La bella Italia VII

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Alle 7.30 del 6 febbraio 1935 le caserme di Arezzo, Pistoia e Firenze, dove erano acquartierati tre reggimenti della divisione Gavinana, risuonavano della rumorosa attività dei giovani militari che si accingevano a partire per il campo invernale sull’Abetone. Erano previsti otto giorni di manovre, e già le colonne delle salmerie stavano per varcare i cancelli, quando alcuni sergenti affannati corsero a bloccare gli ingressi per ordinare alle truppe di rientrare immediatamente nei loro alloggi. Poche ore dopo Radio fante diffondeva per le camerate una sorprendente notizia: “La Gavinana è mobilitata per l’esigenza A.O.”. In parole più semplici, la divisione era stata scelta per essere inviata in Africa orientale e precisamente nella nostra colonia Eritrea.
Non era per il momento la guerra, ma l’evento sollevò qualche apprensione e tanto entusiasmo. All’inizio del 1935, la fascistizzazione dell’Italia non era ancora del tutto compiuta: mancavano l’abolizione del “lei”, della stretta di mano, dei francesismi e di tutte le altre grottesche amenità che saranno inventate dal segretario del partito Achille Starace. Tuttavia il paese era già inquadrato militaristicamente e soggiogato da una tambureggiante propaganda che aveva come motivo guida il destino imperiale della patria. Le masse idolatravano Mussolini e consideravano un sacrosanto diritto il suo progetto di trasformare l’Italia in una potenza coloniale al pari di Francia e di Inghilterra. Il Duce però, a differenza di Hitler, che con la sua corsa al riarmo suscitava apprensioni e timori, cercava di tranquillizzare le grandi potenze con affermazioni rassicuranti. “Quando l’Italia avrà ottenuto delle colonie equivalenti” affermò in un’intervista al “Morning Post”, “diverrà anch’essa un paese conservatore come tutte le potenze coloniali. L’Inghilterra e la Francia non avranno nulla da temere, perché l’Italia si unirà ad esse per la natura delle cose, in vista di una collaborazione per la sicurezza europea. Ma fino a quando l’Italia sarà senza le colonie che le sono necessarie, essa deve rimanere una fonte di agitazione.”
Nessun popolo ha mai desiderato la guerra, ma Mussolini grazie al suo carisma e alla sua eccezionale capacità propagandistica, riuscì a convincere gli italiani che l’impresa coloniale era giusta e necessaria. Il consenso popolare di cui godeva dipendeva da molti fattori: dalla diffusa sensazione che l’Italia stesse attraversando un momento eroico e fortunato; dalla certezza che la guerra che si annunciava fosse poco rischiosa e di sicuro esito trionfale e, non ultimo, dal fascino che esercitava l’avventura oltremare verso una terra esotica e nel contempo familiare per i ricordi del passato.
Certo, quell’impresa comportava anche il rischio di lasciarci la pelle, ma molti lo sottovalutavano: il rapporto tra le forze era rassicurante e la spinta ideale ebbe il sopravvento. Anche chi non si lasciava infiammare dalla mistica dell’impero, era sensibile alle argomentazioni mussoliniane di vendicare Adua, di rispondere alle provocazioni abissine, di portare la civiltà in uno stato barbaro e schiavista e soprattutto di conquistare un territorio ricco – come dicevano, mentendo, i giornali – di oro, di platino e di altre preziose possibilità, che nell’immaginario collettivo si era rapidamente trasformato in un nuovo Eldorado in cui si sarebbe parlato soltanto italiano. E tale era l’entusiasmo che, anticipando il richiamo alle armi, molti giovani e meno giovani facevano la coda davanti agli uffici di arruolamento. Cominciarono a rientrare in Italia anche i figli dei nostri emigranti per indossare il grigioverde o la camicia nera. Pur di essere reclutati, molti offrirono addirittura delle bustarelle; numerosi sottufficiali finirono infatti davanti al tribunale militare accusati di avere intascato quattrini per favorire l’accettazione delle domande di arruolamento degli aspiranti volontari. I quali raggiunsero in totale una cifra spropositata: 1.750.000! Nessun’altra guerra del passato ne aveva mai contati tanti.
Frattanto i giornali continuavano ad attizzare odio e rancore verso i “selvaggi” abissini. Dopo Ual Ual furono registrate novantuno provocazioni fra sconfinamenti, aggressioni e scorrerie di bande armate. Da parte sua, Mussolini provvedeva a mantenere alta la temperatura con discorsi minacciosi e infuocati. “Noi abbiamo piombo per i neri e anche per i biondi!” annunciò in un discorso ai reparti volontari accampati a Eboli che non fu riportato dalla stampa. Difficile stabilire se ce l’avesse con i tedeschi o con gli inglesi che avevano cominciato a mettergli i bastoni fra le ruote.

