La bella Italia

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Nell’estate del 1935, quando gli italiani si accingevano a conquistare l’Abissinia al canto di Faccetta nera, l’opinione pubblica mondiale, benché in gran parte schierata in favore del paese minacciato, di questo conosceva poco o nulla. Le uniche informazioni diffuse a livello popolare erano quelle che gli appassionati dei giochi enigmistici avevano avuto modo di ricavare dalla soluzione dei cruciverba. Infatti, proprio per le sue curiose particolarità, l’Abissinia rappresentava una fonte inesauribile di quiz per i compilatori di parole incrociate. Innanzitutto, poteva essere chiamata indifferentemente Etiopia o Abissinia; era poi l’unico regno africano indipendente, l’unico scampato alla colonizzazione europea, l’unico che aveva sconfitto sul campo un esercito “bianco” (quello italiano) e l’unico rappresentato con pieno diritto nella Lega delle Nazioni (ossia l’ONU di allora), a dispetto delle discriminazioni razziali esistenti all’epoca.E non è tutto. L’Abissinia possedeva altre singolari peculiarità: seppure collocata in un’area totalmente islamizzata, si era mantenuta cristiana e devota alla propria chiesa, la Chiesa copta, sviluppatasi autonomamente dai tempi del concilio di Calcedonia nel V secolo d.C. Inoltre era un “impero” governato da un piccolo sovrano nero di nome Hailè Selassiè, che esercitava il potere assoluto dal suo trono, detto del Leone di Giuda. Più che imperatore questo sovrano preferiva essere chiamato negus neghesti, ossia “re dei re”, e vantava un’ascendenza da fare invidia a ogni altra dinastia regnante: il suo regno esisteva fin dai tempi biblici ed egli era il 220° discendente di Menelik I, figlio di re Salomone e della regina di Saba. Ma a parte tale scarna nozionistica di stampo enigmistico, su tutto ciò che riguardava l’Abissinia del 1935 dominava il buio più completo. Se ne ignorava l’ordinamento interno, il tenore di vita, i commerci, gli usi, i costumi e persino il numero degli abitanti. Tanto è vero che con l’aumentare della tensione fra Italia ed Etiopia divenne ben presto palese come l’ignoranza a proposito di questo misterioso paese da favola affliggesse anche la stampa meglio informata. “Pochi direttori di giornali” confesserà in seguito Evelyn Waugh, inviato di guerra del “Daily Mail” “erano in grado di trovare l’Abissinia sulla carta geografica o avevano una sia pur pallida idea della natura del paese. I pochi che si erano affrettati a consultare qualche vecchio e inaffidabile resoconto di antichi esploratori credevano che l’Abissinia si trovasse sotto il livello del mare e fosse un vasto bassopiano di rocce e di sale, privo d’acqua, immerso nella calura e scarsamente abitato da pazzoidi nudi con tendenze omicide. Altri invece immaginavano una specie di Tibet africano dove antichi palazzi inviolati svettavano sulle rupi. Il direttore di un grande giornale inglese credeva addirittura che gli abissini parlassero il greco antico.” I giornalisti cominciarono ad arrivare a Addis Abeba nel maggio del 1935, quando Mussolini aveva fatto chiaramente capire che non intendeva rinunciare alla conquista di quello che lui chiamava “un posto al sole”. La capitale etiopica che li accolse – il cui nome in amarico significa “nuovo fiore” – era una cittadina inospitale, caotica, sporca, polverosa, piena di lebbrosi, di eunuchi, di schiavi e di sciarmutte.

