La bella Italia X

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La risposta della Lega delle Nazioni all’aggressione italiana dell’Etiopia fu immediata e altisonante, anche se si rivelerà minacciosa quanto “il ruggito del topo”. La Lega era infatti in crisi da tempo e aveva dovuto subire pesanti umiliazioni. Questa era dunque l’occasione di dimostrare che ancora non era morta del tutto. Sotto la spinta britannica e in particolare del ministro Eden, che andava sempre più incarnando la figura retorica della “perfida Albione” già coniata da Mussolini, il 7 ottobre 1935 il Consiglio di sicurezza dell’organizzazione ginevrina votò una risoluzione contro l’Italia che, scatenando il conflitto, “aveva commesso un atto di guerra contro tutti gli altri membri della Lega”. Circa la condanna da infliggere all’aggressore si discusse parecchio: sanzioni economiche o sanzioni militari? Queste ultime sarebbero state certamente più gravi, ma alla fine venne scelta la misura più blanda. Dopo quattro giorni di dibattito tra falchi e colombe, si decise infatti a maggioranza (52 contro 4) di infliggere all’Italia le sanzioni economiche fissando per il 18 novembre la data della loro applicazione. Votarono contro le sanzioni soltanto Austria, Ungheria, Albania e Paraguay. Quest’ultimo paese assunse una posizione contraria per particolari motivi interni che, in seguito, saranno condivisi anche da altri stati sudamericani riducendo così il valore del loro voto. Allo stesso modo si comportarono in seguito la Spagna, la Norvegia e la Svizzera, mentre Belgio e Jugoslavia comunicarono a Roma che non intendevano applicare le clausole più restrittive. L’Unione Sovietica continuò invece a commerciare liberamente con l’Italia assicurandole soprattutto il rifornimento di nafta. Tale comportamento – cui si adeguarono in maniera più o meno scoperta anche le altre nazioni – era dettato da egoistiche ragioni di interesse nazionale. Si temeva infatti che Stati Uniti, Germania e Giappone, non impegnati con le posizioni assunte dalla Lega, potessero monopolizzare il commercio estero italiano che faceva gola a tutti. Di conseguenza, la condanna dell’Italia si trasformò quasi in una finzione giuridica. Le sanzioni imposte dall’Inghilterra per una questione di principio e sulla base di quanto stabiliva lo statuto della Società delle Nazioni risultarono, alla prova dei fatti, di difficile se non impossibile applicazione. Come accadrà successivamente anche all’ONU, la Lega, sorta con il nobile proposito di salvare la pace del mondo, rivelò la sua impotenza proprio nel momento in cui sarebbe stato necessario un suo deciso intervento.
Le misure economiche applicate contro l’Italia erano peraltro non molto gravose. Si limitavano alla proibizione di qualsiasi credito e all’embargo sulle armi e su una serie di prodotti necessari alle industrie di guerra, salvo però il carbone e il petrolio. Soprattutto di quest’ultimo l’Italia aveva assoluto bisogno, visto che allora non ne produceva neppure un litro. Mussolini deve avere tirato un sospiro di sollievo nell’apprendere quella decisione. Anni dopo, infatti, divenuto amico di Hitler, gli confesserà con franchezza: “Se la Lega avesse seguito il consiglio di Eden ed esteso al petrolio le sanzioni contro l’Italia, nello spazio di otto giorni avrei dovuto battere in ritirata in Abissinia. Sarebbe stata per me un’indicibile catastrofe”.