Ma, come si diceva, non era ancora la guerra. Anzi è molto probabile che Mussolini allora non pensasse alla conquista dell’intera Abissinia, ma soltanto a un consistente allargamento dei nostri confini coloniali. D’altra parte, il contingente inviato nelle colonie consisteva di due divisioni (la Gavinana e la Peloritana) oltre a un “gruppo” di battaglioni di camicie nere, per un totale di circa 35.000 uomini. Pochi più della metà di quanti ne aveva mandati Crispi trentanove anni prima al generale Baratieri. Comunque sia, le promesse, poi ritrattate, di Laval convinsero Mussolini che il momento dell’azione si stava avvicinando. Pochi giorni dopo il suo incontro con il ministro francese, spedì in Eritrea il generale Emilio De Bono, sia pure sotto la veste poco appariscente di alto commissario per le Colonie.
De Bono era un militare altamente politicizzato: fascista della prima ora e quadrunviro della marcia su Roma, aveva ricoperto importanti incarichi nel partito nonché quelli di ministro dell’Interno e di ministro delle Colonie. L’Eritrea la conosceva bene per aver partecipato come tenente di fanteria alla campagna del 1887, che portò al massacro di Dogali, del quale era stato uno dei pochi superstiti. In seguito, vi aveva compiuto altre visite in qualità di ministro. L’incarico affidato a De Bono consisteva in un sopralluogo politico-militare “in vista di una eventuale azione offensiva contro l’Etiopia”. Ma il generale non ignorava che Mussolini, in caso di guerra, gli avrebbe affidato il comando delle operazioni per dare una concreta “impronta fascista” alla conquista dell’impero.
Frattanto, ottenuto il placet francese, il Duce diede il via a un’abile azione diplomatica per ottenere anche dall’Inghilterra un consenso ufficiale o, quanto meno, sottinteso. Ai primi di febbraio, lo stesso Laval andò a Londra per riferire al governo britannico il risultato degli accordi italo-francesi stipulati a Roma in merito alla posizione da assumere sul riarmo tedesco e l’indipendenza dell’Austria, mentre nel contempo il nostro ambasciatore Dino Grandi esercitava la propria influenza negli ambienti politici londinesi favorevoli all’Italia. Ma a dare una mano a Mussolini nella sua azione intesa a sottolineare l’importanza dell’apporto italiano per il mantenimento dello status quo in Europa, contribuì anche Adolf Hitler. Ignorando la minaccia dei patti franco-anglo-italiani, il dittatore nazista continuò infatti imperterrito la sua politica revanscista. Il 13 gennaio 1935, una settimana dopo gli accordi di Roma, la popolazione della Saar, piccola regione tedesca di confine ancora occupata dagli Alleati, venne chiamata a scegliere tra l’annessione alla Francia o alla Germania e la risposta fu plebiscitaria: 467.000 votarono per il rientro nel Terzo Reich contro appena 47.000 voti a sfavore.
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Ignorando le imitazioni stabilite dal trattato di Versailles, poche settimane dopo, il 13 marzo, il maresciallo Hermann Göring annunciò la creazione della Luftwaffe, l’aeronautica militare, e il 16 marzo Hitler deliberò unilateralmente il ripristino del servizio militare obbligatorio, fissando in 36 divisioni gli effettivi della Wehrmacht, il nuovo esercito tedesco. La Germania nazista dava così inizio alla costruzione della potente macchina bellica che avrebbe fatto tremare il mondo. Ora i soldati e gli aviatori tedeschi che avevano compiuto clandestinamente