La bella Italia V

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Dopo l’incredibile vittoria di Adua, Menelìk approfittò dell’ascendente conquistato sul campo per allargare e consolidare i confini del suo impero. Grazie a una serie di dure campagne militari, ridusse all’obbedienza anche i ras più riottosi e assoggettò al potere centrale di Addis Abeba i vasti territori dell’Ogaden, del Conso, del Burgi, del Gaffa, del Ghimirà, dello Jambo. All’inizio del 1900 rimanevano indipendenti soltanto i sultanati di Aussa, del Birù, del Terù e del Gimma. I primi tre perdettero la loro indipendenza nel 1909, l’ultimo soltanto nel 1936 dopo la conquista italiana dell’impero etiopico.
All’inizio del XX secolo, il grande Menelik iniziò la sua parabola discendente almeno per quanto riguarda l’efficienza fisica. Era infatti torturato da insopportabili dolori reumatici che lo inchiodavano a letto rendendolo sempre più intollerante e intrattabile. Al tempo stesso, cominciò a crescere l’influenza esercitata su di lui dalla moglie Taitù, ormai avanti con gli anni (era nata, come il consorte, nel 1844), ma sempre più volitiva e tenace nei suoi propositi. Colei che, non a torto, veniva chiamata “l’avvelenatrice”, poiché alcuni dei suoi precedenti sette mariti e della nutrita schiera di “amanti occasionali” erano morti misteriosamente, aveva una spina nel fianco: la sterilità. Se non riuscì a dare a Menelik neanche un figlio, in compenso diventò maestra di intrighi amorosi quasi esclusivamente volti a un fine politico. Quando, con il passare del tempo e l’aggravarsi dello stato di salute del negus, il problema della successione si fece impellente, l’ambiziosa regina maturò un suo progetto. Certa di sopravvivere al consorte, contava di farsi nominare reggente e quindi di favorire l’ascesa al trono di suo nipote Gugsà Oliè, quarto marito della figlia prediletta di Menelik, la principessa Zauditù. Ma Menelik non la pensava allo stesso modo e Taitù dovette rassegnarsi a condividere con lui la scelta del successore al trono. La quale cadde sul piccolo Ligg Jasù, figlio dodicenne di ras Mikael, il capo dei Wollo Galla che aveva combattuto contro gli italiani al fianco dell’imperatore. Ras Mikael era di famiglia musulmana, anche se si era successivamente convertito al cristianesimo copto; di conseguenza il futuro negus avrebbe potuto saldare meglio di ogni altro le genti musulmane del Sud, recentemente acquisite, con gli antichi sudditi copti abitanti il Centro e il Nord del paese.
I rari storici che si sono occupati delle vicende interne all’impero etiopico si trovano in disaccordo riguardo a come si giunse a questa designazione. Del resto, le fonti scritte sono poche e molto dubbie. Si racconta che nella primavera del 1909, quando le condizioni del negus peggiorarono ulteriormente, Taitù decise di affrettare i tempi. Il 15 maggio fece sposare in gran fretta Ligg Jasù con una nipote del negus che di anni ne contava appena sette, poi, il 9 giugno, convocò tutti ras dell’impero nella sala del trono del ghebì imperiale. Qui, tra la commozione e l’inquietudine dei presenti, venne condotto su una poltrona a rotelle ciò che restava del vecchio sovrano. “Chi designi come tuo successore?” gli chiese Taitù piegandosi su di lui. E poiché il marito esitava; “Chi, chi, allora?” lo incalzò avvicinando l’orecchio alla sua bocca per meglio ascoltare la risposta. Dalle labbra del negus uscì alla fine un flebile balbettio del quale neppure i più vicini riuscirono ad afferrare il significato, ma Taitù levò le braccia al cielo e gridò esultante: “Ha detto Ligg Jasù!”. Era fatta.
L’indomani i banditori diramarono per tutto l’impero il grande annuncio che iniziava con le maledizioni di rito:
“Ecco colui che mi succederà e sia maledetto chi gli sarà disobbediente: gli nasca come figlio un cane nero e tignoso…”. Dopo la designazione di Ligg Jasù, Menelik non si riprese più, tuttavia morì solo quattro anni dopo, il 12 dicembre 1913. Così almeno fu dichiarato, anche se corse voce che in realtà il negus era morto verso la fine del 1909 e che per quattro anni ai visitatori fu mostrato il suo cadavere imbalsamato.
Ligg Jasù divenne dunque negus neghesti a sedici anni quando l’Europa era alla vigilia della prima guerra mondiale. Di questo nuovo negus è stato detto tutto il male possibile, ma forse occorre fare la tara di tali giudizi, tenendo conto che, oltre i ras ambiziosi e delusi, furono soprattutto gli inglesi e i francesi a orchestrare contro di lui una campagna diffamatoria. Costoro infatti erano preoccupati per la manifesta simpatia del nuovo sovrano nei confronti dell’impero ottomano, allora alleato della Germania guglielmina, che da parte sua era interessata all’Etiopia perché godeva di un’importante posizione strategica. Dominare il mar Rosso significava infatti proteggere le colonie germaniche in Africa e controllare le vie marittime dell’Oriente attraverso cui, appena scoppiata la guerra, Francia e Gran Bretagna avrebbero ricevuto dalle loro colonie gli indispensabili rifornimenti di uomini e di mezzi.