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Tuttavia, la Germania, paese non sanzionista, non approfittò della situazione favorevole per tentare un riavvicinamento all’Italia. Benché Mussolini, sia pure strumentalmente, al fine di allarmare Francia e Inghilterra, avesse ordinato alla sua diplomazia di mostrarsi più duttile verso i tedeschi, il Führer si rivelò ostile nei nostri confronti. Invece di offrire al suo futuro alleato aperture commerciali per colmare le perdite provocate nella nostra economia dalle sanzioni, preferì addirittura favorire il negus inviandogli segretamente e gratuitamente grandi quantitativi di armi attraverso compiacenti navi britanniche che si prestavano volentieri alla bisogna. E non solo: lasciò libera la stampa tedesca, non dimentica della campagna antinazista condotta dai giornali italiani dopo le note vicende austriache, di condannare l’aggressione e di eroicizzare la resistenza etiopica contro di noi. Alla base di tale sconcertante comportamento c’era naturalmente un disegno politico. Hitler aveva interesse che la campagna etiopica fosse lunga e difficile in quanto avrebbe scavato un solco sempre più profondo fra l’Italia e le potenze democratiche, avvicinandola per forza di cose alla Germania. Quest’ultima, inoltre, avrebbe potuto avvantaggiarsi delle ristrettezze economiche dell’Italia per scalzarla dalle sue posizioni in Austria.
Più favorevole verso l’Italia fu invece l’atteggiamento degli Stati Uniti. A parte il fatto che si era alla vigilia delle elezioni e il presidente Roosevelt non voleva perdere il voto degli italoamericani, Mussolini godeva in America di una vasta popolarità (“In quegli anni” scriverà il segretario di Stato americano “Mussolini era un leader responsabile, meno aggressivo nel suo nazionalismo di molti uomini di Stato democratici”). A questo si aggiungeva una questione d’ordine morale. Secondo il governo di Washington, tradizionalmente anticolonialista, la guerra all’Abissinia era certamente ingiusta e l’Italia meritava la condanna, ma altrettanto era ingiusto che le sanzioni fossero state applicate per volontà dell’Inghilterra che, essendo un impero coloniale, non aveva maggiori giustificazioni dell’Italia. Meglio quindi restarne fuori e mantenere buoni rapporti con gli italiani.
L’Inghilterra, d’altra parte, assunse nei confronti dell’Italia una posizione ambigua. Benché Anthony Eden, continuasse a propugnare insistentemente l’embargo sul petrolio e la chiusura del canale di Suez, il governo britannico non prese alcuna misura in tal senso. Il canale rimase aperto (e vale la pena dì sottolineare che quella sarebbe stata l’arma decisiva per fermare l’aggressione) e il petrolio inglese non cessò di affluire indirettamente in Italia e direttamente da Suez dove le nostre navi venivano regolarmente rifornite di nafta. Per non dire poi dei motori Rolls-Royce, destinati alla nostra aeronautica militare, che continuarono a giungere nel porto della Spezia in pieno periodo sanzionista. Il fatto è che negli ambienti più colti e realisti della società britannica era diffuso una sorta di complesso di colpa nei confronti dell’Italia. Nella Storia d’Etiopia di Arnold H.M. Jones ed Elizabeth Monroe, pubblicata proprio nel 1935, si legge infatti:

Nessuno dovrebbe avere a ridire sull’espansione italiana, notevole e pressante. L’Italia è una nazione che abbisogna di materie prime per le sue industrie in via di sviluppo e di uno sbocco per la sua popolazione in eccesso. È arrivata ultima nella corsa alle colonie e a causa di un governo inefficiente è stata poco considerata alla Conferenza della Pace di Versailles. Le si deve una riparazione.
I conservatori britannici e gli ambienti economici non erano mai stati entusiasti delle sanzioni, ma non osarono neppure avventurarsi in una politica di riavvicinamento all’Italia poiché, in quel momento, come osservano Indro Montanelli e Mario Cervi nell’Italia Littoria, incombevano le elezioni e l’opinione pubblica britannica era animata da un profondo risentimento contro il fascismo aggressore. Ma quando, il 13 novembre 1935, i risultati elettorali riconfermarono trionfalmente la maggioranza dei conservatori, il ministro degli Esteri Hoare, che con il premier Stanley Baldwin rappresentava la corrente più morbida del gabinetto, preoccupato, com’era lo stesso primo ministro, che Mussolini potesse cadere fra le braccia di Hitler, convocò l’ambasciatore italiano Dino Grandi per chiedergli con e-strema franchezza: “E adesso cosa possiamo fare per disincagliarvi dalla situazione nella quale vi trovate?”.