il loro addestramento indossando false uniformi quali “ospiti” dell’esercito italiano o dell’Armata Rossa, una volta rientrati in patria provvidero liberamente a istruire a loro volta le reclute della Wehrmacht. Un ricorso allarmato della Francia alla Società delle Nazioni per le inaudite violazioni del trattato di Versailles rimase lettera morta sui tavoli di Ginevra. Da parte sua, Mussolini, in un estremo tentativo di fermare quella valanga, invitò in Italia i rappresentanti delle tre potenze europee sperando di poter dare una “direzione collegiale” all’Europa, ma la Germania respinse l’invito.
Anche l’istanza etiopica contro l’atteggiamento aggressivo italiano giaceva sui tavoli della Lega quando i capi dei governi italiano, francese e inglese si riunirono a Stresa dall’11 al 14 aprile del 1935. L’argomento principale all’ordine del giorno era naturalmente il revanscismo tedesco, ma in realtà l’Italia, che aveva assunto il ruolo di “nazione pilota”, cercava oltre a questo un assenso per la sua progettata impresa in Abissinia. Inutile dire che nel mondo intero e soprattutto in Europa vivissima era l’aspettativa per questa conferenza dei tre “grandi” del momento. Dall’incontro del premier britannico James Ramsay MacDonald e del primo ministro francese Pierre Flandin con Benito Mussolini l’opinione pubblica si attendeva un rassicurante atto di volontà che valesse a fermare le iniziative di Hitler.
L’Italia fascista, paese ospite (Mussolini presiederà tutte le sedute della conferenza), non rinunciò a rendere ancor più spettacolare quell’importante evento. Tanto per cominciare, il Duce arrivò a bordo di un idrovolante, che pilotava personalmente, ed eseguì un perfetto ammaraggio davanti alla folla plaudente, ai reparti schierati della Milizia e agli oltre quattrocento giornalisti stranieri giunti da ogni parte del mondo. Applausi e fanfare salutarono la delegazione inglese, guidata da MacDonald e dal capo del Foreign Office John Simon, che giunse l’indomani. Poi tutti insieme. Mussolini in testa, andarono ad accogliere alla stazione la delegazione francese guidata da Flandin e da Laval.
A parte le manifestazioni esteriori improntate a grande cordialità, le tre potenze convenute nello splendido Grand Hotel des ìles Borromées si mossero in un’atmosfera piuttosto ambigua e reticente. Ufficialmente si impegnarono a costituire un fronte contro la Germania, ma in realtà ciascuno di essi mirava a trovare una soluzione ai propri problemi nazionali. La Gran Bretagna perseguiva il disegno di guadagnare tempo per “scaricare” Hitler contro l’Unione Sovietica, considerata dai conservatori britannici la “bestia nera”. E infatti Londra, che dopo il nostro attacco all’Abissinia si indignerà per “la mancanza di lealtà italiana”, già allora stava negoziando in segreto con Berlino quel patto navale che sarà firmato il 18 giugno e che per la Lega delle Nazioni costituirà un colpo assai più duro di quello infer-tole dall’Italia con l’aggressione all’Etiopia. Quel patto navale, che consentiva alla Germania di potenziare la sua flotta, dimostrava infatti che l’Inghilterra non era sfavorevole all’espansionismo tedesco in Europa purché Hitler trattasse con Londra. La Francia, invece, stava segretamente operando una politica di riavvicinamento con un “elemento nuovo”, ossia con la Russia bolscevica, un paese che in passato, quando ancora regnavano gli zar, era stato un ottimo alleato dei francesi.

