La bella Italia IX

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All’alba del 3 ottobre 1935, senza essere precedute da una dichiarazione di guerra ufficiale, le avanguardie del nostro corpo di spedizione varcarono quella che per quarant’anni era stata per gli italiani “la frontiera della vergogna”. Il confine fra l’Eritrea e l’Etiopia correva lungo il Mareb, un fiumiciattolo che sfociava nel mar Rosso, mentre verso l’interno risaliva il corso del Setit fino al confine con il Sudan anglo-egiziano. Secondo gli accordi di massima, il generale Emilio De Bono, nominato comandante superiore delle truppe, avrebbe dovuto dare inizio alle operazioni il giorno 5, ma Mussolini affrettò i tempi con un telegramma di questo tenore: “Ti ordino di iniziare avanzata sulle prime ore del 3, dico 3 ottobre. Attendo immediata conferma”. E De Bono dovette anticipare di quarantott’ore tutto il dispositivo d’attacco senza tuttavia incontrare particolari difficoltà, poiché il negus aveva ordinato al grosso delle sue truppe di ritirarsi di 30 chilometri dalla frontiera.
La decisione di Hailè Selassiè, però, non era stata dettata dal timore o dalla prudenza. Gli abissini intendevano semplicemente consentire agli italiani di incunearsi nel territorio per poi sommergerli con le loro armate. Infatti, a differenza di quanto sostiene la vulgata antifascista che presenta l’Abissinia come un povero paese di innocui pastori vittima di una feroce aggressione, a Addis Abeba soffiava da tempo un vento bellicoso. Tutti, dal negus all’ultimo ras, erano sicuri di sconfiggere quegli odiosi italiani che per la seconda volta osavano sfidare il Leone di Giuda. “Li sgozzeremo tutti come montoni” garantivano i ras mentre radunavano le loro truppe desiderose di menare le mani. Hailè Selassiè era inoltre convinto che quando i suoi guerrieri fossero entrati nelle colonie italiane, tutti gli abitanti, compresi gli ascari, si sarebbero ribellati e avrebbero accolto l’esercito abissino come un esercito liberatore. Ma si sbagliava: fra gli ascari non si registreranno diserzioni degne di nota, anzi combatteranno con onore mantenendosi fedeli alla bandiera italiana fino all’estremo sacrificio, mentre fra le popolazioni dell’Eritrea non si verificheranno episodi insurrezionali. Questo accadde per la semplice ragione che gli eritrei, al di là degli storici rancori che nutrivano verso gli scioani, gli Amhara e i loro ras avidi e corrotti che li avevano sfruttati e venduti come schiavi, stavano meglio sotto gli italiani che sotto gli abissini. D’altronde, la differenza tra i due sistemi di vita era enorme: di qua strade, ospedali, acquedotti e giustizia, di là miseria, sopraffazione e quant’altro. A riprova di quanto fosse più confortevole vivere nelle colonie italiane, avvenne anche che molti di coloro che a suo tempo erano fuggiti in Etiopia tornarono poi delusi nei loro villaggi d’origine.
Soltanto quindici giorni dopo il passaggio del Mareb gli abissini cominciarono a farsi vivi. Il loro esercito, affidato al comando del ministro della Guerra, ras Mulughietà, si era messo in marcia con intenzioni bellicose. Prima di lasciare Addis Abeba, il vecchio signore della guerra aveva fatto sfilare in parata i suoi reparti e poi, brandendo la spada e lo scudo di pelle di rinoceronte con i quali aveva combattuto quarant’anni prima a Adua, si era rivolto al negus con queste parole: “Maestà imperiale, non lasciatevi prendere troppo dalla politica. La vostra debolezza sta nel fatto che vi fidate troppo degli stranieri: cacciateli via a calci. Cosa ci fanno qui tutti quegli sciocchi della stampa? Io sono pronto a morire per la patria e anche voi lo siete. Ora siamo in guerra e per dirigerla è meglio che restiate a Addis Abeba, ma cacciate via tutti gli stranieri”.
L’imperatore, però, non diede ascolto ai consigli del suo ministro. Ci teneva a passare per un sovrano moderno ed era consapevole che il mondo avrebbe guardato alle vicende abissine attraverso gli occhi di “quegli sciocchi della stampa”. Per questa ragione, conoscendo le barbare abitudini dei suoi guerrieri, si raccomandò affinché rispettassero le proprietà e le riserve granarie dei villaggi che avrebbero attraversato e, soprattutto, affinché non si abbandonassero, com’erano soliti fare, alle violenze e agli stupri. Ma le sue raccomandazioni furono ignorate: Mulughietà era un ras all’antica, conosceva i suoi uomini e sapeva che se voleva farsi seguire doveva consentire alle truppe di comportarsi secondo i loro costumi, per quanto barbari fossero.
Il piano operativo italiano fu messo a punto sotto la supervisione dello stesso Mussolini, che voleva essere, sia pure da Palazzo Venezia, il vero condottiero di quella guerra. Non a caso si era attribuito la guida, oltre che dei ministeri dell’Interno e degli Esteri, di cui era già titolare, anche dei dicasteri militari: Esercito, Marina e Aeronautica, oltre a quello delle Colonie.
Il dispositivo da lui concepito prevedeva l’attraversamento del Mareb da parte di tre corpi d’armata. Il primo, comandato dal generale Ruggero Santini, aveva come obiettivo Adigrat, il secondo, schierato sulla destra e capeggiato dal generale Pietro Maravigna, doveva puntare su Adua, mentre il terzo, costituito dai reparti indigeni e guidato dal generale Alessandro Pirzio Biroli, doveva muovere verso la conca dell’Enticciò.