Quello di Hoare non era un suggerimento brutale quanto quello che Dino Grandi aveva ricevuto mesi prima dall’ex premier MacDonald allorché la pentola etiopica aveva cominciato a bollire (“Non si fa così, caro Grandi” gli aveva detto il primo ministro inglese, che di colonialismo si intendeva più di noi. “Per conquistare una colonia prima si comincia a mandare qualche missionario, che poi verrà ucciso. Solo dopo di allora si ha la scusa per intervenire. Per giunta, voi avete a disposizione lo schiavismo, la lebbra e il tracoma che fa strage in Etiopia. Mandate quindi una missione di medici e aspettate che ne ammazzino uno. Poi la cosa verrà da sé…”), ma era comunque un segnale positivo. Quel giorno stesso Grandi riferì il messaggio di Hoare a Mussolini, e basta dare un’occhiata alle date per rilevare le conseguenze di quella preziosa informazione. Grandi telefonò a Mussolini il 14 novembre, il 15 Mussolini “silurò” telegraficamente De Bono; quello stesso pomeriggio, alle 14, convocò Badoglio nella Sala del Mappamondo alla presenza dì Alessandro Lessona, sottosegretario alle Colonie, e con poche frasi a effetto comunicò al maresciallo la decisione di affidargli il comando dell’impresa africana.
“Occorre far presto!” si raccomandò Mussolini senza neppure attendere la risposta affermativa dell’interpellato.
“C’è il piroscafo Sannio che parte da Napoli dopodomani, potrei approfittarne” suggerì Badoglio felicissimo di avere realizzato il suo progetto.
“Dopodomani è il 17. Brutto numero” commentò Mussolini. “Porta jella. Fate spostare la partenza del Sannio di ventiquattr’ore.”
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Così il maresciallo partì il 18 novembre con il Sannio, la nave più vecchia e più lenta della nostra marina mercantile. “Chi va piano, va Sannio e va lontano” commenteranno scherzando i giornalisti imbarcatisi al suo seguito. E Badoglio andò lontano per davvero. Verso il vertice della sua carriera.
La guerra e le sanzioni non interruppero i rapporti diplomatici fra le potenze europee. Pur ostentando in pubblico la sua determinazione aggressiva, Mussolini attraverso i canali diplomatici sì dimostrava ancora disposto a un compromesso. Forse, per chiudere in fretta la partita, si sarebbe anche accontentato di qualche importante concessione territoriale senza pretendere di estendere il dominio italiano fino agli estremi confini dell’impero. L’incubo di Mussolini era rappresentato dall’eventualità che i falchi di Ginevra, capeggiati da Anthony Eden, convincessero i paesi sanzionisti a estendere l’embargo al petrolio. Da qui la sua fretta di trovare una soluzione rapida per il conflitto etiopico. In questa febbrile atmosfera, correvano fra Roma e Londra e fra Roma e Parigi assicurazioni, mezze intese, accordi segreti. Inoltre entrarono in scena alcuni misteriosi personaggi, come il palestinese Chukry Jacir Bey che i nostri servìzi segreti presero molto sul serio. Questo Jacir, giunto a Roma nella prima metà di dicembre del 1935, affermava di essere amico dell’abuna Cirillo V, capo spirituale della Chiesa etiopica, e del ministro della Guerra ras Mulughietà, nonché di conoscere bene anche l’imperatore medesimo. Le sue non sembravano vanterie: i riscontri eseguiti dai nostri servizi fornirono ampie conferme. In cambio di un compenso di 100 milioni di lire, o degli equivalenti 422.360 franchi svizzeri, da versare a operazione compiuta, Jacir si impegnava a convincere il negus a concludere la pace entro il 15 febbraio 1936 a condizioni molto favorevoli per l’Italia. Nel caso che tale accordo fosse fallito, assicurava di essere in grado di organizzare in territorio occupato dagli italiani un atterraggio forzato dell’aereo personale con il quale l’imperatore usava spostarsi. Il progetto, denominato “Piano C”, prevedeva inoltre una variante, ossia l’organizzazione di una “battaglia addomesticata” che sarebbe stata vinta dagli italiani e avrebbe fornito al negus la giustificazione per chiedere la pace.