Considerata la malafede complessiva dei partecipanti, non c’è quindi da stupirsi se a Stresa nacque un equivoco di ampie dimensioni. D’altra parte, in diplomazia non si usa mai esprimere esplicitamente ciò che si desidera, ma lo si fa con parole sfumate, mezze frasi, vaghi accenni che possono essere capiti solo da chi ha orecchie per intenderli, ma che possono anche essere facilmente smentiti. Infatti Mussolini non chiese ai suoi interlocutori il permesso di conquistare l’Etiopia, tuttavia quando gli venne sottoposto il testo della dichiarazione finale, in cui si affermava che le tre potenze si trovavano completamente d’accordo nell’opporsi a qualsiasi evento che potesse “mettere in pericolo la pace nel mondo”, disse:
“Mettiamo “la pace in Europa”, così non assumiamo impegni troppo vasti.”
Davanti a questa proposta di correzione, Flandin, con uno sguardo d’intesa, commentò:
“Ho capito, ho capito, voi non volete assumere impegni riguardanti l’Africa.”
MacDonald non disse nulla, ma guardò Simon, che non sollevò obiezioni, mentre Laval si limitò a fare un sorriso d’assenso. La variante suggerita dal Duce, in forza della quale l’impegno dei tre per la pace escludeva l’Africa, fu quindi accettata.
Di Mussolini, ha osservato Indro Montanelli, si può dire tutto il male che si vuole a proposito della guerra d’Etiopia, “ma almeno un merito non può essergli contestato: quello di avere agito, verso inglesi e francesi, con sincerità assoluta”. Dopo l’incontro di Stresa egli ritenne infatti che, sia pure protestando, anche l’Inghilterra si sarebbe rassegnata all’occupazione italiana dell’Etiopia, e a ragione: chi tace acconsente. In seguito spiegò inoltre ai suoi interlocutori cosa voleva fare e perché Io voleva fare. Non nascose neppure che l’incidente di Ual Ual gli aveva fornito la comoda scusa per una finzione diplomatica. Soltanto in seguito, quando Mussolini si era ormai tagliato i ponti alle spalle, gli inglesi mutarono indirizzo sostenendo che a Stresa non avevano capito le intenzioni aggressive del dittatore italiano, anche se questa giustificazione non è affatto convincente. D’altronde, mentre i tre “grandi” erano ancora riuniti nel Grand Hotel des Iles Borromees, già le navi cariche di truppe italiane navigavano verso l’Etiopia e gli inglesi non potevano ignorarlo, sia per il tambureggiare propagandistico che ne faceva la stampa italiana sia perché erano “padroni” del canale di Suez, attraverso cui procedevano i nostri convogli. In realtà, come vedremo, all’origine del ripensamento britannico vi erano motivi di politica interna. MacDonald e il suo successore Stanley Baldwin furono infatti violentemente attaccati dall’opposizione laburista che, oltre a pretendere il pieno appoggio dell’Inghilterra alla Società delle Nazioni cui si era rivolta l’Abissinia, godeva anche del totale favore dell’opinione pubblica tradizionalmente pacifista. Di fronte all’opposizione laburista e all’allarmismo suscitato dalla stampa di destra, la quale paventava il rischio che l’Italia, dopo avere conquistato l’Etiopia, tentasse di realizzare un congiungimento con la Libia, a spese dei possedimenti britannici e con il sostegno dei movimenti indipendentisti arabi, i governanti inglesi si comporteranno in maniera così confusa e contraddittoria da ottenere il risultato di esasperare Mussolini e di sacrificare l’Etiopia senza farsi amica l’Italia.
Intanto, mentre appena sei giorni dopo i colloqui di Stresa in Italia venivano mobilitate altre tre divisioni per l’“esigenza A.O.”, una serie di avvenimenti straordinari sgretolava a uno a uno i patti e le intese che sorreggevano i delicati equilibri europei. L’Inghilterra, già ai ferri corti con l’Italia, giunse ai limiti di rottura anche con la Francia quando venne rese noto il patto navale – stipulato all’insaputa di Parigi e in dispregio alle convenzioni della Lega – che consentiva alla Germania di disporre di una forza navale uguale a quella dell’Italia e di poco inferiore a quella francese. Da parte sua, Laval corse a Mosca per intendersi con Stalin onde creare una minaccia alle spalle di Hitler, mentre nello stesso tempo i francesi intimoriti acceleravano la conclusione dei lavori per la costruzione della Linea Maginot. Per la fretta dimenticheranno di fortificare alla frontiera belga il varco di Montmédy, attraverso il quale nel 1940 i tedeschi passeranno a bandiere spiegate.