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Vantava un piccolo palazzo reale, il ghebì, con un viale d’accesso fiancheggiato da due file di leoni, alcune chiese, una stazione ferroviaria, un ufficio postale, due cinema all’aperto, molti tabarin, una stazione radio, alcune villette che ospitavano le varie rappresentanze diplomatiche e una serie di baracche intonacate che costituivano il quartiere commerciale. Il resto era una distesa di capanne di fango, graticci di canne e lamiera ondulata. Addis Abeba contava forse 150.000 abitanti, anche se nessuno si era mai preoccupato di contarli. Una popolazione indolente e curiosa che viveva alla giornata ed era sempre pronta ad accorrere in massa al richiamo di una qualsiasi novità: un’impiccagione, l’amputazione di una mano o di un piede a un malfattore, o l’arrivo di qualche ras caracollante sul suo muletto e circondato da una scorta di armati che andava a rendere omaggio al negus. Non esistevano leggi certe, ma solo balzelli arbitrari ed era consentita una straordinaria libertà di impresa: chiunque poteva aprire a piacimento un negozio senza permesso o licenza, né l’obbligo di una tassa. La colonia straniera nella capitale era costituita da un incredibile miscuglio di nazionalità. Turchi, greci, ebrei, armeni, egiziani, arabi e neri americani convivevano tranquilli senza problemi razziali o religiosi. I pochi europei presenti erano i classici ammalati di “mal d’Africa”, la gran parte dei quali, scoperto il fascino delle scioane e delle harariane, come era capitato a Rimbaud quando faceva il trafficante d’armi, avevano finito per sposarsi con qualche bella uizerò, le ragazze bene di Addis Abeba, imparentate con la famiglia imperiale. Costoro, chiamati ligg, godevano di particolari privilegi e spesso venivano insigniti delle più strane decorazioni: cavaliere della Stella d’Etiopia, cavaliere della Santa Trinità, cavaliere dell’Ordine della Spada, ottenendo anche importanti incarichi. Fu il caso dell’esule russo Mischa Babitcheff che diventò comandante dell’aeronautica etiopica durante la guerra contro l’Italia. Ligg o non ligg, gli europei si divertivano quanto potevano intrecciando e sciogliendo legami sentimentali, e a sera riempivano i tabarin sempre aperti e pullulanti di disponibili bellezze locali, le famose sciarmutte. Per i privilegiati c’erano i ricevimenti a corte dove si trincava in libertà davanti a immense tavolate gementi sotto il peso di appetitosi maialini di latte, facoceri, tacchini e quant’altro, il tutto condito con il piccante berbere che incendiava le viscere. Allora poteva capitare di veder finire sotto il tavolo il compassato console britannico o qualcuno dei tanti ufficiali belgi o scandinavi che il negus aveva reclutato per istruire le sue truppe. Andava peggio quando gli ospiti sbronzi tornavano a casa sulle gambe malferrne: a Addis Abeba i pozzi neri erano en plain air ai lati delle strade e cascarci dentro non doveva essere una cosa piacevole. Per arrivare nella capitale etiopica, dove erano stati richiamati dall’annuncio di una prossima guerra, i giornalisti avevano dovuto raggiungere via mare Gibuti, nella Somalia francese, e da lì viaggiare sul solo treno disponibile, composto di carrozze di legno con persiane ai finestrini per attenuare la calura, attraverso l’unica linea ferroviaria lunga quasi mille chilometri che collegava Addis Abeba alla costa. La città non era attrezzata per accoglierli e i nuovi arrivati furono costretti a sistemarsi alla meglio nel solo albergo esistente, l’Hotel Imperial, che, a detta di un corrispondente americano, sembrava “essere stato trasportato di peso dallo Yukon al tempo della febbre dell’oro”. Disponeva infatti di una trentina di camere per cui, nei momenti di punta, ogni stanza era occupata contemporaneamente da tre o quattro clienti. Per essere accreditati presso il governo abissino non esistevano particolari formalità: bastava che i giornalisti depositassero una somma pari al prezzo del viaggio di ritorno, nel caso fossero “espulsi per cattiva condotta”.

