusione dell’amore.

    L’uomo, amico mio, è sempre una carogna.

    Buona giornata.
    bellissimo
    (E questo è un racconto di contorno? Salute!)

    Bye

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  2. dire che è memorabile è dire poco. La magia di una penna guidata da una mente colta e sapiente. La guerra dietro alla storia di questa giovane innamorata, le sue illusioni e speranze che, per amore, l’hanno portata alla morte. E l’aleggiare di questo fantasma che forse sta ancora aspettando ciò che non accadrà mai.
    Commossa Milord.

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    • Camminare mano nella mano, profumi e colori tutto intorno a noi.
      I tuoi occhi così pieni di gioia e amore che splendevano più del sole.
      “Ti amo”
      Ghiaccio dove prima c’era acqua,
      vuoto dove prima c’erano miriadi di farfalle colorate

      Cordialità

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  3. Ormai ho capito. Quanto tiene alla divulgazione della storia e della cultura. Solo lei con la sua maestria poteva riuscire ad imbastire una storia così meravigliosa per farci addentrare nella conoscenza di una guerra di cui pochi parlano ormai.
    La sua bravura e la sua integrità morale sono fuori discussione. Le sono grata per quello che sto imparando di volta in volta, di contenuto e di forma.
    Dovrebbe seguirla tutta Italia.
    E io credo che lei voglia proprio regalare la conoscenza in tutte le sue forme.
    Buona giornata.

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  4. Caro Milord,
    dire che mi ha devastata il cuore,l’anima è poco. Il suo regalare una emozione dentro l’emozione. Il vissuto, scendere dentro le persone per capirle, per capirne la tragedia del singolo. Un singolo che è un mondo, un Universo dentro ognuno. Un universo che la nostra insensibilità tenta di cancellare.
    Il suo cuore, però, caro dottore.
    Il suo cuore ci regala un monito: Tutte le vite sono importanti!
    TUTTE!

    Che bella umanità e dolcezza nei suoi scritti. La storia ci racconta degli eroi, e delle gesta ardite, ma … non parla mai delle tragedie consumate all’ombra di un “sorbo rosso”: delle illusioni di una bambina e di tanta povera gente che credeva nella propria Patria e che non ne voleva sapere se il Re di Sardegna voleva usurpare tutta la penisola perché il suo regno era piccolino e insignificante.
    Viveva del suo e della gioia di costruire un futuro migliore entro le mura dalla propria casa, della propria nazione.
    E non gli interessava se il Piemonte, con la sua “Bella Gigogin”, ha ucciso, depredato e offeso in tutti i modi, tutto quello che incontrava.

    Piccole reminiscenze scolastiche, che perdono quel ruolo di marginalità in cui le abbiamo riposte, per uscire fuori in tutta la loro forza e bellezza del singolo che c’é morto per la patria.
    E allora Viva il Sacro Regno Pontificio, ma anche il Lombardo Veneto, la Serenissima, Il Granducato di Toscana e Il Regno delle Due Sicilie e … Il regno d’Italia che “PER GLI STESSI MOTIVI” ha donato i propri figli nella prima e nella seconda guerra mondiale.

    I poveri, i derelitti, gli oppressi, i miseri, i deboli, non hanno bandiera.
    Come dice la signora Lady Nadia, lei dovrebbe essere studiato nelle scuole dell’obbligo. E’ un obbligo sapere che, anche dall’altro lato il sangue è di colore rosso!!!
    Grazie per questa lezione.
    La mia stima è alle stelle e sono onorata di scrivere qui da lei e di vantare la sua conoscenza.

    Devotamente sua

    Anna

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  5. Sono senza parole e trascinata dall’emozione. Più leggevo e più sentivo il magone salirmi dal cuore alla gola. sentivo incombente la tragedia.
    Le tragedie.
    La nascita, la gioia di vivere, la guerra con i suoi orrori, il tracollo, la sconfitta dopo la disfatta in una strenua guerra di aggressione subita e di difesa e l’ultimo schiaffo sull’amore.