L’accordo Stalin-Laval portò scompiglio anche nel mondo politico francese. Leon Blum, leader socialista del Fronte popolare che pochi mesi dopo avrebbe vinto le elezioni, non voleva credere alle proprie orecchie. “Ma come?” protestò sgomento. “Il compagno Stalin si allea con il governo che noi combattiamo!” A quell’epoca il brutale cinismo staliniano era ancora una novità. A consolazione del governo francese giunsero invece gli accordi militari fra il maresciallo Pietro Badoglio, capo dello stato maggiore italiano, e il generale Maurice Gamelin, comandante supremo dell’Armée, al termine dei quali Mussolini poté annunciare al mondo: “La Francia e l’Italia costituiscono un blocco di 85 milioni di uomini, per parlare solo dell’Europa… Posseggono un’attrezzatura industriale e militare che non si può considerare di second’ordine: insomma una forza che non sarebbe facile eliminare”. Era un messaggio diretto a Hitler, che, oltre a minacciare la Francia, aveva manifestato la sua benevolenza verso Hailè Selassiè. Nessuno immaginava ancora come si sarebbe risolta poi quella fase aggrovigliata della vita europea alla vigilia della guerra d’Abissinia.
“Mai visto un cretino vestito così bene” sibilò Mussolini osservando con occhio sprezzante l’ospite che, bello, alto, biondo, in completo grigio dal taglio impeccabile, si allontanava fra i commessi gallonati, gli arazzi e i quadri d’autore che arricchivano le pareti della Sala del Mappamondo di Palazzo Venezia. Era il 24 giugno 1935 e Anthony Eden, astro emergente all’orizzonte politico britannico, aveva reso visita al capo del governo italiano quale latore di una proposta di soluzione della vertenza con l’Etiopia messa a punto dal governo Baldwin, da poco succeduto al gabinetto di MacDonald. Ad affidargli l’incarico era stato il nuovo capo del Foreign Office Samuel Hoare, con una scelta a dir poco infelice. Se infatti si volesse individuare la causa prima delle incomprensioni fra Italia e Gran Bretagna, che poi sfoceranno in aperta inimicizia, è proprio nel rapporto personale tra questi due uomini che bisognerebbe andare a cercarla.
Robert Anthony Eden, baronetto di antica nobiltà, uscito da Eton e dalla Scuola per gli alti studi orientali di Oxford, da otto anni in diplomazia, era convinto, come ammettono i suoi biografi, che l’umanità si dividesse in due categorie: i common people, la gente comune, e gli aristocratici inglesi delle classi alte di cui faceva parte. “In lui” scriverà a sua volta il diplomatico Raffaele Guariglia “non si poteva dire se predominasse l’ottusità, l’improntitudine o il disprezzo assoluto, non tanto verso la politica italiana, quanto verso il popolo italiano, fascista o non fascista che fosse.”
Considerando le umili origini di Mussolini, il suo temperamento, il suo passato, il suo misero diploma magistrale e il dettaglio non trascurabile che il trentottenne visitatore britannico era di quindici anni più giovane di lui e di altrettanti centimetri più alto, è naturale che i due statisti provassero sull’istante una reciproca repulsione. Il “figlio del fabbro” definirà il suo visitatore un “gelido figurino”, mentre Sir Anthony sentenzierà a sua volta che “il signor Musso”, così lo chiamava con sufficienza, “non è un gentleman”. Come se ciò non bastasse, a rendere ancora più astioso quel loro primo incontro contribuì un singolare incidente di cui fu vittima il compassato rappresentante del governo di Sua Maestà britannica. Attraversando la Sala del Mappamondo di Palazzo Venezia, Eden inciampò in un tappeto e cadde bocconi ai piedi di Mussolini, il quale non riuscì a trattenere una sonora risata.
L’inviato del governo britannico era allora titolare del neonato dicastero per i Rapporti con la Società delle Nazioni (diventerà ministro degli Esteri soltanto alcuni mesi dopo). Era quindi un “societario” convinto, anche se il governo britannico si era già reso conto che quell’organismo internazionale aveva ormai fatto il suo tempo; tanto è vero che siglò l’accordo navale con Hitler senza neppure consultarlo. E proprio per giustificare quell’intesa unilaterale, Eden, prima di giungere a Roma, si era incontrato a Parigi con il ministro Laval.
Il colloquio fra Eden e Mussolini durò un paio d’ore e fu, Com’era facile prevedere, a dir poco tempestoso. Dai verbali e dalla ricostruzione dei testimoni e degli storici se ne ricava un quadro abbastanza chiaro. Mussolini si lamentò per la stipulazione dell’accordo navale anglo-tedesco e osservò risentito che era piuttosto curioso che Eden fosse venuto a Roma a difendere la santità dei trattati, visto che era stata la Gran Bretagna la prima a non tenerne conto. Superato lo scabroso argomento. Eden presentò il cosiddetto “progetto Zeila” studiato dagli inglesi (all’insaputa della Francia che ne sarebbe risultata danneggiata) per risolvere la crisi etiopica. Esso consisteva nell’assegnamento da parte dell’Inghilterra all’Etiopia di un corridoio verso il mare lungo la Somalia britannica, mediante una ferrovia che sarebbe sboccata a Zeila, piccolo porto sul mar Rosso. In cambio del suo consenso, l’Italia avrebbe ricevuto dall’Etiopia la provincia dell’Ogaden oltre ad alcune concessioni economiche da determinare.
Dopo un rapido esame della carta geografica posata sul tavolo, Mussolini non ebbe esitazione a respingere la proposta con un secco no. Poi ne chiarì le ragioni. Il progetto era inaccettabile, in primo luogo perché con lo sbocco sul mare, sia pure a spese degli inglesi, l’Etiopia ne sarebbe uscita rafforzata, diventando una potenza marittima; in secondo luogo perché l’Inghilterra sarebbe apparsa come la protettrice dell’Abissinia; in terzo luogo perché l’Italia per ragioni di prestigio non poteva accettare “doni” da altre potenze. “Ci pesa ancora” disse “qualche caso del genere che abbiamo nella storia della Costituzione del Regno d’Italia” (si riferiva al Veneto “donato” da Napoleone III a Vittorio Emanuele II dopo la seconda guerra d’indipendenza). Mussolini osservò ancora che il “progetto Zeila” era inaccettabile anche perché avrebbe raccolto sotto la bandiera inglese tutto il commercio dell’Etiopia ai danni della linea ferroviaria Gibuti-Addis Abeba, della quale Laval aveva ceduto nel frattempo all’Italia un cospicuo numero di azioni.