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Quando all’alba del 3 ottobre ebbe inizio il conflitto italo-etiopico, i corrispondenti autorizzati erano circa centocinquanta e rappresentavano i più importanti quotidiani del mondo. A questi si aggiungevano alcuni redattori della Tass, l’agenzia di stampa sovietica, i quali però, secondo l’uso comunista, non frequentavano i colleghi e vivevano appartati presso la loro ambasciata. I sopraggiunti non tardarono a rendersi conto di quanto fosse arduo svolgere il proprio lavoro. Era difficile raccogliere le notizie, ma ancor più lo era la trasmissione delle stesse alle rispettive redazioni. Non esistevano uffici stampa, i rari comunicati ufficiali risultavano quasi sempre deludenti o esageratamente fantasiosi, mentre i costi telegrafici erano addirittura proibitivi (mezza sterlina per parola, la tariffa più alta del mondo). Poi c’era il problema della lingua, poiché nessuno conosceva l’amarico, nonché la proibizione di uscire da Addis Abeba. Il governo aveva imposto tale divieto affermando – certo con ragione – che non poteva rispondere della sicurezza personale dei giornalisti in quanto gli uomini delle tribù consideravano frengi, stranieri e quindi nemici, tutti i bianchi in circolazione. In quei primi giorni di guerra non se la passavano bene neanche i giornalisti stranieri accreditati presso il comando italiano di Asmara in Eritrea. La censura militare imposta dai generale De Bono era rigorosissima e cancellava spietatamente tutto ciò che valeva la pena di essere pubblicato. La situazione peggiorò con l’arrivo di Badoglio. Il nuovo comandante in capo si rivelò infatti ancora più drastico del suo predecessore e bloccò tutti gli inviati nella capitale eritrea per più di dieci settimane, ossia finché non fu in grado di scatenare l’offensiva. Questo embargo sulle informazioni ebbe conseguenze negative sull’immagine del nostro esercito. Il silenzio dei giornalisti di Asmara coincise infatti, curiosamente, con un’improvvisa piena di notizie proveniente da Addis Abeba che dilagò rapidamente sulla stampa internazionale. Così, mentre i corrispondenti da Asmara trascorrevano il tempo impegnati in frustranti partite di bridge, i loro colleghi nella capitale etiopica si consumavano le dita sulle portatili. Ma cos’era accaduto? A togliere i corrispondenti di Addis Abeba dall’impasse in cui sì erano venuti a trovare avevano provveduto gli “interpreti volontari”. Avventurieri di ogni risma, venuti al corrente della sete di notizie che attanagliava il giornalismo estero, monetizzarono la loro conoscenza dell’inglese o del francese trasformandosi in venditori di “esclusive” e di scoop eccezionali. Com’è facile immaginare, si trattava di notizie inventate di sana pianta o di esagerazioni dettate più dall’entusiasmo patriottico che dal rispetto della verità.

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Ma poiché un reportage romanzesco è sempre più affascinante di un resoconto veritiero prosciugato dalla censura, i giornali occidentali attinsero largamente da queste corrispondenze fasulle contribuendo in tal modo a diffondere l’opinione che le forze armate italiane si trovassero in gravi difficoltà. Il business delle false notizie prosperò a Addis Abeba per rutta la durata della guerra e risolse più di una situazione economica. Fra gli informatori inattendibili, il più ricercato e il meglio pagato era senza dubbio Wazie Ali Bey, un furbo abissino che si arricchì prestando, naturalmente in “gran segreto”, i suoi servigi personalizzati ai più importanti corrispondenti stranieri della capitale etiopica. Le sue esclusive, tutte inventate, ma ben confezionate e politicamente corrette nei riguardi del governo locale, trovarono ampi e accoglienti spazi soprattutto nei giornali stranieri che antipatizzavano con l’Italia fascista. Ma, a questo punto, sarà opportuno precisare che non tutta la stampa occidentale democratica era schierata contro l’invasione italiana dell’Abissinia. Se, per esempio, il “Times” britannico la criticava senza mezzi termini, la rivista americana “Time” manifestava apertamente le sue simpatie  verso Mussolini.
D’altro canto, va ricordato, o meglio sottolineato, perché sono ancora in molti a volerlo occultare, che a quell’epoca il Duce e il fascismo non erano affatto demonizzati. Al contrario, in molti ambienti il fascismo era considerato una teoria politico-filosofica di tutto rispetto e giudicato da molti l’unico antidoto efficace contro il dilagare del bolscevismo, ritenuto allora la principale minaccia per gli equilibri internazionali. Da parte sua, Mussolini godeva di una vasta popolarità e aveva numerosi ammiratori in tutto il mondo, fra i quali spiccava l’autorevole Winston Churchill. Anche a proposito dell’aggressione italiana all’Etiopia, che mise in subbuglio la Lega delle Nazioni, vi erano posizioni discordanti. Gli osservatori più obiettivi o realistici non trovavano infatti scandaloso che l’Italia, come tutte le altre potenze europee, si cercasse un “posto al sole” nel continente africano. 
A questo proposito non bisogna dimenticare che nel 1935 esistevano ancora, intatti e imponenti, vastissimi imperi coloniali europei formatisi nei secoli precedenti. Esisteva un impero inglese sul quale “non tramontava mai il sole”. Esistevano imperi africani, asiatici e oceanici della Francia, del Belgio, dell’Olanda e del Portogallo. L’impero coloniale della Germania, un tempo rigoglioso, era invece scomparso circa quindici anni prima, dopo la fine della Grande guerra, quando i suoi resti erano stati inghiottiti da Francia e Inghilterra, le quali avevano lasciato all’Italia soltanto “poche briciole”, come si lamenterà Mussolini. Sopravviveva insomma, moderna e vigorosa, “l’idea imperiale” nonché il postulato della “civilizzazione bianca”, concetti tipici di un’Europa che ancora si riteneva la dominatrice del mondo. Sarà opportuno tener presente tutto ciò prima di giudicare, secondo i criteri etici di oggi, questi avvenimenti accaduti in anni ormai lontani.