Ligg Jasù comunque non era uno stinco di santo. Morta Taitù, che lo proteggeva e lo teneva a freno, il giovane negus si rivelò molto proclive ai divertimenti, alle gozzoviglie. Oltre che per lo champagne, aveva un debole per le ragazze bianche, che fece venire a decine dai café-chantant di Berlino e di Smirne, per cui era quasi sempre ubriaco e circondato di giovani bionde e compiacenti. Sotto il suo regno il paese era precipitato nel caos e nella corruzione. “Addis Abeba è infestata dai rapinatori:” riferiva il ministro d’Italia conte Colli “arrivano persino ad assaltare le sedi diplomatiche e i contadini hanno paura di venire in città cosicché i viveri scarseggiano.” Quando non era ubriaco, il giovane negus passava il tempo a caccia di leoni e di schiavi in Dancalia. Si abbandonava a crudeltà inaudite persino per un paese come l’Abissinia dove i ras avevano diritto di vita e di morte sui loro sudditi. In un solo pomeriggio, per esempio, Ligg Jasù fece massacrare i 2000 abitanti di un intero villaggio per una banale questione di prestigio (una ragazza gli si era rifiutata). Ma il suo errore più grave fu quello di convertirsi ufficialmente alla religione islamica per sposare la giovane figlia di un ricco commerciante musulmano dell’Harar. Questa impopolare conversione segnò la sua fine. Il malcontento alimentato dalla potente Chiesa copta si trasformò rapidamente in insurrezione armata. Ligg Jasù fu scomunicato, battuto sul campo dai ribelli e scalzato dal trono. Al suo posto, il 27 settembre 1916, l’abuna Matteo proclamò negesta nagast, imperatrice, la principessa Zauditù, figlia prediletta di Menelik, mentre il governatore dell’Harar, il giovane ras Tafari, che era stato l’anima della rivolta, verme nominato enderassiè, ossia vicario imperiale ed erede al trono.
Ras Tafari, il cui nome significa “colui che è temuto”, aveva ventiquattro anni, era figlio di ras Maconnen, l’eroe di Adua, e cugino di sangue di Menelik. Dal padre aveva ereditato il coraggio, l’astuzia politica nonché la spietatezza, principale caratteristica dei notabilato abissino. Gratificato da una saggistica faziosa portata a glorificare tutti coloro che hanno combattuto il fascismo, ras Tafari è stato forse esageratamente nobilitato divenendo nell’immaginario collettivo degli italiani il campione dell’indipendenza e della libertà africana. In realtà egli era, come tutti i suoi predecessori, un ras affarista, sanguinario, crudele e schiavista. Feroce verso i suoi sudditi quanto e più degli stessi colonialisti, infido con gli alleati, silenzioso e meditativo, si differenziava da Ligg Jasù solo perché non amava la crapula ed era molto più scaltro e istruito. Educato dai preti della Chiesa copta, con la quale manteneva rapporti eccellenti, parlava bene il francese ed era un attento cultore della Bibbia, dalla quale sapeva ricavare citazioni e ammonimenti adatti a ogni situazione.
I diciotto anni che vanno dalla sua comparsa sulla scena politica al conflitto con l’Italia del 1935 vedono il giovane enderassiè impegnato a consolidare l’impero etiopico attraverso un’opera da spietato ragioniere del potere. Liquidò infatti pazientemente, a uno a uno, tutti i ras o gli alti personaggi che gli erano d’ostacolo nella sua marcia verso il trono. Più intelligente e interessato dei suoi predecessori agli avvenimenti esterni e in particolare europei, nel 1923, grazie all’appoggio italiano (gli inglesi non volevano capi di Stato di colore), riuscì a far accogliere l’Etiopia nella Società delle Nazioni, costituita a Ginevra nel 1919 dopo la fine della prima guerra mondiale, benché il suo paese, essendo ancora uno stato feudale e schiavista, avrebbe dovuto esserne escluso. Nel 1928 firmò con l’Italia un trattato ventennale di amicizia e di commercio e nel contempo, con l’aiuto di ufficiali europei rimasti disoccupati dopo la fine del conflitto mondiale, provvide a gettare le basi di un esercito regolare e moderno. La sua azione, limitata in un primo tempo dalla presenza dell’imperatrice Zauditù, non ebbe più ostacoli quando nel 1930, morta l’ingombrante negesta nagast e soffocata nel sangue l’ultima insurrezione tentata da ras Gugsà, uno dei tanti ex mariti di Zauditù, ras Tafari diventò il nuovo negus neghesti assumendo il nome di Hailè Selassiè che significa “la potenza della Trinità”.
Alla festa per la sua incoronazione parteciparono i rappresentanti di tutti i governi europei. Per l’Italia c’era il principe di Udine, i tedeschi mandarono il barone von Waldthausen con un dono di 800 bottiglie di vino del Reno e la fotografia autografata del maresciallo von Hindenburg. La delegazione più numerosa risultò essere quella inglese, composta dai governatori di tutte le colonie africane di Sua Maestà britannica. Gli ospiti, giunti in treno da Gibuti, erano accolti dalla guardia imperiale (scalza, ma bene addestrata) comandata da ufficiali belgi e svedesi. Per l’occasione, la strada che collegava la stazione al palazzo reale fu frettolosamente asfaltata e le 20.000 prostitute della capitale ricevettero l’ordine di addobbarsi adeguatamente. I festeggiamenti si protrassero per dieci giorni e il gestore greco dell’unico locale notturno dovette fare la spola con Gibuti per rifornirsi di champagne.