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38 pensieri su “La bella Italia VII

  1. Ecco che il nostro caro milord ci riempie di bellezza.
    Davvero complimenti per la dotta stesura.
    Ma dico, non no riusciamo a imparare nulla da tutto questo?
    Abbiamo una visione distorta della storia, con una storia distorta.
    Grazie Ninni.
    Sempre eccezionale.

    Buona domenica

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    • Annelise Baum

      Il fascismo dirottò in pochi anni ingenti investimenti nell’Africa orientale italiana.
      La propaganda celebrò a più riprese gli sforzi eccezionali per la costruzione di strade, case, ospedali e scuole.
      L’impero fascista, da questo punto di vista, si poneva in forte discontinuità con la precedente storia del colonialismo italiano: per circa un quarantennio l’Italia liberale aveva mantenuto a livelli estremamente bassi le spese per i territori d’oltremare, e per oltre un decennio, fino alla metà degli anni Trenta, il regime fascista si era mosso nella stessa direzione.

      Uno sguardo di natura comparativa, come suggerisce Nicola Labanca, mette in evidenza come il caso italiano non fosse affatto un’eccezione.

      Vi ringraziammo

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  2. Viviamo in un’epoca, caro Direttore, che si macera nel discutere e ne “chissà se si riesce”.
    Basta conoscere cosa accadde per sapere cosa accadrà.
    Buongiorno e buona domenica Milord

    Francesco
    …lo schiavo ammanettato alla scrivania per oggi.
    (Senza patria, famiglia e digli . 😦 Ma con tanta gioia della moglie e della figlia accennata 🙂 )

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    • Spillo,

      Negli anni tra le due guerre tutte le maggiori potenze coloniali destinarono ingenti investimenti per lo sviluppo dei propri domini africani.
      Lo scopo era certamente quello di valorizzarli sul piano economico, nel quadro, come si è visto, della formazione di blocchi commerciali e valutari.
      A questo si aggiungeva un’altra possibile ricaduta positiva delle spese per i possedimenti: dopo l’inizio della crisi dei primi anni Trenta nelle classi dirigenti europee si affacciò l’idea che la spesa pubblica destinata alle colonie potesse attivare un virtuoso moltiplicatore degli investimenti, favorendo di conseguenza la ripresa economica e il rilancio dell’occupazione.