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33 pensieri su “La bella Italia

  1. L’appuntamento domenicale eccolo.
    Vi confesso, caro milord che un po’ ci mancava. Un buongiorno ricco di novità e di bellezza. Ecco un tema che, sembra, uno tra i vostri preferiti.
    l’Italia bando ” camminava da sola”.
    Sono sicura, anzi certa, che non si parla di rivisitazioni strane.
    La vostra voglia di fare storia e farla bene, è cosa nota ormai.
    Eccoci proiettati nell’Italia che sfinita per diventare un impero.
    Bello come inizio.

    Mi è piaciuto molto anche come avete introdotto l’argomento: stiamo parlando di un periodo dove, il Duce, era apprezzato e ammirato da nazioni potentissime.
    Ma la vostra vena comica, semi seria, ci regalerà momenti bellissimi.
    Ne sono certa, anzi certissima.

    Vi auguro una splendida domenica e una ricca e rigogliosa giornata.
    Con stima,

    Annalisa
    a Paris

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    • Annelise Baum

      Trascrivo:
      “Mentre le demagogie si esauriscono nella impotenza distruttiva della corsa al piú rosso,
      Questo movimento va affermandosi con fioritura spontanea in ogni parte d’Italia.
      Gli spiriti sono stufi dell’aspettazione messianica e arcistufi del ballo di Sanvito della rivolta che non arriva mai alla soglia della rivoluzione.
      Le tesi astratte, i dogmi immutabili, le promesse paradisiache ripugnano alle generazioni contemporanee che vogliono costruire e ricostruire e sono quindi assetate di realtà.
      Né meno ripugnano gli ordinamenti statici dei vecchi partiti, colle loro tesi che si accettano una volta per sempre – quasi fosse possibile la monogamia delle idee! colle relative scomuniche agli eretici e la cadaverica fissità dell’ortodossia.”

      Indovinate chi scriveva queste frasi.
      Grazie per aver scritto
      Cordialità

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  2. Sembra, quasi, un’Italia da invidiare.
    Il panorama di adesso non è esaltante e comunque, qualsiasi cosa venga o provenga da un passato che sia prossimo, immediato o lontano, in confronto, è sempre bello.
    L’Italia degli anni trenta.
    L’Italia della rinascita e della riscossa.
    L’Italia che aveva trovato una connotazione di riscatto e di riuscita. Quell’Italia che si abbandonava a sogni di gloria ma che, soprattutto, ci aveva provato e ci stava provando.

    Perché non parlarne?
    Anche con qualche venatura comica.
    lei sta navigando dentro la verità storica con quella leggerezza che un po’ tutti le conoscono. Quella leggerezza che ci parla di cose buone, meno buone o improbabili.
    La sua analisi è perfetta e aderente.
    Le faccio in bocca al lupo per questo lavoro che, sicuramente, sarà bello, perfetto e preciso.
    Buona domenica

    Sofia

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    • Sofia

      La filosofia politica è nello stesso tempo uno dei settori più importanti e più trascurati del mondo filosofico.
      Nessun altro campo di attività critica è altrettanto pieno di paradossi reali o apparenti.
      Esaminando il problema della subordinazione incontriamo subito le difficoltà che lo assillano.
      È questo problema appunto che ci fornisce un opportuno spunto per iniziare uno studio del pensiero politico di Giovanni Gentile.
      Uno dei problemi più urgenti per chi si occupa di teoria politica è quello della giustificazione morale dell’esercizio dell’autorità politica.

      In breve, come si può concepire l’Io, l’individuo, obbligato ad ubbidire alla autorità politica?
      Come si può pretendere che sacrifichi, anche in tempo di pace, il proprio interesse immediato e personale a favore dell’interesse collettivo?
      Come può, in tempo di guerra, essere legittimamente costretto a sacrificare la sua vita per il paese?
      Da quale fondamento discende questa subordinazione?

      Interrogativi interessanti, vero?
      Grazie per esserci

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  3. Nutriamo i pensieri del passato che in essi si nutrono.
    un nuovo lavoro, bello, circostanziato e appassionato Milord.
    Ci mancava.

    Ci mancavano i vostri scritti e soprattutto ci mancava la domenica, quella domenica che, presentandosi con dolcezza e semplicità, sottolineava l’appuntamento con il bello.
    Buongiorno Milord.