“Vi erano due scopi principali dietro l’ospitalità e la coreografia dell’incoronazione” scrisse in quell’occasione il corrispondente del “Times”. “Primo, il negus desiderava impressionare i suoi compatrioti e in particolare i ras facendo vedere che era accettato dalle famiglie reali d’Europa: e in questo certamente riuscì. Secondo, desiderava impressionare gli ospiti europei dimostrando che l’Etiopia era un paese civile e moderno: ma in questo riuscì soltanto in parte.”
Deciso a modernizzare il suo impero già precedentemente all’ascesa al trono, nel 1924 Tafari aveva voluto compiere una visita in Europa, nella quale nessun ras abissino prima di allora aveva mai messo piede. Salpò da Gibuti con la moglie Menen e un seguito composto di 30 servitori, 6 leoni e 4 zebre. Per precauzione, portò con sé anche i ras più autorevoli e meno affidabili, onde non trovare sorprese al ritorno. Dopo avere compiuto brevi visite a Gerusalemme, Il Cairo, Marsiglia, Londra e Parigi, dove gli eterogenei ospiti erano stati ricevuti con una piuttosto scortese sufficienza, la folcloristica delegazione soggiornò a lungo a Roma, la città che gli abissini sentivano per ovvie ragioni più “vicina”. Qui Tafari fu ricevuto in udienza privata dal papa e successivamente da re Vittorio Emanuele III. Mussolini, già capo del governo da due anni, ma non ancora dittatore, non trovò il tempo per riceverlo perché in tutt’altre faccende affaccendato. Proprio in quei giorni era misteriosamente scomparso il capo dell’opposizione Giacomo Matteotti, ma ancora non ne era stato trovato il cadavere. A Roma si vivevano quindi giorni convulsi e Mussolini veniva apertamente accusato di essere responsabile della scomparsa del leader socialista. L’arrivo degli ospiti abissini suggerì al settimanale satirico “Becco Giallo” una divertente vignetta in cui si vedeva ras Tafari, appollaiato come un merlo sulla spalla del ministro dell’Interno Emilio De Bono, che gli chiedeva con aria complice: “A me potete anche dire la verità: ve lo siete mangiato”.
Quel viaggio si rivelò utile e istruttivo per i visitatori abissini: i ras capirono finalmente cos’era questa Europa che premeva sui loro confini. Con infinito stupore ammirarono i treni veloci, le corazzate irte di cannoni, i grattacieli e le grandi fabbriche operose. Ma ciò che colpì maggiormente i vecchi capi furono alcune cose banali, come le gambe artificiali esposte nei negozi degli ortopedici (ne fecero, chissà perché, grande incetta), i forni moderni per la cottura del pane, i grandi porti e i piccoli rimorchiatori che trainavano enormi navi. Ras Hailù ne comprò addirittura uno per 600.000 franchi e poi se lo fece portare via mare a Gibuti; da lì organizzò una carovana con 800 cammelli e 2000 uomini per trascinarlo attraverso l’Abissinia fino al lago Tana, dove intendeva farlo navigare per suo sollazzo. Ma, per ragioni sconosciute, a mezza strada cambiò idea e il rimorchiatore rimase ad arrugginire fra le palme suscitando la meraviglia e la curiosità dei pastori che non avevano mai visto il mare.
Mentre i dignitari del suo seguito si divertivano nei locali notturni concedendosi spese assurde, il giovane Tafari si dedicò a osservare in silenzio la civiltà moderna a lui sconosciuta. E probabilmente si rese conto che il suo paese poteva rimanere indipendente solo se riusciva a inserirsi in quel mondo sfruttando gli equilibri e le gelosie delle grandi potenze. Capì anche che la porta d’ingresso stava a Ginevra dove aveva sede la Lega (così era chiamata comunemente la Società delle Nazioni ) e dove era riuscito fortunosamente a ottenere un seggio. E infatti egli fu sempre un fervente e convinto “leghista”.
Questa Società, destinata a sciogliersi rovinosamente alla vigilia della seconda guerra mondiale per risorgere nel dopoguerra con un nome diverso (GNU) ma un identico destino, era a quell’epoca nel pieno del suo fulgore.
Dominata da Francia e Inghilterra, che erano le vincitrici della prima guerra mondiale e, soprattutto, le due maggiori potenze del mondo, la Lega raccoglieva una cinquantina di nazioni “evolute” (salvo gli Stati Uniti che avevano preferito restarne fuori), accomunate, come sempre accade dopo i grandi conflitti, da tanti buoni propositi e dall’ipocrita convinzione che “mai più” l’umanità avrebbe fatto ricorso alla “follia della guerra”. L’appartenenza alla Lega imponeva agli aderenti una serie di obblighi morali piuttosto vaghi, come il mantenimento della pace, il divieto peraltro non assoluto, del ricorso alla guerra, nonché l’impegno a cercare una risoluzione pacifica delle controversie internazionali. Se da un lato condannava lo schiavismo, dall’altro approvava il colonialismo, considero un utile mezzo per l’emancipazione dei popoli inferiori.
lnfervorato da tali principi, il futuro negus al suo rientro in patria fece costruire scuole, ospedali, strade, linee telegrafiche e favorì l’importazione di beni di consumo, in particolare delle scarpe. Pochi mesi dopo la sua ascesa al trono, promulga la prima costituzione scritta della storia etiopica.