    Un amore bello, pulito, un amore che dovrebbe fare scuola, proprio, per la sua bellezza.
    E se mai è esistita una Sandra, la bacio stringendomela a cuore, povera piccola.

    Ho telefonato all’Anna questa mattina e gliel’ho detto quello che stavo leggendo.
    Una pagina forte, bella e tanto umana.

    Devotamente milord

    Rossana

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  6. Che potenza nelle sue parole.
    Che bellezza in una storia che tocca tutti i tasti dell’Umanità din qua che abbiamo nel cuore. Perché ci dimentichiamo chi siamo o chi eravamo?
    Cosa stiamo inseguendo e perdendo l’amore di Papà e Mamma?
    Siamo nati col sorriso affidandoci a quella bestia che è l’uomo e per l’uomo veniamo sterminati.
    I suoi romanzi, racconti, caro Ninni sono sempre profondi, forti e belli.
    Un’umanità che sprizza e si spande intorno con forza.

    A conoscerle persone come lei. Mi annoveri, per piacere, fra le sue migliori amiche, oggi mi ha dato tanto che quasi non riesco a trovare le parole.
    Mi sono commossa.
    Proprio

    Sua Elena
    Grazie milord, grazie grazie

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  7. Quasi non riesco a scrivere dall’emozione.
    Oggi siamo in casa di Elena e stiamo leggendo e parlando di questo capitolo. Tante le considerazioni: lei dovrebbe essere studiato nella scuola
    Si.
    Tornerò, non riesco a scrivere.
    Bellissimo.

    Lou

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  8. Che dirle caro Dott. Raimondi.
    Mi vedo, quasi, costretto a scriverle. Qui da me, come ben sa, è un porto di mare ed è da circa un’ora che dai tanti mi arrivano inviti a leggerla. Lo avrei fatto nel corso della giornata ma …
    Ecco un suo colpo di penna contro il mondo ingiusto e brutale. Contro quel mondo che, in nome di una globalizzazione ottusa e ignorante uccide una nazione, un popolo, una bambina infischiandosene di tutto e di tutti..
    Questo capitolo è notevole, amico mio.
    Buona giornata

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  9. Sono colpito, caro dott. Raimondi per la meticolosità e soprattutto per umanità e il senso di umana pietà con cui ha scritto questo episodio.
    Certo che è difficile chiamarlo tale, la perfezione stilistica e non ultimo una bella dose di storia l’ha reso appetibile. l’innesto del fantasma, mi creda, ha molteplici significati. Ha la forza del sociale e l’istinto della compassione.

    Ecco, questo suo racconto è un inno alla compassione.
    ha descritto con una maestria non comune il dolore della sconfitta e il sapore di chi si credeva nel giusto.

    Sapesse quanto è andato vicino alla profonda verità che si nasconde dietro le pieghe delle lacrime.
    Mi congratulo sinceramente.

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  10. Credimi Ninni, non potevo attendermi nulla di meno.
    Anzi, con questo racconto, inserito nella storia, hai consegnato il riscatto di un popolo vinto e umiliato, ma mai battuto e una bambina, Sandra appunto, alla storia.
    Sei un mago.
    Un abbraccio
    Ciao

    L.

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  11. La storia dell’amore, per qualsiasi cosa, non ha i limiti o i confini del tempo o di spazio. Si ama e basta, o si odia.
    Sandra è la storia struggente di migliaia di ragazze semplici, pulite e innamorate della vita. Ha creduto che il bisogno, la bellezza e la bontà potessero essere uno di quei motivi che rendono la società più buona. Più semplice, più vera.