Dall’Eritrea si mossero dunque le colonne del più potente esercito europeo che fosse mai stato visto in terra d’Africa prima di allora. Il Duce non voleva correre rischi. “Voglio peccare per eccesso e non per difetto” disse. “Perdemmo Adua per poche migliaia di uomini in meno. Questa volta non succederà.” Complessivamente De Bono disponeva di oltre 150.000 uomini, 156 carri, 126 aerei, migliaia di mitragliatrici e centinaia di cannoni. Altri 60.000 soldati ben riforniti di mezzi erano schierati sul “fronte sud”, ossia in Somalia, agli ordini del generale Rodolfo Graziani. Insieme alle truppe erano giunti in Africa anche migliaia di lavoratori volontari da impiegare per ingrandire il porto di Massaua, costruire edifici, impianti idrici e soprattutto strade. Con essi erano arrivati anche centinaia di camionisti destinati a diventare i veri eroi di questa guerra di movimento: ne moriranno molti per adempiere ai loro compiti, resi particolarmente difficili, oltre che dagli agguati, dai comprensibili problemi logistici che era necessario affrontare in un territorio selvaggio solcato da rare piste praticabili. Questi quantitativi di uomini e di mezzi, già allora notevoli, saranno largamente superati nel proseguo del conflitto, tanto che gli storici definiranno “americana” tale guerra, in quanto fu l’unica che l’Italia combattè con abbondanza di uomini, di mezzi e di rifornimenti.
Emilio De Bono aveva allora settant’anni suonati, ma ancora sognava la gloria militare. Messo a riposo come generale di corpo d’armata alla fine della prima guerra mondiale, aveva alle spalle una camera senza infamia e senza lode, nel corso della quale non era mai emerso dalla mediocrità. Il suo grado e la sua appartenenza alla casta militare tuttavia favorirono il suo successo in politica. Fascista della prima ora e amico personale del Duce, era stato, come si è già detto, quadrunviro del fascismo (ossia membro, con Italo Balbo, Michele Bianchi e Cesare Maria De Vecchi del “quadrunvirato” che agli ordini di Mussolini aveva organizzato la marcia su Roma), poi ministro dell’Interno, ministro delle Colonie, governatore della Libia e commissario per le Colonie. A tardissima età, fra la costernazione degli ambienti militari, gli fu infine affidato il prestigioso incarico di comandante supremo delle operazioni in Africa orientale. Benché sconsigliato dal capo di stato maggiore Pietro Badoglio, che non stimava De Bono e ambiva a prenderne il posto. Mussolini lo scelse sia per “fascistizzare” la guerra, sia perché, volendosi attribuire tutti i meriti della vittoria, questo comandante, al contrario del maresciallo, avrebbe sicuramente evitato di fargli ombra.
De Bono era consapevole della sua “sovranità limitata”; lo ammette con franchezza in un suo curioso diario, inedito e sgrammaticato, riesumato dal giornalista Franco Fucci. Così infatti scriveva il generale alla vigilia dell’attacco:
Quel porco di Badoglio ha cercato di farmi un tiro. Gli tirava il roccolo di venire lui a fare l’operazione. Ma ora ha dovuto smettere l’idea. Mussolini che qui gioca il tutto per tutto (me lo ha detto lui!) non permetterebbe certo che qualcuno gli si mettesse davanti. La gloria, se sarà gloria, deve essere tutta sua. È troppo persuaso che il regime ha bisogno della gloria militare.
Non sfuggiva però a De Bono il gravoso impegno che lo attendeva. “Quando penso che corro verso i settantanni,” confidava nel diario “mi domando se ho coscienza della responsabilità che mi assumo. Comunque sarà un bel canto del cigno.”
Il vecchio quadrunviro non difettava tuttavia di buon senso. Al contrario di tanti generali che in guerra si lamentano sempre di non avere mai uomini e mezzi a sufficienza, lui era preoccupato dal fatto che Mussolini quasi sempre raddoppiava quanto da lui richiesto senza rendersi conto dei problemi logistici che quella profusione di forze provocava. “Il Principale non lesina” annotava De Bono. “Lui manderebbe giù tutto l’esercito, tutta la marina e tutta l’aviazione, senza pensare a come qui si possono alloggiare e far vivere. Purtroppo, il Capo è un orecchiante di cose militari. Fosse stato almeno sottotenente di complemento! Farebbe meno fesserìe.”
All’inizio del conflitto, Mussolini ammassò in Africa cinque divisioni del Regio esercito (Gavinana, Gran Sasso, Sila, Sabauda, Cosseria) e cinque di camicie nere (23 Marzo, 28 Ottobre, 21 Aprile, 3 Gennaio e 1° Febbraio). Queste ultime facevano parte della MVSN, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che era l’esercito del regime, composto di volontari, ovviamente fascisti. I militi si distinguevano dai soldati del Regio esercito per le uniformi, i simboli, i gradi e il soldo (soprattutto il soldo!), nonché per la loro preparazione militare, notevolmente inferiore. Sotto il grigioverde i militi indossavano la camicia nera e al posto delle tradizionali stellette portavano due “fascetti” di allumino. Anche i copricapi erano diversi: fez o baschi neri invece della bustina, ma in Africa era di rigore per tutti il casco coloniale di sughero.