Era questo, dichiarò il negus in quell’occasione, “il primo segno della trasformazione dell’Etiopia in una monarchia non assoluta”, anche se, in realtà, il potere restava interamente nelle due mani. Rimaneva la macchia dello schiavismo condannato dalla Lega, ma l’astuto sovrano la lavò con un bluff. Consapevole dell’impossibilità di abolire la schiavitù, sulla quale si basava il sistema economico del paese, fece pubblicare un editto che puniva con la morte il commercio degli schiavi, pur sapendo che nessuno dei suoi sudditi avrebbe obbedito. Così infatti accadde.
Hailè Selassiè non sapeva naturalmente che il destino dell’Etiopia era da tempo segnato. Ignorava, come del resto ignorava l’intera opinione pubblica, che nelle trattative condotte a Londra nel 1914, per indurre l’Italia ad abbandonare la Triplice Alleanza che la legava ad Austria e Germania, per scendere in guerra contro queste due potenze, inglesi e francesi avevano promesso agli italiani “equi compensi coloniali”. Ma ecco cosa stabiliva esattamente l’articolo più scottante di questo patto segreto che, nel 1935, fornirà a Mussolini la giustificazione per avventurarsi nell’impresa etiopica:
Nel caso che la Francia e l’Inghilterra aumentino i loro domini coloniali in Africa a spese della Germania, queste due potenze riconoscono in linea di principio che l’Italia potrà reclamare compensi equivalenti, specialmente nel regolamento a suo favore delle questioni concernenti le frontiere delle colonie italiane dell’Eritrea, della Somalia e delle vicine colonie della Francia e dell’Inghilterra.
Senonché, conclusa vittoriosamente la guerra, Inghilterra e Francia si divisero fra loro le colonie germaniche dell’Africa e inoltre, sotto forma di protettorato, si fecero assegnare da una Lega fin troppo generosa i resti del dissolto impero ottomano (la Siria andò alla Francia, la Palestina e l’Iraq alla Gran Bretagna, ecc.), ma non mantennero la loro promessa con l’Italia. La quale, anche per colpa dei suoi poco risoluti governanti, non raccolse che “poche briciole al banchetto della pace”. Questo contenzioso insoluto, che favorirà la propaganda nazionalista del nostro primo dopoguerra, riassunta nello slogan dannunziano della “vittoria mutilata”, non fu dimenticato da Mussolini il quale, certamente più determinato dei nostri timidi ministri liberali, appena conquistato il potere, reclamò con vigore gli “equi compensi” cui l’Italia aveva sacrosanto diritto. E, per la verità, venne in parte accontentato. Nel 1925, infatti, il dittatore italiano trattò segretamente la questione con Sir Ronald Graham, rappresentante del ministro degli Esteri britannico Austen Chamberlain e, come ricorda Franco Bandini nella sua storia delle guerre coloniali