    Ninni, mi hai sconquassata il cuore.
    Mi vengono alla mente alcuni versi di Leopardi, il poeta della purezza, ma non li scrivo. Li regalo a Sandra, a tutte le Sandre che tornano, sempre, per smentire la cattiveria dell’uomo.
    Sei un Dio milord.
    Ti bacio, ciao

    Giò

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  12. Una storia di buoni sentimenti comunque. L’orda brutale di un esercito invasore soddisfa, soltanto, quella bramosia dei potenti ai quali nulla interessa il popolo. Certo e sicuramente che c’erano i patrioti pontifici ed erano anche orgogliosissimi di appartenere al Sacro Regno della Chiesa.
    E ne andavano fieri, tanto che vivevano e prosperavano secondo i principi cristiani. Senza alcun fanatismo, però. Basti ricordare “il Pasquino” che con i suoi versi feroci fece arrossire pure il Papa, che malgrado la faccia scura e la voglia di arrestarlo (ma soltanto per conoscere questo popolano -?- intelligentissimo), si fregava le mani di avere, comunque,una espressione poplare che sapeva fustigare laddove lui non arrivava..
    Il Papa, già. Sempre bistrattato e vituperato, ma come una attenta disamina offre, è stato il miglior regnante di tutto il popolo pontificio dal Lazio all’Emilia e alla Romagna, compreso gli Abruzzi. Un territorio vastissimo che si consegnò nelle mani di Dio, facendosi sopraffare con la spada pur di arrendersi.

    Se qualcosa fosse stata sbagliata, non si sarebbero sacrificati.
    Tanti e tanti sono gli episodi di singoli gesti di eroismo e di amore per la madre patria.
    Sandra rappresenta tutto quello che c’é di buono in una società sana e pulita.
    Ma i lupi sono dietro l’angolo.
    Lupi feroci e famelici.
    Crepiscolo di un mondo antico che è meglio se nessuno lo tocca più: scenda su di loro un velo di pace, finalmente.
    Io, caro dottor Raimondi, sono abruzzese e sono cresciuto fin da bambino, e parliamo di molto prima del secondo conflitto mondiale nei buoni principi di uno Stato del Sud, Regno pontificio compreso, che fu l’unico che per la salvaguardia del proprio popolo, piegò le armi.

    Lei è un uomo speciale e di cuore, sul serio.
    Ha tutta la mia stima
    Furio

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  13. Una sofferenza che non si placa. Una sofferenza che è ombra sulle nostre coscienze.
    Se mai fosse vero, noi abbiamo Sandra sulla coscienza, come l’abbiamo per quella stupida guerra.
    Vedi a cosa siamo ridotti…

    Ciao Ninni, un abbraccio
    (Oggi hanno telefonato anche me appena letto quest’episodio)

    Vale

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    • Se un giorno tornerai
      costruirò oceani di amore per te
      rinascerò come dal mare
      un unisono di pensieri d’amore
      saremo noi due
      saremo io e te
      a contarci le storie che
      avremo vissuto senza …

      Cordialità

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  14. Fallisce il silenzio e parla il cuore, in una giornata di dolore per un amore perduto.
    Così abbiamo una perdita. Una grave perdita per la vita: Sandra, trasportata dall’amore più profondo, si lasia andare alla bellezza che l’amore stesso propone.
    Mario, figlio di una guerra forse ingiusta, abbandona l’attimo, il momento e inconsapevole spezza una vita.
    Chi può codannare Mario?
    Chi può condannare Sandra?

    Quante di queste situazioni dolorose e addolorate sconvolgono le nostre vite?
    L’amore ha vinto comunque.
    Sandra perché amava.
    Mario per la libertà e i pontifici per la loro terra e i piemontesi per la conquista.

    L’unico che perde è il cuore.
    Ma si può risolvere: basta morire.
    Ninni mi hai ammutolita, presa per mano e ucciso il cuore.
    Sei infinitamente meraviglioso. Ormai mi muovo soltanto per leggerti: mi fa bene.