    L’Italia che si alzava in piedi e gridava: “Presente”, davanti la storia e l’impegno verso il mondo.
    Quell’Italia che state raccontando con quella bravura che conosciamo tutti.
    Mi auguro, soltanto, che questo possa essere il primo di una lunga serie di capitoli.
    Grazie e grazie per essere così presente.
    Una scrittura bella e naturale.
    Una scrittura completa e splendida.
    Vi seguo da tantissimi anni, ormai, ed è come se vi conoscessi con passione.

    Grazie e buona domenica Milord.
    PS: non sapevo che Addis Abeba fosse … cristiana.

    Vostra
    Eleonora
    🙂

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    • Eleonora Bisi

      Posto che la legge è nemica della libertà e che ogni costrizione della libertà è una infrazione della morale. Libertà significa solo assenza di obbligazioni

      Quando un individuo entra nella società rinunzia ad una parte di questa libertà per assicurarsi così alcuni diritti elementari.
      Esiste una libertà “significativa” senza la sicurezza di questi diritti elementari?
      In apparenza noi ci troviamo di fronte ad una circostanza molto singolare: la libertà dopo un significativo sacrificio allo scopo di acquisire certi diritti elementari, si accresce per effetto della sottrazione
      Grazie per essere intervenuta

      Cit. “come se vi conoscessi …”
      Ecco appunto, limitatevi al Come se …

      Cordialità

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  4. Il canto degli italiani che si riconoscono nella voglia di crescere ancora. Quella voglia che ti prende e ti fa dire: basta, non ne posso più di stare a guardare.
    Non voglio fare apologia di nulla e di nessuno.
    Mi piace questo primo impatto che si definisce nella bellezza di un racconto con la semplicità come se si fosse spettatori.
    Grazie Milord.
    Che bela domenica.
    Grazie davvero…
    Giorgia

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    • Giorgia Mattei

      Non si può concepire la potatura come distruttiva per la libertà che garantisce all’individuo certe sicurezze e gli fa quindi godere di una maggiore libertà. La fonte delle difficoltà, suggerisce Gentile, consiste nella concezione secondo cui le pretese di “altri” sopra l’Io sarebbero distruttrici della libertà, mentre al contrario il riconoscimento di tali diritti intensifica la capacità di vita e la libertà dell’individuo attraverso il meccanismo della reciprocità.
      La condizione in cui l’uomo è rappresentato come anteriore ed estraneo alla società, condizione in cui fiorirebbe la libertà, va considerata come una finzione .
      Nella condizione attuale effettiva dell’uomo la libertà non esiste in tanto, in quanto l’uomo è separato dalla società, con i suoi sistemi di obblighi reciproci.

      Grazie per esserci

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  5. Una scrittura bella e pulita.
    Sono capitata, qua, per sbaglio (stavo cercando altre cose su Google e mi sono imbattuta nel Blog del Milord.
    Mi sono trovata immersa in una lettura affascinante e bella. Precisa e circostanziata.
    Credo e presumo che questo suo scritto, che non ho trovato in altri posti, sia l’inizio di qualche cosa che faccia bene al cuore.
    Il suo racconto sembra ben documentato.
    Le garantisco che tornerò per leggerla e se vorrà, per commentarla.
    Buona domenica

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    • Kitty Hawk

      Fuori dalla società l’uomo si trova soggetto alla natura, comunque egli tenti imporre ad essa il suo dominio.
      È il nemico di tutti e di tutto: persone e cose lo insidiano ugualmente; la sua condizione è di abietta dipendenza.
      Non v’è libertà né sicurezza; ogni uomo è esposto senza difesa, all’ingiuria dei suoi nemici. Non v’è sicurezza di vita, non parliamo di libertà!
      La libertà alla quale l’uomo rinuncerebbe in parte per entrare nella società non esiste in realtà.