Ossessionato dall’idea di collegare il suo regime con la Roma dei Cesari, Mussolini aveva fatto ricorso alla gerarchia in uso nelle legioni romane. La Milizia era suddivisa in manipoli, centurie, legioni. Anche i gradi, distribuiti peraltro con prodigalità per meriti politici e non militari, recavano l’impronta romana: il centurione equivaleva al capitano, il seniore al maggiore, il console al colonnello e il luogotenente al generale. Ma su questa forzata equivalenza gerarchica, lo stato maggiore dell’esercito aveva trovato da ridire. Si era alfine stabilito che, in caso di mobilitazione, l’ufficiale della Milìzia richiamato per qualsiasi ragione alle armi nel Regio esercito avrebbe riacquisito il grado ricoperto durante il normale servizio militare. Capiterà infatti a molti centurioni o consoli di ritrovarsi sergenti o tenenti.
Considerata tale premessa, è facile arguire che fra esercito e Milizia non corresse buon sangue. I soldati non simpatizzavano con i militi, meglio pagati di loro e più privilegiati. Li consideravano “firmaioli”, pelandroni e scansafatiche. Ironicamente traducevano la sigla MVSN che li distingueva in “Mai Visto Sudare Nessuno”. L’eco di questo dissidio emerge anche dal diario dì De Bono il quale, benché fascista, aveva evidentemente più stima per l’esercito che per le CCNN, le camicie nere. Così infatti scriveva:
Prevedo che le CCNN mi daranno dei fastidi grossi. Quelli di Roma me ne hanno mandato un mucchio. Armi in disordine, senza mutande né fasce di lana… Hanno ufficiali non rispondenti ai gradi militari. Come si comporteranno ora che devono lavorare? Ho dei dubbi. La notte scorsa una sentinella spaventata si è messa a sparacchiare: colpi da tutte le parti, allarmi. E siamo a 130 chilometri dal nemico. Ma lì arrangio io! Che sporche carogne! Furti e pare anche violenza alle donne. Ma li faccio castrare tutti comeè vero Dio! Anche oggi ho ricevuto un rapporto indiziario del lazzaronismo di quella gentaglia.
Ogni 27 settembre, tradizionale ricorrenza della festa del Mascal, della Croce, gli abissini usavano accendere una pira al centro della quale era conficcato un palo. Se il palo cadeva dalla parte dove andava il fumo, era presagio di vittoria, se cadeva dalla parte opposta, di sconfitta. Anche in quel 27 settembre 1935, sei giorni prima dell’attacco, ras Sejum Mangascià, governatore del Tigrè, volle accendere personalmente il falò e il palo, opportunamente guidato da fili invisibili, cadde nella direzione giusta suscitando l’entusiasmo dei guerrieri, che improvvisarono una “fantasia” agitando scimitarre, fucili e zagaglie. Allo stesso trucco ricorse il generale Pirzio Biroli per galvanizzare i suoi ascari, che si esibirono pure loro in eccitanti fantasie guerresche.
Gli ascari furono i primi ad aprire la nostra avanzata. Erano protetti dai quindici carri armati del capitano Ettore Grippa e seguiti a breve distanza dalle truppe nazionali con le loro colonne di bagalì, i caratteristici muletti eritrei, carichi di viveri e di cartucce. L’attacco da terra era stato preceduto da un massiccio bombardamento aereo prima su Adua e poi su Adigrat. L’incursione era stata condotta dalla squadriglia chiamata La Disperata, dal nome di una squadra fascista toscana. La comandava il ministro Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, il quale continuerà a dirigere anche “dal campo” il dicastero della Stampa e della Propaganda di cui era rimasto titolare. Con Ciano, volavano anche altri gerarchi “volontari”, fra i quali Alessandro Pavolini e Roberto Farinacci, nonché Bruno e Vittorio, i figli non ancora ventenni del Duce. Uno di questi, Vittorio, così descriverà la sua azione:
Lo cerco, lo individuo, cronometro il tempo, mollo prima gli spezzoni e poi le bombe da 31 chilogrammi, poi ancora spezzoni. Ma non ottengo che magri effetti forse perché mi aspettavo esplosioni immani, tipo film americani, mentre qui le casette degli abissini, fatte di creta e di sterco, non danno nessuna soddisfazione…
Questa prima fase della campagna ebbe un andamento rapido, da blitz. Il 5 ottobre venne presa Adigrat e il giorno seguente Adua fu finalmente “vendicata”. Gli italiani si impadronirono quasi senza colpo ferire della mitica città, che poi non era altro che una miserabile borgata popolata di poveracci seminudi, i quali si strinsero attorno ai conquistatori chiedendo “mangeria” e ripetendo un verso che i nostri soldati ridendo scambiarono per il “coccodè” delle galline. In realtà dicevano “coat, coat”, “vestiti” in inglese.