Anche se non siamo in grado di escludere che Jacir fosse un abile imbroglione, è doveroso riconoscere che se dì truffa si trattò essa fu condotta con grande maestria. Tanto è vero che l’operazione venne approvata dallo stato maggiore, coinvolse molti autorevoli personaggi e fu seguita con molto interesse dallo stesso Mussolini. Purtroppo i dossier che contenevano i relativi documenti sono in gran parte scomparsi dagli archivi, ma ne restano alcuni degni di interesse. Come una lettera con l’intestazione del Banco di Napoli, che risulta così concepita:
Napoli, li dicembre 1935 – XIV E.E – Signor Jacir Bey, Roma. – Con la presente Vi comunichiamo che il signor Emilio Faldella* (* Il colonnello dirigente del SIM.) ha aperto a Vostro nome presso questo Banco, un credito di 100.000.000 (cento milioni) di lire italiane, vincolato, irrevocabile e valido fino al 15 febbraio 1936, utilizzabile soltanto nei casi previsti da accordi particolari a Voi noti.
Il direttore generale, Giuseppe Frignarli
Il conto in questione non fu dunque aperto presso la Banca d’Italia come si suole in certi casi, ma presso il Banco dì Napoli, probabilmente perché Giuseppe Frignani, squadrista di Ravenna diventato da semplice bancario direttore di tale istituto e successivamente sottosegretario alle Finanze, offriva maggiori garanzie di segretezza. Purtroppo, non siamo in grado di conoscere come andò a finire questa misteriosa vicenda, ma poiché il negus non chiese la pace e neppure venne rapito, è facile capire che l’operazione deve essere fallita. Jacir Bey, comunque, qualcosa ci guadagnò. Forse per tema di uno scandalo, o per altre ragioni, il SIM non infierì su di lui, anzi lo tacitò con alcuni milioni di lire per poi spedirlo in aereo verso un’ignota destinazione. Risulta ancora che il SIM si raccomandò all’autorità giudiziaria affinché, nel caso che il levantino si fosse a essa rivolto, “la questione non abbia eco nella stampa, onde evitare inutile pubblicità”.
Nello stesso periodo, mentre le operazioni militari italiane segnavano il passo per l’avvicendamento dei comandanti, un altro piano inteso a risolvere il “caso” Abissinia andava nel frattempo maturando fra Londra e Parigi. Dopo la vittoria elettorale, i conservatori britannici, non tenendo conto di Eden e della sua corrente oltranzista e neppure delle loro promesse elettorali, stavano cercando il modo di sciogliere il nodo etiopico senza scontentare Mussolini. L’impresa non era semplice perché l’opinione pubblica, bombardata per tanti mesi dalla propaganda pacifista e antifascista, si sarebbe certamente ribellata se il governo avesse improvvisamente mutato il proprio indirizzo. Ma questo, tutto sommato, era il male minore in quanto, anche in Inghilterra, le promesse elettorali non sempre vengono mantenute. Il rischio maggiore era infatti rappresentato dai falchi capitanati da Eden i quali, all’interno del gabinetto Baldwin, si ostinavano a sostenere la linea dura chiedendo l’embargo sul petrolio per l’Italia, nonché la chiusura del canale di Suez. Il governo britannico si era così diviso in due blocchi distinti. I falchi erano certi che “Musso”, come lo chiamava Eden, si sarebbe rassegnato e avrebbe rinunciato alla conquista dell’Etiopia. Le colombe temevano invece che l’inasprimento delle sanzioni avrebbe spinto Mussolini fra le braccia di Hitler con tutte le immaginabili conseguenze.