      Grazie per aver scritto e benvenuta

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  6. Caro Antonmaria

    Non ho vissuto l’ epoca del Vostro nuovo romanzo, sarà interessante leggerlo per la fiducia che ho in Voi riguardo obiettività, giustizia e profondo Amore per la Patria.
    Quanti ne scrivono in senso esclusivamente negativo, secondo me perdono di vista la realtà contemporanea che, coi recenti governi ‘democratici’, non si può considerare più soddisfacente se si ha l’ onestà intellettuale di esaminare l’ operato di questi in favore degli interessi concreti del popolo.
    A mio avviso tra quest’ epoca e quella fascista c’ è una sostanziale differenza: oggi le persone vivono frustrate nella mancanza di speranza che si tuteli il presente ed il futuro proprio e quelli della propria famiglia.
    Famiglia, Lavoro, Patria…su questi tre elementi basilari per l’ individuo si abbia l’ onestà di valutare le differenze di presa di coscienza.
    E poi, c’ è la solitudine individuale. Ritengo che a pochi, come Voi Antonmaria, sia rimasto l’ entusiasmo del sentimento patriottico. L’ avvilimento per le politiche anti-italiani sta generalizzando. A molti mancano le prospettive di futuro e, i più lasciati soli dalle istituzioni, fanno una brutta fine.
    Le immagini che corredano il capitolo lasciano immaginare una generazione in cui i giovani potevano essere sorridenti perché il proprio futuro era tutelato. Avevano un’ educazione, quelli di oggi sempre meno.
    Dal lavoro al tempo libero, i diritti sociali erano tutelati. Oggi chi si sente salvaguardato in questo scemare di Patria a favore di un’ Europa di esclusivi interessi finanziari?
    Ho letto più volte il capitolo, percepisco e condivido la serenità delle Vostre convinzioni. Potete essere orgoglioso di come siete, integerrimo in dirittura morale, in coerenza ed impegno per una giustizia reale. Mancano persone come Voi, soprattutto nelle istituzioni.

    Avete la mia Stima assoluta, Antonmaria. Dell’ altrettanto Affetto, lo sapete.

    Maria Silvia
    Vostra Sil

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    • Maria Silvia

      Mia signora,
      Ecco, per sommi capi, quali dovrebbero essere i fondamenti di un movimento sanamente Italiano.
      Rivoluzionario, perché antidogmatico; fortemente innovatore perché antipregiudizievole.
      Noi poniamo la valorizzazione della guerra rivoluzionaria al di sopra di tutto e di tutti.
      Gli altri problemi: burocrazia, amministrativi, giuridici, scolastici ecc.

      Per il problema politico:
      • suffragio universale a scrutinio di lista regionale.
      • l’abolizione del senato.
      • la convocazione di una assemblea nazionale per la durata di tre anni, il cui primo compito sia quello di stabilire la forma di costituzione dello stato.
      • la formazione di consigli nazionali tecnici del lavoro, dell’ industria, dei trasporti, dell’ igiene sociale, delle comunicazioni ecc. Eletti dalle collettività professionali o di mestiere, con poteri legislativi, e col diritto di eleggere un commissario generale con poteri di ministro.
      • la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria.
      • l’ affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie o servizi pubblici.
      • la rapida e completa sistemazione dei ferrovieri o di tutte le industrie dei trasporti.
      • una necessaria modificazione del progetto di legge di assicurazione sull’invalidità e sulla vecchiaia, abbassando il limite di età proposto attualmente a 65 anni, a 55 anni.

      L’istituzione di:
      • una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze non certificate …
      • il sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l’ abolizione di tutte le mense vescovili, che costituiscono una enorme passività per la nazione, e un privilegio di pochi.

      Sarebbe ridicolo pensare di creare uno Stato corporativo sindacalista.
      Uno Stato in cui il lavoro cessa di esser una merce per assumere il ruolo di soggetto dell’ economia.
      Uno Stato collettivo e totalitario mirante a portare non solo (giuridicamente ma concretamente, cioè nella cultura, nella morale, nel costume, ecc.) le classi e categorie proletarie sullo stesso piano delle classi e categorie intellettuali o detentrici degli strumenti della produzione.
      Semplicemente dispensando delle nozioni elementari di cultura alle classi e categorie operaie e contadine, Indirizzando loro predicozzi moralistici, o fondando biblioteche o università popolari o varando, di quando in quando, qualche leggina in difesa del lavoro.
      Questo era il metodo democratico che si affissava come a ideale sublime e massimo nel miraggio di costituire classi e masse evolute e coscienti; un piatto, generico, diffuso sapere; una livellata umanità di cuori teneri e buoni sempre sognanti pace, abbracciamenti universali, dolcezze di paradisi pieni di terrestre felicità.

      Oggi nel mondo democratico, troppo spesso, solo formalmente gli uomini sono eguali, liberi e sovrani e al di sotto a questa proclamazione idealistica continua l’ineguaglianza economica anche più disumana, la miseria velata di beneficenza, la disoccupazione, l’oppressione e spesso il dominio e predominio del più ricco, reputato anche il migliore.
      Il mondo culturale democratico è, troppo spesso, astrattezza, insincerità, falso idealismo.
      E’ un regno da anima delicata.