La conquista di Adua, per tutti i ricordi e le frustrazioni che questo nome comportava, sollevò in Italia un’ondata di entusiasmo sicuramente spontanea. “Adua sei vendicata / sei ritornata a noi…” cantavano le soubrette degli avanspettacoli avvolgendosi nel tricolore. Ma non si mancò di piangere i primi caduti. Il tenente Mario Morgantini, comandante della Banda del Seraè, avanguardia indigena della Gavinana, fu il primo a morire alla testa dei suoi ascari. Poi seguirono il caporale Marino Gasparini di Meolo e il fante Fiorino Crucianelli di Castelromualdo, ai quali avevano somministrato l’estrema unzione i nostri numerosi cappellani (spesso più soldati che preti) che si spingevano arditamente nelle prime linee.
Inoltre, la stampa nazionale diede molto rilievo alla defezione del degiac Gugsà, il primo dei tanti capi abissini che si lasceranno conquistare da quella che lo storico Giovanni Artieri, allora corrispondente di guerra, definiva scherzosamente “la cavalleria di san Giorgio”, alludendo all’immagine raffigurata sulle sterline, grazie alle quali gli inglesi si erano impossessati di gran parte del loro impero. Gli italiani, comunque, non distribuirono sterline ma gli argentei talleri di Maria Teresa di cui i ras erano avidi. Il disertore Gugsà era genero di Hailè Selassiè, avendone sposato una figlia, morta avvelenata in un’oscura tragedia di corte, da cui aveva avuto origine il suo tradimento. Oltre all’odio per il negus e all’amore per i talleri, il degiac coltivava anche altri interessi. “La prima cosa che mi ha chiesto” racconta De Bono nel suo diario “è stata: “Quando mi sarà consentito di andare a Roma per conoscere finalmente delle donne bianche?”. Non l’ho accontentato.” In compenso, lo nominò solennemente governatore del Tigrè davanti alla popolazione di Adigrat.
Il primo atto ufficiale compiuto da De Bono subito dopo l’inizio del conflitto fu la liberazione degli schiavi. E non poteva non farlo: l’abolizione della schiavitù era il principale motivo con cui l’Italia giustificava l’aggressione all’Etiopia davanti alla Lega delle Nazioni. Questo provvedimento, che nella società etiopica ebbe una portata rivoluzionaria, non sortì tuttavia il risultato che De Bono sperava. “Devo ammettere” ricorda nel suo diario “che il bando non fece grande effetto sui proprietari di schiavi e forse meno ancora sugli stessi schiavi liberati. Molti di costoro, appena messi in libertà, si presentarono al comando per chiedere: “E ora chi ci darà da mangiare?”.” Fece effetto invece sull’animo dei giovani intellettuali che si erano arruolati volontari, certi che fosse un loro dovere (“il fardello dell’uomo bianco”) portare in Africa luce e civiltà. Ma anche gli altri soldati erano in genere animati da stimoli umanitari e comunque non razzisti. D’altronde lo dimostravano cantando convinti: “Faccetta nera, sarai romana…” oppure: “E se l’Africa si piglia / si fa tutta una famiglia”.
Il sottotenente Indro Montanelli, che comandava il 20° battaglione, una banda irregolare del Corpo eritreo di Pirzio Birolì, ebbe l’incarico di leggere e di far tradurre il bando antischiavista in un villaggio occupato ed ecco cosa scrìsse in proposito:
Mi parve bellissimo cominciare ia mia carriera di conquistatore distribuendo ai conquistati la libertà. Ero contento di me, ero contento del mio Paese, ero contento della sorte che mi aveva affidato una parte sia pure minuscola, in quella grande impresa di redenzione. E se quella notte una pallottola mi avesse sorpreso nel sonno, sarei morto bene, in pace con la mia coscienza, cioè con Dio e con gli uomini.
La rapida avanzata di De Bono, spronato da Mussolini, a parere degli esperti fu piuttosto avventata. Il terreno attraversato era montuoso, selvaggio e favorevole alle imboscate. Per questa ragione, Badoglio aveva suggerito che inizialmente fossero impiegate soltanto le bande indigene. De Bono mandò invece avanti 30.000 soldati nazionali attraverso l’unico ponte costruito sul Mareb. Il rischio era stato grande e il maresciallo Badoglio, dopo un’ispezione al fronte abissino, sia per giustificare le sue precedenti apprensioni, sia per sottolineare l’avventatezza del comandante, così riferì a Mussolini:
In questa azione siamo stati assistiti dalla fortuna. Abbiamo avuto di fronte un solenne minchione: ras Sejum ha dimostrato di avere le stesse caratteristiche, notevolmente peggiorate, di suo padre ras Mangascià. Se invece di Sejum avessimo avuto un ras Alula, certamente avremmo avuto alcune migliaia di perdite. Sia dunque lodato ras Sejum Mangascià.