italiane, i due personaggi avevano raggiunto un accordo che stabiliva, tra l’altro, quanto segue: la Gran Bretagna avrebbe avuto l’appoggio dell’Italia per la richiesta all’Etiopia di poter costruire una diga di sbarramento nel lago Tana e una strada che dal Sudan doveva condurre al suddetto sbarramento. Per contro, l’Italia avrebbe avuto l’appoggio inglese per ottenere dall’Etiopia il permesso di costruire una ferrovia congiungente l’Eritrea con la Somalia. Con una nota aggiuntiva, la Gran Bretagna riconosceva l’esclusività dell’influenza italiana in tutto l’Ovest etiopico, nonché il diritto italiano di estendere e sviluppare in tutto il territorio la sua penetrazione economica.
Naturalmente era impensabile che l’Etiopia accettasse questo trattato con tutte le sue prevedibili conseguenze politiche, ma poiché ci è nota la disinvoltura con cui le potenze europee si spartivano fra loro i territori coloniali, si può facilmente presumere che siglando questo accordo sia Mussolini sia il Foreign Office dessero per scontato che in un futuro più o meno lontano si sarebbero divisi i resti dell’ultimo stato indipendente africano. Probabilmente il trattato italo-abissino di “ventennale amicizia” firmato nel 1928 era nato proprio per ottenere dall’Etiopia alcune progressive concessioni, in modo da giungere all’esclusività dell’influenza, ossia al protettorato. Ma il negus, che evidentemente aveva mangiato la foglia, si guardò bene dal concedere all’Italia permessi esecutivi e, secondo un vecchio costume etiopico, dilazionò nel tempo, con i pretesti più vari, il rispetto dei suoi impegni. Il comportamento ambiguo del sovrano etiopico, la sua evidente voglia di irrobustire il proprio esercito con l’ausilio di isttuttori stranieri, nonché i suoi acquisti onerosi di materiale bellico in Francia e in Svizzera, non mancarono alla lunga di insospettire gli italiani. Le paure nutrite sin dopo Adua (peraltro non del tutto ingiustificate in quanto il negus, che non aveva capito niente dei mutamenti italiani, ancora si illudeva di poterci battere) tornarono quindi a riemergere. Di certo non sarebbero serviti gli appena 2000 soldati nazionali di guarnigione in Eritrea e in Somalia per rintuzzare qualche eventuale colpo di testa abissino e, di conseguenza, ogni movimento di armati ai nostri confini coloniali veniva seguito con preoccupazione. Fu così che nella mente di Mussolini cominciò ben presto a insinuarsi l’idea, ventilata quarant’anni prima da Crispi, che forse era opportuno risolvere la questione etiopica una volta per tutte. Ma sarebbero passati ancora chissà quanti anni, se nel 1934 non fosse stato ucciso a Vienna il cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss, amico personale del Duce.