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Fu in questa atmosfera che nacque il progetto Hoare-Laval sulla cui gestazione clandestina forse non sapremo mai la verità. La storia ufficiale racconta che Sir Samuel Hoare partì da Londra il 6 dicembre 1935 diretto in Svizzera per un periodo di vacanze fra le nevi. Prima di giungere a destinazione, tuttavia, Hoare si fermò a Parigi nei giorni 7 e 8 per incontrare segretamente il ministro Laval. I due ministri degli Esteri concertarono insieme un compromesso di massima per la soluzione della crisi abissina che avrebbe ricevuto anche l’approvazione di Mussolini con il quale Laval era in continuo contatto telefonico. In questo piano si riconoscevano all’Italia non solo le conquiste già realizzate, ma anche una zona di influenza equivalente a circa la metà del territorio etiopico. Il progetto non prevedeva alcuna contropartita da parte italiana, trarrne la sospensione delle operazioni militari. In parole povere veniva legittimata l’aggressione.
Il fatto che i due pianificatori decidessero il destino dell’Etiopia senza neppure consultare un suo rappresentante non deve sorprendere: era il sistema in uso all’epoca coloniale. Laval, d’altra parte, era sempre deciso “a vendere il negro” per risolvere i suoi problemi. Teneva infatti molto all’appoggio di Mussolini sia per frenare le rinascenti ambizioni tedesche sia per essere da lui aiutato contro le sinistre francesi che, sotto la guida del socialista Leon Blum, si erano fuse nel Fronte popolare in vista delle elezioni di primavera. Da parte sua Hoare, oltre l’interesse della sua parte politica per un accomodamento della questione, non aveva dimenticato la sua amicizia con Mussolini nata nelle trincee italiane durante la prima guerra mondiale.
Tutto risolto dunque? Sembrava proprio di sì. Mussolini aveva ufficialmente “preso in considerazione” il progetto e certamente lo avrebbe accettato. Il negus invece, appena avuta visione del piano, lo respinse sdegnato sottolineando che “non si può concedere pacificamente agli italiani ciò che essi non riescono a conquistare con le armi”. Non aveva tutti i torti. Ma il voto negativo dell’Etiopia sarebbe stato ininfluente in quanto era facilmente prevedibile che la Società delle Nazioni, dominata, come sappiamo, da Francia e Inghilterra, avrebbe sicuramente approvato il progetto. Infatti, il suo segretario generale, il francese Joseph Avenol, aveva già dichiarato di ritenerlo “sostanzialmente equo”.

Ma non tutto procedette per il verso giusto. Pochi giorni dopo, mentre Hoare si dilettava a sciare sulle nevi svizzere, qualcuno a Londra sussurrò a qualcun altro che cosa stava bollendo in pentola e in breve ne fu informata l’ala “edeniana” del Foreign Office. Al sentore di un prossimo accordo favorevole all’Italia, i falchi conservatori, appoggiati dall’opposizione laburista, minacciarono di spaccare in due la Camera dei Comuni. Ciononostante, Baldwin riuscì ugualmente a superare la tempesta inducendo la maggioranza dei deputati a votare in favore del progetto Hoare-Laval. Ma l’ostinato Anthony Eden non si diede ancora per vinto. Il giorno seguente, un suo articolo, intitolato Un corridoio per i cammelli, nel quale il ministro sanzionista denunciava “l’inverecondo mercato”, suscitò grande scalpore nell’opinione pubblica. Non solo: grazie a uno scoop giornalistico probabilmente pilotato, l’“Écho de Paris” rivelò i particolari più segreti del progetto Hoare-Laval informando il mondo che l’Italia si accingeva a “pasteggiare sul cadavere dell’Etiopia”.
Di fronte alla levata di scudi di gran parte dell’opinione pubblica, il governo britannico si trovò nuovamente in gravi difficoltà. Forse, se fosse tornato in tempo dalla Svizzera, Hoare sarebbe riuscito a convincere la Camera dei Comuni spiegando le ragioni che gli avevano suggerito di progettare quel piano. Ma, per colmo dì sfortuna, Sir Samuel si ruppe il naso mentre sciava nell’Oberland bernese e quando rientrò a Londra il 17 dicembre era ormai troppo tardi per placare la tempesta. A chi gli chiedeva notizie sulla sua salute, il ministro degli Esteri britannico rispose laconicamente: “Vorrei essere morto”. Per la verità, Hoare politicamente era già morto. Baldwin pur avendo partecipato alla elaborazione del progetto, vista l’aria che tirava, aveva infatti deciso di scaricare il suo ingombrante ministro per affidare il Foreign Office ad Anthony Eden, il difensore della Società delle Nazioni.