Per De Bono neanche una parola di elogio.
Contemporaneamente all’attacco da nord, dalla Somalia, il generale Rodolfo Graziani, comandante del fronte sud, si mise in movimento con le sue truppe, composte per un terzo da battaglioni indigeni di dubat. Preceduto da intensi bombardamenti aerei, Graziani conquistò a uno a uno tutti i presidi abissini praticamente senza colpo ferire. Soltanto il presidio di Gorrahei, difeso dal coraggioso comandante del fronte sud abissino, il degiac Afeuork, resistè eroicamente per alcuni giorni finché egli, ferito a una gamba, non ordinò la ritirata. “Tutta la zona pare arata dalle bombe” riferirà Graziani dopo la conquista del presidio. “Non c’è tratto che non sia sconvolto, non c’è angolo che non sia squarciato da una buca. L’azione aerea è stata formidabile: le sue tracce lasciano facilmente immaginare cosa sia stato il tormento degli abissini che, pazzi di terrore, non hanno più resistito e sono fuggiti col loro capo morente.”
Dopo la conquista di Adua e Adigrat, De Bono decise di effettuare una sosta per riorganizzare le sue truppe. Ma Mussolini aveva fretta. Intendeva concludere le operazioni prima della fine di novembre e quindi continuava a spronarlo. Lui, di malavoglia, obbedì e proseguì l’avanzata fino ad Axum, dove giunse il 14 ottobre.
Axum, piccola città dell’altopiano eritreo a 2150 metri sul mare, era per gli abissini molto più importante di Adua. Era, ed è tuttora, il “cuore sacro” dell’Abissinia. Le sue origini si perdono nella notte dei tempi. Capitale di un regno e di una civiltà risalenti ai tempi biblici, è ancora oggi il più importante centro religioso abissino, nonché storica residenza dell’abuna, il papa della religione copta. Nella sua pittoresca cattedrale, dedicata a santa Maria di Sion, furono incoronati tutti gli imperatori d’Etiopia. Ricca di reperti archeologici, vanta un numero incredibile di superbe stele scolpite, alcune delle quali ancora erette, collocate sopra le tombe dei più importanti personaggi. Una di esse, alta 24 metri e nota come “l’obelisco di Axum”, dopo la conquista dell’Etiopia fu recuperata dai nostri archeologi e il 28 ottobre 1937 sistemata, per volere di Mussolini, sul piazzale di Porta Capena, dove ancora si trova in attesa di essere restituita all’Etiopia che la reclama.
Ma il mistero più suggestivo che ammanta questa antica città riguarda l’Arca dell’alleanza, ossia quell’”Arca perduta” alla cui spericolata ricerca andò l’attore Harrison Ford nelle vesti di Indiana Jones, protagonista di tre famosi film diretti da Steven Spielberg. Secondo le Sacre Scritture, l’Arca, la reliquia più sacra del culto israelitico, conteneva le due tavole che Dio consegnò a Mosè sul monte Sinai. Era, così si racconta, in legno di acacia, rivestita all’esterno e all’interno di lamine di oro puro, con quattro anelli d’oro per le stanghe di trasporto. Sopra si trovava il propiziatorio, un coperchio rettangolare, sempre in oro, alle cui estremità erano collocate due teste di cherubini. Nessun testimone attendibile l’ha mai vista di persona, ma è sempre stata al centro di tante leggende e molti in passato si sono avventurati alla sua ricerca, animati dalla stessa fede dei mìtici cavalieri di re Artù che inseguivano il sogno di trovare il Santo Graal.
Secondo la leggenda abissina, la regina di Saba, che regnava ad Axum, dopo essere andata a far visita a re Salomone, figlio di David e re di Israele, ebbe da lui un figlio chiamato Menelik, il quale, recatosi più tardi a Gerusalemme per conoscere il genitore, avrebbe trafugato (o, in base a un’altra versione, ricevuto in dono dal padre) la preziosa Arca che testimoniava l’alleanza di Dio con gli uomini. Da allora essa sarebbe ancora gelosamente custodita dai sacerdoti di Axum nel makdas, il santuario della cattedrale nel quale venivano incoronati gli imperatori d’Abissinia. Oggetto sacro per il popolo, gli vengono attribuiti portentosi miracoli. Si narra, per esempio, che Menelik sconfisse gli italiani a Adua dopo avere pregato davanti all’Arca nascosta da una tenda damascata, poiché, così si favoleggiava, chiunque avesse osato guardarla avrebbe perso immediatamente la vista.
Tuttavia, in epoca più recente, malgrado la maledizione che la circonda, qualcuno ci avrebbe provato. Si racconta in particolare di due misteriosi turisti israeliani che, superati innumerevoli ostacoli, riuscirono a contemplarla. Secondo la loro descrizione (peraltro non dissimile da quella tramandata dalle Antiche Scritture), l’Arca consisterebbe in una cassa a forma dì parallelepipedo di materiale indecifrabile, ma apparentemente dorata. Misurerebbe un metro per 70 centimetri e sarebbe chiusa da un coperchio decorato da due teste di cherubini con le ali congiunte dietro la nuca, e poggiata su un piedistallo. Si narra inoltre che la misteriosa visita dei due presunti archeologi israeliani allarmò molto i sacerdoti di Axum, non dimentichi del famoso blitz con cui gli aerei cargo israeliani, diversi anni fa, prelevarono e trasportarono in Israele i 30.000 falascià etiopici, ossia gli ebrei neri discendenti di un’antica comunità trasferitasi nella zona al tempo della diaspora. Per ora, tuttavìa, nessuno si è fatto vivo e, probabilmente, anche in questo caso si tratta di leggenda. D’altra parte se l’Arca fosse effettivamente conservata ad Axum non si capirebbe perché i conquistatori italiani si sarebbero lasciati scappare questo prezioso reperto.