Mussolini maturava da tempo l’idea di allargare i confini delle nostre modeste colonie. Non aveva infatti mai fatto mistero della “vocazione africana” dell’Italia fascista. Già nel 1926, durante una sua visita ufficiale in Libia, aveva colto lo spunto per evocare l’impero romano e il destino “che spinge l’Italia verso queste terre”. Si trattava tuttavia delle solite rivendicazioni propagandistiche destinate più all’uso interno che esterno. In politica estera il Duce non aveva ancora programmi precisi, ma era sollecitato da una serie di motivazioni, la principale delle quali era il prestigio. Voleva soprattutto affermare il principio di un’Italia uguale alle altre potenze europee ma, per il momento, si limitava a calcare il tasto sul tema dell’“iniquo” trattato di Versailles, della “vittoria mutilata” e della volontà di rivendicare i “compensi coloniali” promessi dagli alleati all’Italia con il patto di Londra.
Reclamare colonie, d’altronde, rientrava a quell’epoca nella piena normalità e Mussolini riteneva che una loro ridistribuzione più equa avrebbe consentito all’Italia di veicolare nei nuovi possedimenti africani le nostre correnti migratorie che ancora si indirizzavano verso altri paesi europei o nel continente americano. “Ci sono attorno all’Italia” dichiarò infatti in un suo celebre discorso “paesi che hanno una popolazione inferiore alla nostra ed un territorio doppio del nostro. Ed allora si comprende come il problema della espansione italiana nel mondo sia un problema di vita o di morte per la razza italiana. Dico espansione: espansione in ogni senso, morale, politico, economico, demografico.”
Ma per il momento la situazione internazionale impediva qualsiasi iniziativa italiana. Nell’Africa mediterranea ogni espansionismo era impossibile. La Libia era infatti bloccata a est dai possedimenti francesi della Tunisia e a ovest dall’Egitto “protetto” dall’Inghilterra. Restava “disponibile” soltanto l’Abissinia, sulla quale l’Italia vantava “diritti” di vecchia data e che, stretta com’era fra le nostre colonie di Eritrea e di Somalia, poteva essere considerata la preda più facile da catturare. Ma ora, dopo che l’Etiopia era entrata a far parte della Società delle Nazioni, non era più a portata di mano. Un attacco contro di essa avrebbe infatti isolato il nostro paese e forse provocato un intervento di Francia e Inghilterra che, oltre a essere le potenze egemoni della Società delle Nazioni, in forza del trattato del 1906, erano anche le garanti dell’indipendenza dei paesi associati.