L’eco degli avvenimenti londinesi raggiunse Roma la sera del 18 dicembre, poco dopo che si erano concluse le celebrazioni della “Giornata della fede” di cui parleremo più avanti. Mussolini fu avvertito telefonicamente da Grandi della nomina di Eden quando era ancora in corso la riunione del Gran consiglio del fascismo convocato urgentemente per esaminare il progetto Hoare-Laval. Inutile aggiungere che non si arrivò a risoluzioni di sorta, né all’emanazione di un comunicato ufficiale (pare però che fosse già pronto quello per l’accettazione del progetto). Mussolini sì limitò a chiamare a raccolta gli italiani: “Contro di noi” dichiarò “si è schierato il fronte della conservazione, dell’egoismo e dell’ipocrisia”. Poi pronunciò uno dei suoi slogan più efficaci che presto comparirà su tutti i muri d’Italia: “Noi tireremo diritto”. Non gli restava altro da fare. Svanita ogni speranza di vincere la guerra senza combatterla, era ora indispensabile terminarla al più presto. L’incubo dell’estensione delle sanzioni al petrolio dominava i suoi pensieri.
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Mentre i legionari continuavano a partire per l’Africa cantando Faccetta nera, salutati da folle festanti e accompagnati dalla benedizione di innumerevoli vescovi e in particolare da quella del cardinale Schuster, di Milano (“all’esercito che a prezzo di sangue apre le porte d’Etiopia alla fede cattolica e alla civiltà romana”), e pure dalla paterna esortazione del papa (“la guerra è necessaria per l’espansione del popolo”), il costume degli italiani andava rapidamente mutando. Le sanzioni economiche, infatti, produssero l’effetto opposto di quanto si ripromettevano i paesi sanzionisti. Favorirono l’industria nazionale e consentirono a Mussolini di mobilitare spiritualmente l’intero paese. L’Italia si sentiva accerchiata e il regime fece leva su questo sentimento per ottenere un consenso che non si può non definire totale. Mai come in quei giorni gli italiani sì strinsero attorno al Duce in una sorta di entusiasmo collettivo che cresceva via via che le vittorie militari e le difficoltà in cui si dibatteva la Lega delle Nazioni alimentavano l’esaltazione patriottica e l’orgoglio nazionale. Anche gli antifascisti ritenevano immorale che paesi impadronitisi con la forza delle armi di immensi imperi coloniali ora condannassero con falso moralismo il diritto dell’Italia a conquistarsi un “posto al sole”. Molti fuoriusciti politici chiesero di poter rientrare in patria e alcuni si arruolarono volontari, mentre noti uomini politici del passato, discriminati dal regime, inviarono a Mussolini messaggi di consenso e di incoraggiamento a continuare la lotta. Animato dal “sentimento del Piave”, Vittorio Emanuele Orlando, il presidente della Vittoria, offrì al Duce la sua collaborazione “perché in questo momento ogni italiano deve essere presente per servire la Patria”. Il vecchio leader socialista Arturo Labriola espresse anch’egli la sua “piena solidarietà”.
Le sanzioni provocarono in tutta Italia anche un’ondata di generale xenofobia. Se negli avanspettacoli si sfidava la vecchia Inghilterra con una canzonetta a doppio senso il cui ritornello diceva: ‘“Sanzionami questo / se tu sei capace / lo so che ti piace / ma non te lo do”, nel linguaggio corrente i termini “leghista” e “sanzionista” assunsero significati spregiativi e tutto ciò che riguardava gli inglesi {“il popolo dei cinque pasti al giorno”) diventò oggetto di scherno. Sebbene non si osasse “espellere” Shakespeare, l’anglofobia bandì dai cinema e dai teatri i film e le commedie britanniche, salvo quelle di George Bernard Shaw, ma lui era irlandese e, per giunta, avverso alle sanzioni. Benvenuti erano invece i film americani. Gli Stati Uniti non aderivano alla Lega, non erano sanzionisti, quindi grandi successi di botteghino per Shirley Temple, Tom Mix, Bob Taylor, Joan Crawford e gli altri popolarissimi divi di Hollywood.