      Grazie e cordialità

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    • Gianluigi Top

      La possibilità che la politica imperialista, incrementando notevolmente la domanda pubblica, potesse innescare una sorta di “keynesismo coloniale” fu indicata espressamente da alcuni dei principali responsabili della politica economica dello Stato fascista.

      Interessanti saranno gli ulteriori sviluppi.
      Grazie e cordialità

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    • Eleonora Bisi

      Il sottosegretario allo Scambio delle valute, Felice Guarneri, in occasione dell’annessione dell’Etiopia individuò nella spesa pubblica per gli armamenti uno strumento anticiclico, capace di “funzionare da volano del lavoro nazionale in modo da correggere le influenze sfavorevoli che sul grado di occupazione delle fabbriche [avrebbero esercitato] la ridotta disponibilità di materie prime estere e la contrazione che le esportazioni (avrebbero subito) per effetto delle sanzioni”.
      Illuminati?
      Ai posteri l’ardua sentenza ..

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    • Giorgia Mattei

      Un sistema degli scambi così strutturato non apportò benefici alla bilancia commerciale italiana.
      L’elevato ammontare delle esportazioni nei territori coloniali era infatti, in misura significativa, anche il risultato della scelta, da parte di numerosi produttori italiani, di dirottare una quota delle vendite verso l’Africa orientale, penalizzando quindi le correnti di esportazione verso paesi terzi, che garantivano afflusso di valuta dall’estero.

      Grazie

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    • Pick Wick

      La speculare propensione di molte delle tradizionali esportazioni coloniali (caffè, pelli, cera) a indirizzarsi non verso gli abituali mercati di assorbimento ma prioritariamente verso il mercato metropolitano.
      Anche in questo caso veniva a ridimensionarsi una fonte potenziale di valuta pregiata.

      L’aggravio che questa situazione comportava per i conti con l’estero fu prontamente segnalata a Mussolini dal sottosegretario agli Scambi e valute Felice Guarneri e dai funzionari dell’Istituto nazionale per i cambi con l’estero

      Grazie

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  3. Quello italiano in Etiopia non fu colonialismo e nella letteratura etiope gli italiani hanno solo ruoli minori. Muore così nei versi e nelle pagine della letteratura etiope l’impero che Mussolini pensava di aver creato.

    Bisogna ripartire dalla parola “colonialismo” per capire la storia e la letteratura dell’Etiopia. I nomi hanno spesso fatto la storia. Prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, al tempo delle campagne in Africa di Mussolini, l’Etiopia diventa l’Abissinia e la sua popolazione quella degli abissini. L’Abissinia nasce con il fascismo e con esso muore e il colonialismo sembra che nella terra d’Africa non sia mai arrivato.

    Grazie Ninni per questo ulteriore saggio di bravura.
    Buona domenica
    Condivido l’espressione: mi sarebbe piaciuto averlo scritto io un capitolo così bello.
    Ciao

    L.

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    • Hilde Strauß

      All’indomani della conquista dell’Etiopia, il sistema commerciale dell’impero sembrava non pienamente allineato alle esigenze della bilancia dei pagamenti della madrepatria.
      Ad aggravare questo stato di cose contribuirono le divergenze tra i diversi esponenti del governo, che vedevano in particolare opporsi Guarneri e il ministro delle Finanze Paolo Thaon di Revel.

      Grazie milady

      Cordialità

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  4. Nel 1940 la Francia aveva preparato piani per infliggere a sua volta all’Italia un colpo preventivo e gli Alleati vessarono in vari modi l’Italia durante il periodo della non belligeranza, proprio nel momento in cui ci sarebbe stato invece bisogno di rafforzare la posizione di coloro che erano contrari all’entrata in guerra al fianco di Hitler.