Emilio De Bono sognava la gloria militare, ma era refrattario ai romanticismi. Dell’Arca dell’alleanza, forse, non aveva mai sentito neppure parlare e infatti il suo diario tace in proposito. Non lesina invece critiche né imprecazioni nei confronti di Mussolini, che con telegrammi perentori insisteva a spronarlo perché continuasse l’avanzata, mentre lui era ben deciso a non muoversi finché non avesse riorganizzato le sue truppe. Ecco, per esempio, un suo sgangherato commento dopo uno di questi incitamenti indesiderati: “Fianco destr’, per fila sinistr’! Per me Mussolini si mette in un vicolo cieco. Andare avanti, e dopo? Come potrò essere rifornito? Non vorrà mica mandare l’Italia a remengo!”.
Tutto sommato, la prudenza di De Bono era più che giustificata. L’esercito abissino si stava muovendo e sul fronte nord continuavano ad affluire le armate dei ras Cassa e Immirù mandate in appoggio a quella di ras Sejum. Ognuno di loro comandava decine di migliaia di guerrieri che eccellevano per coraggio, mobilità e diretta conoscenza del terreno. Difettavano invece, per fortuna nostra, di coordinamento e ignoravano del tutto la tecnica della guerriglia che avrebbe sicuramente messo in crisi l’esercito italiano. Infatti, per tutta la durata del conflitto, i ras abissini, anziché optare per la tattica del “mordi e fuggi” che avrebbe giocato a loro favore, cercheranno solo il classico scontro frontale in cui gli italiani, meglio armati e protetti dall’aviazione, avranno sempre la meglio.
Intanto, a Roma, Mussolini mordeva il freno. La tattica ritardatrice di De Bono lo indispettiva e cominciava a pensare di avere compiuto un errore affidando il comando delle truppe a un generale troppo “politico” e troppo vecchio. Da parte sua, Badoglio non perdeva occasione per criticare gli indugi ingiustificati del quadrunviro, e non solo. Nel suo rapporto al Duce sosteneva che tutto il comando in Africa era pervaso “dall’idea di attendere” e per dimostrarlo elencava esempi di questo tenore: “Il generale Santini ha in costruzione una casa a Adigrat, mentre il generale Maravigna ha richiesto il mobilio per l’arredamento di una casa di quattordici camere a Adua”.
Inoltre, per ricordare a Mussolini l’età avanzata del suo rivale, Badoglio aveva aggiunto con finta comprensione una maligna pennellata finale. Riferendosi a una sua visita al generale dopo che questi era caduto da cavallo, scriveva: “Secondo me lo sforzo fatto ha non poco esaurito le riserve di S.E. De Bono. A vederlo in molti, troppi momenti, dà l’impressione di un uomo stanco, quasi sfinito”. Insomma, come osserva lo storico Franco Bandini, avanzare vittoriosamente era, secondo Badoglio, facilissimo e non esistevano ragioni per rifiutare di farlo. Se De Bono si ostinava nel suo atteggiamento prudente, pareva volesse dire, la spiegazione era una sola: rimbambimento senile.