19 pensieri su “La bella Italia V

  1. Un capitolo stupefacente per attenzione stilistica e soprattutto per carica storica.
    Vi ringrazio, milord, per le mille e mille occasioni di confronto, che ci offrite sui temi della vita.
    Conoscere il passato per proiettarci, coerentemente, nel futuro.
    Auguro una serena giornata a voi e I vostri lettori che ammiro e apprezzo.
    Buongiorno.

    Eleonora

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    • Eleonora Bisi

      Le origini della colonizzazione italiana in Africa vanno ricercate, da un lato, nel desiderio di non essere assenti dalla spartizione africana operata dalle grandi potenze, dall’altro dalla reale necessità di trovare uno sbocco alla sovrabbondanza della popolazione.
      Ma fu soprattutto lo stabilirsi del protettorato francese in Tunisia che, cancellando le speranze di una pacifica penetrazione italiana nel paese, spronò i successivi governi a una più energica azione nelle sole zone dell’Africa rimaste ancora fuori della sfera d’influenza delle maggiori potenze.

      Buona sera e cordialità

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  2. Un capitolo importante.
    Leggo un ottimo approfondimento del periodo che, ci porta con passione, a respirare gli anni riggenti (Comeli definiva mio padre).
    Grazie, milord, per l’accuratezza dei particolari e per la bellezza di questo capitolo che, in un crescendo d’arte, apre con profondità ai risvolti di un’epoca terribile e affascinante.
    Una bella traccia.
    Buona giornata

    Annelise
    a Paris

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    • Annelise Baum

      Lo schiaffo di Tunisi, pccero la Francia conquistatrice, convinse il governo italiano a iniziare una politica coloniale. Ma al momento non era possibile conquistare una delle vicine e ricche terre dell’Africa mediterranea.

      Perciò l’Italia nel 1882 inizia la penetrazione in Eritrea, una lontana regione sulle coste del Mar Rosso. La conquista si arresterà però quasi subito, perché l’Italia si trova di fonte l’Etiopia: non un gruppo di tribù sparse ma un impero millenario ben organizzato.

      Grazie per esserci

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    • Giorgia Mattei

      in politica interna Crispi affianca una ripresa della politica coloniale perchè vuole fare dell’Italia una grande potenza.
      E poi parlano che era Mussolini ad aver iniziato una politica aggressiva …

      Buona sera e cordialità

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    • Giovanna A.

      Crispi fa occupare nel 1889 la città di Asmara che costituirà il primo nucleo della colonia Eritrea.
      Favorisce poi l’ascesa di Menelik al trono imperiale d’Etiopia in cambio della concessione del protettorato, ossia della sottomissione coloniale del suo paese all’Italia.

      Spero di aver tradotto, con giustizia, le righe della storia riportando, così la veridicità a quello che è.
      Non fu, oppure non fu soltanto, il fascismo ad essere colonialista.
      Grazie milady..e cordialità

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  3. Caro Antonmaria

    Ecco, dunque, che continua l’ avventura dentro la storia. Un’ avventura piena di novità e, perché no, di verità raccolte, assemblate cronologicamente e svelate in tutta la loro cruda realtà.
    Il periodo storico invoglierebbe ad osservare con più leggerezza, ma, come fate notare Antonmaria, non si può essere curiosi senza approfondire. Non avremmo più quella percezione degli eventi che, in cinque capitoli, ci avete regalato.
    Una storia d’ Italia che, con la sua grandezza e la sua miseria, ha contribuito notevolmente alla crescita sociale e individuale.
    Il colonialismo assume, qui, quel significato che allora aveva.
    Percepiamo tra queste righe quell’ aria che parlava di civiltà e di società moralizzatrice dove esisteva la barbarie.
    Erano altri tempi. Erano i tempi in cui le colonie rappresentavano la grandezza e il benessere di una nazione.
    Oggi, per svariati motivi, alcune volte dettati da interessi di parte, quel termine ha assunto connotazioni oscure.

    Con la Vostra arte scrittoria cultura e genialità, siete maestro nel farci entrare dentro gli eventi del presente libro, appassionandoci ad un periodo neppure troppo remoto, dal momento che è quello dei nostri nonni.
    Quest’ opera, come tutti i Vostri lavori letterari e di informazione giornalistica, è un dono per chi può leggerVi e vuol valorizzare la propria esistenza con la cultura. La curiosità, come soddisfazione del sapere, può fare rivoluzioni in questo mondo abruttito dalla superficialità e dall’ ignoranza.
    E Voi, Antonmaria, fate cultura con lealtà, sempre mosso da un profondo ed incrollabile senso di giustizia. Per ciò, parlo per me, più Vi si legge e più c’ è curiosità di leggerVi, e ne offrite di capolavori scritti finora…
    Grazie, leggendoVi, sono bei momenti di vita passati al meglio.
    Con Stima e Affetto,

    Maria Silvia

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    • Maria Silvia

      I corsi e ricorsi storici.
      Quando secondo Crispi, Menelik non rispetta gli accordi, l’Italia gli muove guerra ma va incontro ad una tragitta sconfitta (Adua). Crispi è costretto a dimettersi.