    Un saggio il tuo, miolord, davvero bello.
    (Ho scritto del periodo immediatamente dopo).
    Buona domenica

    Anna

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    • Anna Blu

      Gli acquisti dei territori africani dalla madrepatria, furono la prima risorsa – in questo modo, le colonie favorivano i produttori italiani e potevano saldare in lire le proprie spese, senza dover intaccare la disponibilità di valuta estera – impegnandosi al tempo stesso a contenere quel flusso commerciale.
      Una riduzione delle spese coloniali e il raggiungimento dell’ autosufficienza da parte dell’Aoi fu la politica de4l Duce.
      Economista?
      No, semplice statista che pensava, seriamente, alla propria patria

      Grazie

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  5. Caro Antonmaria

    Il mio passaggio per ringraziarVi. Leggo ed apprendo tanto.
    Anche in veste di storiografo, eccellete!
    Questo Vostro, sta rivelandosi un saggio davvero interessante e mi appassiona leggerlo anche per smascherare ciò che si è voluto diffondere in seguito non conformemente ai fatti. Un esempio tra tanti: non avrei potuto immaginare che Mussolini nutrisse antipatia per Hitler, mentre oppostamente Hitler aveva Mussolini in assoluta venerazione.
    Anche per tanti fatti e spiegazione di intenti mi si è aperto un orizzonte nuovo di conoscenza dell’ epoca. SapendoVi persona precisa e giusta, anche questo Vostro ultimo lavoro è stato realizzato col massimo impegno di informare con verità e giustizia, dopo un impegnativo lavoro di ricerca e documentazione.
    Davvero complimenti!
    Con Stima e Affetto

    Maria Silvia
    Vostra Sil

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    • Maria Silvia

      Bisogna notare che, guardando ai dati aggregati, insiste un progressivo miglioramento dei dati anno dopo anno, come appare evidente dalla situazione dei primi mesi del 1939, prima cioè che lo scoppio della seconda guerra mondiale sconvolgesse integralmente il sistema internazionale degli scambi.
      In quel momento il movimento commerciale dell’Africa orientale italiana faceva registrare un andamento leggermente difforme da quello di tre anni prima, e il cambiamento andava nella direzione auspicata dal governo: le esportazioni segnavano un leggero aumento, sia verso l’Italia sia verso l’estero, mentre le importazioni calavano.

      A ridursi erano soprattutto gli acquisti da parte dei territori africani di alcuni prodotti alimentari come i cereali, i legumi e i tuberi, le bevande, gli ortaggi e la frutta.
      Questo dato, unito al notevole aumento dell’importazione di concimi, costituiva la conferma di un significativo incremento della produzione locale e di una maggiore resa da parte del settore agricolo delle colonie (L’ho tratto dal libro Podestà, L’Analisi coloniale economia italiana, pagg 318).

      Si trattava di deboli segnali di cambiamento, indicativi di una possibile inversione di tendenza, che lo scoppio della guerra in ogni caso interruppe.
      La formazione di reti di scambio tra madrepatria e territori dell’A. O. I. era finalizzata anche al raggiungimento dell’obiettivo per eccellenza del colonialismo: l’approvvigionamento, a condizioni vantaggiose e protette, dei classici beni coloniali, come i prodotti minerari e quelli derivanti dalle coltivazioni “esotiche” (caffè, banane, cotone, tabacco).

      Vi ringraziammo per i complimenti che, peraltro, girammo alla Vostra persona.
      Grazie mia signora donna Maria Silvia.

      Con stima, affetto e molto altro…

      Cordialità

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  6. Finalmente mi ha preso il commento.
    E’ tutta mattina che provo e ho scritto ben otto e dico otto volte che sacrivo sto commento.
    Avevo raccontato tutto quello che ho provato leggendoti eccetera eccetera.
    Adesso, se va che me lo prende, ti dico soltanto bravo bravissimo

    Mi è piaciuto proprio.
    Un abbraccio e buona giornata

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    • Manuela Rovati

      I prodotti minerari, da utilizzare come materie prime per l’industria o come fonti energetiche, la produzione locale non fu in grado di sostenere lo sviluppo di manifatture locali né di offrire un contributo adeguato alle imprese in Italia.

      Le risorse di Eritrea e Somalia erano rimaste per decenni poco utilizzate.
      Quanto all’Etiopia, il governo aveva inizialmente riposto grandi speranze nella ricchezza del sottosuolo e si riprometteva di poter conseguire i primi guadagni in tempi rapidi.

      Chissà, se un giorno, si avrà quella verità che …
      Grazie Manuela,
      Vi ringraziammo

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