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Il rapporto di Badoglio al Duce fu presentato il 3 novembre, lo stesso giorno in cui De Bono, bombardato dai telegrammi di Mussolini che gli ordinava “di riprendere l’azione con obiettivo Macallè-Tacazzè” aveva effettivamente ripreso l’avanzata. Sei giorni dopo, con il solo intoppo di uno scontro con gli abissini, si compì un’altra “gloriosa” riconquista, quella di Macallè, che vendicava il sacrificio di Galliano. Per l’Italia fu di nuovo gran festa, come per Adua. De Bono, però, la pensava diversamente. “Macallè” scrive nel diario “è un sitaccio della malora come tutti gli altri qui. Le truppe sono bene a posto, ma certo non in grado di proseguire l’avanzata.” Ma Mussolini neppure gli lasciò il tempo di prendere fiato. “Ti ordino” gli telegrafò il giorno seguente “di muovere senza indugio con le truppe indigene verso l’Amba Alagì dove cadde Toselli”. La risposta di De Bono, questa volta, fu piuttosto risentita. Il suo telegramma di replica diceva: “A parte doloroso ricordo storico, che secondo me non abbisogna di rivendicazione, posizione di Amba Alagi non ha alcuna importanza strategica et est tatticamente difettoso perché aggirevole ovunque”. Nel diario De Bono risulta ancor più determinato: “Me l’aspettavo: incompetenza, orecchiantismo, malafede. Ho risposto a dovere”.
Povero De Bono, forse fu proprio quel dispaccio a segnare la fine della sua breve campagna africana e l’avvento di Badoglio. Scoccava, come scrive Indio Montanelli, l’ora del marchese del Sabotino (per gli ammiratori) e del responsabile di Caporetto (per i denigratori). A un comandante in capo fascista ne seguiva uno che non era né fascista né antifascista. Era semplicemente badogliano. Il maresciallo era l’ultimo della lista degli aspiranti alla successione di De Bono presentata a Mussolini (era preceduto da Balbo, De Vecchi, Baistrocchi e Graziani), ma la scelta del Duce cadde su di lui. Dovendo scegliere non un politico, ma un militare, Badoglio era certamente il migliore.
De Bono ricevette la comunicazione del suo licenziamento attraverso un telegramma “segreto e personale” inviatogli da Mussolini che, dopo la secca comunicazione ufficiale, così proseguiva:
Ritengo che questo mio messaggio non ti arrecherà soverchia sorpresa, perché tu sai per esperienza che ogni ciclo di attività ad un certo punto deve essere concluso; che un po’ di riposo ci vuole e che non bisogna esigere troppo dalla fortuna quando sia stata per un certo tempo propizia. Ti comunico che quale tuo successore ho scelto il maresciallo Badoglio. Nell’attesa di rivederti, ti abbraccio con immutata cordialità.
Da parte sua, De Bono confidava nel suo diario in data 16 novembre 1935:
Tornato ieri alle 16 da Macallè al comando, ho trovato qui il telegramma del mio richiamo. Stamane un altro telegramma mi preannuncia il Maresciallato. Promoveatur ut amoueatur. Mi viene a sostituire… Badoglio! Bei gesuiti!
Il bastone di maresciallo d’Italia attendeva dunque il settantenne generale. Lui ne andò fiero, anche se riconobbe che si trattava di un contentino. Ma la più grande soddisfazione gliela darà, senza volerlo, lo stesso Badoglio che, malgrado la promessa di far presto, sarà costretto, come De Bono, a segnare il passo, a sistemare le retrovie e a procedere con la massima prudenza infischiandosene però delle sollecitazioni imperiose di Mussolini.
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17 pensieri su “La bella Italia IX