      Nel frattempo, fin dal 1890, l’Italia si era andata interessando alle coste somale e aveva proceduto con una serie di pacifiche penetrazioni, mediante trattati con i piccoli sultani locali. I limiti della penetrazione in Somalia ebbero nuova definitiva sanzione mediante una convenzione firmata con il sultano di Zanzibar (1892): in forza di questa veniva, sotto forma di affitto, attribuita all’Italia l’amministrazione dei porti. Solo nel 1905 l’intera zona fu riscattata dal governo italiano e formò il nucleo principale della nuova colonia della Somalia italiana. Al principio del XX sec. quindi, l’impero coloniale italiano aveva le modeste proporzioni delle colonie dell’Eritrea e della Somalia, povere di risorse naturali.

      Nel frattempo una nuova fase espansionistica si apriva: dal 1925 ebbe così inizio la conquista completa della Libia che si concluse nel 1934, con l’unione di Cirenaica e Tripolitania.
      Nel 1935, Mussolini riprende la politica coloniale di Crispi e Giolitti e si lancia alla conquista dell’Etiopia. Il momento è per lui favorevole: l’ Italia è stimata e ammirata all’ estero ed è garante della pace in Europa insieme alla Francia e alla Gran Bretagna.

      Mussolini meditava da tempo quest’ impresa in Africa orientale e i motivi che lo spingono a riprendere la politica coloniale possono essere sintetizzati in tre punti: aiutare la soluzione della crisi economica, conferire all’Italia il ruolo di grande potenza e permettere al popolo italiano di svolgere la sua missione civilizzatrice.
      Nonostante l’opposizione della Società delle Nazioni e delle grandi potenze, l’Italia iniziò la penetrazione militare in Etiopia il 2 ottobre 1935. Occupata Addis Abeba il 5 maggio 1936, il 9 maggio Vittorio Emanuele III venne proclamato imperatore d’Etiopia e Mussolini proclamava ufficialmente l'”Impero”.

      La stessa Società delle Nazioni, piegandosi di fronte al fatto compiuto, abolì il 4 luglio le sanzioni economiche che aveva precedentemente inflitto all’ Italia, questa cominciò a inviare coloni nei nuovi possessi. In questo momento l’Impero coloniale italiano contava oltre 15 milioni di abitanti, con 220.000 Italiani circa. L’Italia, nei pochi anni che ebbe a propria disposizione, costruì buoni porti, un’ottima rete stradale, ospedali, acquedotti, scuole, e inoltre incrementò le costruzioni urbane, favorendo l’inizio dell’industrializzazione. Le vicende belliche fecero perdere all’Italia l’Impero coloniale.

      Grazie per aver scritto e per esserci.
      Abbiate le nostre cordialità migliori

      Antonmaria

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  4. Un capitolo notevole, caro Milord.
    E’ da pensare, oppure, da riconsiderare con quelle sfumature da voi suggerite, il pensiero politico d’epoca.
    Quel pensiero che diede all’Italia (una Italietta sul serio) la spinta per rinascere.
    capisco che tante e mille implicazioni potrevvero essere fatte sul merito politico, ma si deve riconoscere che non tutto fu negativo.
    Grazie e buona giornata

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  5. L’Etiopia va ad aggiungersi alle altre colonie che l’Italia già possiede in Africa, tutte, fino a quel momento, poco proficue: l’Eritrea e la Somalia nel Corno d’Africa, e la Libia in Africa settentrionale.

    A differenza di questi territori, l’Etiopia è, invece, ricca di risorse naturali.
    I tecnici italiani inviati nel paese parlano di cinquanta milioni di ettari di terra fertile subito disponibili per due milioni di possibili coloni.
    Numeri straordinari.
    Come eccezionali sono le risorse economiche che il regime dedica alla costruzione di infrastrutture e a sostegno dell’occupazione italiana in Africa.
    Ma il sogno di un “impero africano” è destinato a scontrarsi con una realtà ben diversa dalle previsioni.

    Oh milord che capitolo.
    Voi siete una panacea per la comprensione di quanto ci prende intorno.
    Grazie milord.
    Abbiate una serena giornata con tantissima stima

    Maria Luisa

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