    Buona notte

    Lilly con un bacio

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    • Mi piace il tuo commosso punto di vista, che sarebbe più bello, più forte e più sentito se ti mettessi un paio di braghe e ti ricordassi che sei sposata.
      La notte a vasco come lo chiami? Milorduccio mio del mio cuore baciami??
      ahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahah

      Come i bambini peccato che sei una nonna di quarantatre anni ormai
      ahahahahahahahahahahahahah

      lamanumortadallerisateedagliocchionidellacerbiattonalilly

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  15. Una storia d’amore, racchiusa in un petalo di rosa.
    Ninni, milord della mia vita, mi hai fatto sanguinare il cuore, tenendo compressa la testa tra le mani.
    E’ un”emozione che non so spiegare. Un’emozione forte e grande.
    Come se quella storia l’avessi vissuta in prima persona.
    Buongiorno mio signore

    lamanuconilcaffèamezz’ariacommossadamorire

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    • Seppe completare
      lo sguardo attonito
      conchiglia ricca di
      salsedine…
      ora,
      rifiuta l’onda
      del mio sospiro.

      Dove cullerai lo scafo,
      in bassa marea
      anneghi!
      con chi velerai tra le
      boe luccicanti del
      desiderio!
      di che ti vestirai,
      quando il tempo
      sarà remoto …

      Cordialità

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  16. Ecco che un’esperienza così non l’avevo mai provata. Un emozione legata a una risposta, un commwnto con in mano una foto e due versi.
    Una bellezza incomparabile.
    Voi ci confondete milord

    Posso permettermi un bacio?

    Grazie.
    Infinitamente grazie

    Elena

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  17. Ho passato circa un’oretta per leggere alcune sue cose, non ultimo la sua biografia e dopo questo capitolo.
    Mi creda, è molto difficile trovare tale freschezza e complessità di scrittura.
    Questo capitolo, in particolare, mi ha interessato per le molteplicità emozionali. E’ riuscito a raccontare, entro una piccola adolescenziale storia d’amore, uno spaccato dell’Italia, quella di cui nessuno parla più, ma dove molti e in molti hanno pianto e sofferto.

    Molto bello il finale

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  18. Un tocco d’arte e di sentimento. Una perfezione ammirevole e ammirata.
    Una donna che ha tanto amato, ma di un amore bello, pulito e puro. Quasi leopardiano.
    Ecco che ti riconosco, Direttore, il tuo voler ricordare tutti. Ma proprio tutti.
    Che storia controversa la nostra povera Unità d’Italia.
    Il male non è mai tutto da una parte sola.

    Ciao Nì, un bacio

    Isy

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  19. Il Silenzio ha colto il sentimento di sorpresa e si è fermato appena in tempo per cogliere la lacrima dalla mano tesa. Sappiamo poco del domani e crediamo ciecamente che l’Amore non può non tornare e se non torna, ci lasciamo morire nelle quotidianità senza sorriso.

    Ho letto questo brano con il cuore in silenzio e senza muovere nemmeno l’aria che nella stanza spostava le tende, come per non interrompere il corso della vicenda che avevo davanti agli occhi. Strano come a volte le parole scatenino tempeste nell’anima senza che nemmeno ci lascino il tempo per difenderci, il fatto è che forse non vogliamo difenderci da nessuna tempesta. E ben vengano le sferzanti onde del dolore a colorare di sale le ferite e che le lacrime possano alla fine confondersi con il mare infuriato contro di noi.

    Ninni,
    credo fermamente nella potenza della parola, ci ho sempre creduto e sento qui, dentro e Oltre le parole che hai scritto; una Forza evocativa che lascia con il cuore in sospeso e lo sguardo perso verso l’orizzonte. Non lo so, sarà che in Sandra sento una delicatezza così pulita da mettere a nudo ogni emozione umana sopportabile.

    Ed anche la tristezza dell’epilogo lascia una dolcezza struggente dentro … una Vera Emozione.
    Grazie.