  1. un capitolo decisamente profondo e approfondito.
    St facendo tanta, tantissima chiarezza su molte cose e molte convinzioni che avevo di quel periodo.
    Adesso presto molta più attenzione ai fatti.
    Grazie milord.
    Buona domenica.

    Dal G.C. P
    Annelise

    Ti ha letto. anche, Deva e ti saluta
    🙂

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  2. Eccoci a un capitolo che per complessità è secondo, soltanto, a un libro di storia. Con la differenza che quest’ultimo è nozionistico e non prende come fa il tuo lavoro domenicale.
    Lo leggo come un romanzo e lo assimilo come un racconto, ma parliamo di vita.
    Un pezzo della storia patria che soltanto tu potevi rendere fruibile con la grande eleganza di cui sei capace.

    Grazie, Ninni.
    Grazie con tanto affetto e stima.

    Buona domenica

    Maria Luisa

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  3. Leggo e leggo e leggo.
    E sento, provandolo, uno strano senso di disagio che mi si crea dentro. Mi chiedo cosa possa essere e allora leggo e rileggo.
    poi, mentre rifletto sui brani e i passaggi di questo capitolo, mi accorgo che la storia raccontata in termini così belli e puliti, diventa un’altra cosa.
    Diventa illuminazione per chi, come me, l’ha assunta soltanto come nozionismo scolastico.
    Sai?
    E’ difficile doverlo ammettere (ma io sono fatta così):
    prima di adesso il credo, la convinzione, era standard. Ovvero non comprendeva il ragionamento dei “fatti” con il cuore…
    Ecco che mi si presenta il tuo (nostro) incontro domenicale.
    Ecco che la mente si allarga e si apre al mondo (dopo averti letto).
    Ecco che l’ineluttabilità si avvale della tua penna.

    Ninni!
    un capitolo magistrale.
    Quasi sicuramente (per scaramanzia non tolgo il “quasi”) tornerò a leggere con più serenità.
    Da soli: io e il mio tablet.
    Per capire
    Per sentire.

    Grazie milord.
    Un caro saluto …

    Elena
    by tea Room in Milan

    🙂

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  4. PS: leggo che i tuoi sponsor sono importantissimi…
    New York Times
    Washington Post …

    Sono onorata, caro Ninni di essere una fortunatissima tua, accanita, lettrice.
    E allora un bacio ci sta…
    Buona domenica, ma ritornerò

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  5. L’ho riletto tutto.
    L’effusione della parola, con la bravura di un’artista.
    il genio e la genialità ti appartengono e mi riferisco a fatti ben precisi del tuo percorso.
    Un ragazzo che non si distoglie dalla giustezza e dalla bellezza dei suoi “assunti”.
    Ninni, ma come sono le tue mani, la tua penna?
    miracolosi.
    Il mio passato antifascista vacilla su questi temi?
    Ti apprezzo tanto.
    La mia “prima” ragazza, Deva, ti saluta dopo averti letto (è grande).
    Vado a pranzo milord.
    Buona domenica e grazie di cuore….

    Annelise

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  6. I’m here my dearest.
    ti leggo dal tavolo del Royal Yacht Club of canberra, attorniata da morgan, Susy e Angie…
    Incredibile come tu sia riuscito a racchiudere l’attenzione in poche battute sul fascism.
    Spiegato bene e riportato meglio.
    I’m ready, my milord.

    Ti regalo una carezza and a Kiss …
    Ti regalo tutto quello che una donna può o potrebbe dire a una great pearson as you.
    Purtroppo leggo alcune “grandi assenze”.
    Anzi ne leggo una in particolare …
    I’m here mylord.

    bello il capitolo potente e really open…
    Many thank

    By Royal Yacht Club of Canberra .,..
    Your Kate (Sia)

    A big hug to Mary Sylvie…
    (Are you ready?)

    Bye

    😀

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  7. Una gioia potervi leggere mio signore Maestro.
    L’articolo, capitolo, è eccelso sia nella forma, che nella sostanza.
    Buona domenica Milord.
    Con un’espressione di simpatia, affetto e profondissima stima.
    Vostra

    Eleonora

    🙂

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  8. Caro Antonmaria

    Un capitolo molto complesso, che tuttavia si legge con coinvolgimento. L’ attenzione è massima, per non perdere alcun passaggio.
    Trasporta la curiosità di apprendere, in tutti i dettagli e sfaccettature, la verità sull’ epoca e sugli avvenimenti che l’ hanno determinata, con la fiducia che si pone in uno scrittore, qui sopraffino storiografo, quale Voi siete: onesto, obiettivo e geniale.
    La stima ed il seguito che raccogliete copiosi sono assolutamente meritati.

    Grazie, nel significato più ampio.
    Con Stima e Affetto

    Maria Silvia
    Tua Sil

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  9. Un capitolo che parla alla storia e alle coscienze, enumerando pregi, modalità e impatto di quegli eventi che segnarono la vita politica italiana.
    Il fascismo?
    le due facce di una medaglia che porta bene e porta male.
    Parla bene e parla male….
    Come tutte le cose …
    Ciao milord

    Sofia

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