      La proprietà e il capitale, pur riconosciuti nella loro insostituibile iniziale funzione privatistica, sono stati, però, decisamente piegati a una netta funzionalità sociale.
      Il capitalista deve, per forza, smettere di essere il cavaliere dalla triste figura per riconoscere, al di sopra di sé, volente o nolente, una autorità che lo trascende e lo limita: l’autorità di quella collettività nazionale che si esprime e si anima nello Stato.
      Le masse lavoratrici devono smettere di credere che fra loro e i datori di lavoro ci siano solo ed esclusivamente interessi fatalmente contrastanti e antagonistici.
      Al di sopra degli uni e degli altri si impone una concreta collettività storica, una vera unità economica, politica, morale, in cui solamente essi vivono e si svolgono: la Nazione, lo Stato.
      Sarebbe ingenuo credere che tutto sia stato fatto: la via però è stata chia ramente indicata e un nuovo costume politico e morale si afferma e sempre piu si deve affermare.

      Però, siccome le classi e categorie detentrici dei mezzi di produzione e della ricchezza, o delle funzioni intellettuali sono su un piano di favore e di privilegio, (qui si arrestò la civiltà demo-liberale) è verso le classi e categorie del lavoro manuale, è verso il proletariato che punta il nuovo Stato totalitario.
      Intanto riconosciamo che di diritto e di fatto il proletariato è stato messo su uno stesso piano con le classi e categorie datrici di lavoro, nel sindacato.

      Però non illudiamoci; questo fatto implica tal rivolgimento, in profondità, nella vita sociale che è semplicistico credere si sia pervenuti a un punto di arrivo.

      Continueremmo per ore a scrivere su questi temi, mia signora.
      Grazie per aver scritto e cordialità

      Vostro Antonmaria

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  7. Un brano bello che parla di tempi andati.
    Un passaggio degno del migliore degli scrittori.

    Evocato come un “fantasma” che minacciosamente e costantemente aleggia sulla Ns. vita democratica (vedi la recente riedizione del “berlusconismo”), da decenni il fascismo è oggetto dell’interesse critico degli storici che hanno cercato di studiarlo in chiave realistica e non partigiana (De Felice in primis).

    Come lascito morale principale, questi storici ci hanno lasciato la convinzione che non si può chiudere gli occhi davanti ad una verità indiscutibile: il regime godette di un suo “consenso sociale”; comunque lo si giudichi, infatti, il fascismo seguì il processo iniziale di modernizzazione della politica e della società italiana che poi avrebbe trovato il suo momento culminate nell’Italia di oggi del boom economico.

    Grazie per queste pagine…
    Buona domenica Ninni
    Ciao

    L

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    • Hilde Strauß

      Si è parlato altrove di pedagogia politica. Qualche sapientone ha sorriso. Dunque esiste anche una pedagogia politica?!
      Mettete, con fervore, in atto questa fedele (perché non imborghesita) aristocrazia di popolo con questa finalità di formazione di aristocrazia proletaria ed avrete un esempio tangibile (uno fra mille) di pedagogia politica vivente.

      Grazie per aver scritto

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  8. Certo, nulla sembra più lontano dal “moderno” di un regime dittatoriale nazionalista quale fu il fascismo; che parrebbe espressione di una società incivile, rozza e primitiva (così pensavano di Gobetti, Salvemini, Nitti).

    Eppure, anche antifascisti e democratici rigorosi come Missiroli e Bonomi, ma in parte anche De Ambris, pure noti come precursori dell’interpretazione gobettiana del fascismo (il fascismo, rivelazione dell’immaturità etico-politica degli italiani) sono costretti ad ammettere questa realtà quando rinvengono nel fascismo i tratti di una “democrazia rivoluzionaria”, non riconducibile a schemi tradizionali.
    Certo, nelle intenzioni degli Autori, queste parole volevano polemizzare contro la virata a Destra del movimento, in spregio al “programma di S. Sepolcro” e con la circostanza che il fascismo si era macchiato di una “colpa” molto rilevante: la soppressione delle libertà politiche e parlamentari.