    I Miei Rispetti
    Ni’Ghail
    Slàn

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  20. Cosa rimane di un amore così bello, pulito, grande e nato da una profonda compassione?
    Certo Mario poteva risparmiarsi quella promessa sul ritorno, ma il tempo di guerra, assassino e maledetto fa dire tutto senza promettere nulla.
    Ma lui promise … e promise …
    E che dire della guerra maledetta? Ci hanno abituate a scuola che il Regno pontificio, il Papa da insultare, era un regno da distruggere perché aveva Roma, che doveva essere la capitale d’Italia e doveva diventare italiana.
    ma perché? Io credo, proprio come hai cercato di dirci Ninni, che uno Stato qualsiasi sia rappresentato da persone che si stringono ai loro governanti proprio per formare uno Stato e di quello ne vanno orgogliosi e fieri.
    E c’erano i pontifici, i toscani e i serenissimi (io sarei una serenissima visto che sto a Belluno) e nessuno, ma neanche adesso, parla male di quei regni passati. Anzi, adesso, proprio adesso qua si riparla di Serenissima Repubblica.
    Non sto a parlare di separatismo, ma di identità che hanno cercato di distruggere.

    Oh Ninni, hai scritto un pezzo magistrale, mio signore.

    Ti bacio

    Elena
    Elena

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  21. Eri quella che, quando si incontra, è una fucilazione alla schiena imminente.
    Con il rosario attorcigliato sul cuore.
    Guardarti negli occhi sarebbe una morte prematura prima dell’esecuzione beata.
    E’ nell’ultimo vuoto, di fronte al condannato, che tu affidi all’immaginazione una uccisione già avvenuta.
    Amarti è una poesia incisa sulle pallottole in viaggio.

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    • Ai palmi nei giardinaggi,
      al ristoro dove la biscia entra in sé, ai
      fogli sul frigo.
      Ci hanno curato altri oggetti,
      il parquet dei circoli
      volontari, i punti fitti nelle foto,
      ogni cosa che sa affrontare la
      geometria.

      Cordialità

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    • Ai palmi nei giardinaggi, al ristoro dove la biscia entra in sé, ai
      fogli sul frigo. Ci hanno curato altri oggetti, il parquet dei circoli
      volontari, i punti fitti nelle foto, ogni cosa che sa affrontare la
      geometria.

      Cordialità

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    • Aria che fori le lumache,
      che sei gesto di spire,
      sali se hai carne e
      pasta agli angoli di fumo,
      torna se la casa è traccia,
      trovaci senza
      il cenno del fare,
      senza lettura,
      senza la testa sui detriti.

      Cordialità

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  22. Oh… je voudrais tant que tu te souviennes,
    Des jours heureux quand nous étions amis,
    Dans ce temps là, la vie était plus belle,
    Et le soleil plus brûlant qu’aujourd’hui.
    Les feuilles mortes se ramassent à la pelle,
    Tu vois je n’ai pas oublié.
    Les feuilles mortes se ramassent à la pelle,
    Les souvenirs et les regrets aussi,
    Et le vent du nord les emporte,
    Dans la nuit froide de l’oubli.
    Tu vois, je n’ai pas oublié,
    La chanson que tu me chantais…
    C’est une chanson, qui nous ressemble,
    Toi qui m’aimais, moi qui t’aimais.
    Nous vivions, tous les deux ensemble,
    Toi qui m’aimais, moi qui t’aimais.
    Et la vie sépare ceux qui s’aiment,
    Tout doucement, sans faire de bruit.
    Et la mer efface sur le sable,
    Les pas des amants désunis.
    Nous vivions, tous les deux ensemble,
    Toi qui m’aimais, moi qui t’aimais.
    Et la vie sépare ceux qui s’aiment,
    Tout doucement, sans faire de bruit.
    Et la mer efface sur le sable
    Les pas des amants désunis…

    Jacques Prévert

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