    Che bravo che sei milord.
    Un abbraccio

    Isy

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    • Isabella Ozieri

      Lo Stato partecipativo mira certo a realizzare, in quanto ha in sé l’anima della migliore democrazia, l’autogoverno economico delle classi e categorie.
      Ma l’assoluto autogoverno economico e politico per quanto un processo di democratizzazione dello Stato possa andare unito a un processo di aristocratizzazione degli uomini, categorie e classi e specie del proletariato, sarà sempre di là da venire.
      Al disopra delle masse, che, fino a un certo punto, sono sempre strumento più che creatrici di storia, si erigerà, sempre autoritaria e demiurgica l’opera delle aristocrazie e l’autorità dello Stato.

      E l’aristocrazia e l’autorità dello Stato vivrà nella sua maggiore pienezza sempre e soltanto in pochi, in minoranze virili.
      Un popolo aristocratico

      Grazie per aver letto

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  9. Con il senno del poi, però, queste parole coglievano nel segno una caratteristica “di durata” del fascismo medesimo.
    In effetti, nessuno oggi può mettere seriamente in discussione che, in vari settori (specie della Previdenza e della Politica Sociale) il regime riuscì ad apportare riforme, destinate a durare nel tempo: per questo motivo, il regime riuscì comunque a conservare il carattere “sociale” delle origini.
    Nonostante i compromessi con i conservatori (necessari per il suo consolidamento iniziale); carattere, che, se certo non si può definire “democratico”.
    Certo poteva ritenersi avanzato rispetto all’evoluzione sociale del periodo, e indubbiamente aiutò il regime a compensare la fine delle libertà politiche.

    Il tuo racconto MIlord, sa di ricordi che possono diventare belli..
    Grazie.
    bellissimo

    Manu

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    • Manuela Rovati

      Nella realtà rivoluzionaria dello Stato partecipativo anche l’idea di popolo deve necessariamente mutare:
      popolo non può più essere, con un irrazionale segno di inferiorità, colui che esplica una funzione manuale, ma, in qualsiasi modo, colui che non si è saputo elevare, con la sua capacità, moralità, e lavoro, su un piano di aristocrazia.

      Grazie

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  10. Nel I dopoguerra, cioè, la divisione pre-bellica tra neutralisti ed interventisti finì per proiettarsi senza residui nella divisione tra i ceti che avevano tratto rendite economiche dalla guerra
    e i ceti che si erano impoveriti; tra ceti medi impoveriti ma che alla guerra avevano donato i principali quadri medi dell’esercito e i ceti proletari (per lo più contadini) che avevano dato il più dei combattenti; e ceti (ricchi e operai) che non avevano fatto la guerra, contribuendo a rafforzare il sistema industriale e
    che, dopo la guerra, pretendevano il loro consolidamento delle ricchezze finanziarie (borghesia) e salariali (operai).

    Grazie.
    E’ bello molto

    Furio

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    • Furio

      A diffondere l’immagine di un regime ventennale crollato come un castello di carte, sciogliendosi come neve al sole, parteciparono, subito dopo il 25 luglio, molti intellettuali fascisti divenuti antifascisti di vario colore politico, i quali, nei loro scritti rievocanti l’esperienza fascista, sostennero che il regime era destinato a scomparire senza lasciare traccia perché era fondato sul nulla.

      Fra i primi a sostenere questa tesi fu Indro Montanelli, già fervente intellettuale fascista e apologeta di Mussolini.
      All’indomani dell’8 settembre, divenuto antifascista conservatore, Montanelli scriveva:
      i fatti hanno dimostrato che il Fascismo in Italia aveva molto consenso popolare.
      ma ministri fascisti, squadristi, giornalisti fascisti, militi si sono evaporati senza nemmeno tentare la più piccola resistenza; Mussolini è stato arrestato come un malfattore qualsiasi e nessuno ha alzato un dito in sua difesa; l’unico “fedele” è stato Farinacci che è dovuto scappare all’estero.

      Il Fascismo non era nemmeno una minoranza e il suo ventennio di durata è spiegato soltanto dalla tecnica dello Stato moderno che col suo armamento di polizia rende impossibile l’insurrezione popolare”.

      Buona giornata e grazie per avere scritto

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  11. la forza dei èrincipi dovrebbe essere quella che ci dovrebbe guidare attraverso la storia, usi e costumi.
    perché non impariamo?
    Mi auguro, milord, che questo sia e possa essere il primo di una lunga serie di capitoli.
    Grazie milord.

    Lady Elena
    🙂

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  12. Leggo, affascinata, il tuo primo capitolo di questo bello e intensissimo libro.
    Affascinata e presa.
    Grazie.
    ma devo dire che anche i commenti, dotti e profondi, scaturiti sono veramente interessantissimi.
    Grazie milord.
    Grazie davvero.
    Buona giornata.
    Anna

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