Achille Starace, il segretario del partito fascista che aveva già avviato una campagna per l’abolizione del “lei” (uno spagnolismo da sostituire con l’italiano “voi”) approfittò dell’occasione per rivendicare la purezza della lingua italiana e dichiarò guerra agli esotismi. Diventò impopolare chiedere pardon invece di scusa e benché i contravventori non incorressero in particolari punizioni, salvo il rischio di essere classificati “borghesi antipatriottici e panciafichisti”, era comunque prudente cancellare dal proprio vocabolario tutte le parole straniere di uso comune. Starace giunse addirittura a far pubblicare un glossario, diffuso dai giornali e nelle scuole, che suggeriva il termine italiano con il quale sostituire il “francesismo” o l’“inglesismo” cui di solito si ricorreva nelle conversazioni. Sfidando il ridicolo si proponevano anche sostituzioni francamente singolari come cotiglioni al posto di cotillon, o casimiro al posto di cachemire. Cambiarono di conseguenza anche i nomi stranieri delle ditte e di alcuni centri abitati.

I grandi magazzini Standard diventarono Standa, Saint-Vincent fu ribattezzato San Vincenzo e Courmayeur diventò Correlatore, mentre i sigari London e Trabucos assunsero il nome di Firenze e Macallè e le sigarette Giubek diventarono Giuba. Persino i nomi d’arte di alcuni personaggi dello spettacolo furono italianizzati: Wanda Osiris cambiò il suo in Vanda Osiride e Lucy d’Albert in Lucia d’Alberto. Ma Starace (che non era troppo colto) raggiunse il culmine del ridicolo quando prese di mira l’albergo Eden di Roma… A questo punto vale la pena di trascrivere integralmente la registrazione di una telefonata intercettata e trascritta dai servizi segreti, fra lo stesso Starace e il federale fascista di Roma:
Starace: Malgrado le ripetute istruzioni in merito all’italianizzazione delle insegne, mi risulta che le cose stanno ancora al punto di prima.
Federale: Eccellenza, purtroppo operazioni del genere non possono essere portate a compimento in quattro e quattr’otto. Non si tratta di cambiare soltanto la dicitura, ma anche di provvedere ai conseguenti lavori di restauro.
Starace: Meglio, così si prendono due piccioni con una fava: aboliamo le parole straniere e rendiamo più accogliente il volto della capitale.
Federale: Giusto.
Starace: E dite un po’… con l’albergo Eden come la mettiamo?
Federale: Mah… credo si tratti di un equivoco…
Starace: Quale equivoco?
Federale: Ehm… volevo dire che la parola Eden non è affatto anglosassone, ma latina… a meno che non si voglia considerare straniera anche la lingua parlata dai nostri progenitori…
Starace: Per caso, mica volete scherzare?
Federale: Per carità, Eccellenza! Il fatto è che Eden, in latino, significa paradiso…
Starace:… Sì, lo so, lo so… ma, sapete, la gente è così ignorante che può fin’anche pensare che si tratti del nostro nemico numero uno, o almeno di un antenato del fautore delle bieche sanzioni.
Federale: Su questo sono perfettamente d’accordo.
Slarace: Allora, per evitare ogni dubbio, meglio sostituire al più presto quel nome.

Il 18 novembre 1935, quando le sanzioni economiche contro l’Italia diventarono operative, Mussolini stabilì che questa data venisse ricordata come il giorno dell’ignominia e dell’iniquità e volle che fosse affissa su tutti i comuni d’Italia una lapide “a ricordo dell’assedio, perché resti documentata nei secoli l’enorme ingiustizia consumata contro l’Italia, alla quale tanto deve la civiltà di tutti i continenti”.
Ma, a parte il folklore, a Roma, dove l’applicazione delle sanzioni era stata da tempo prevista, ci si era preparati ad affrontarla varando l’“autarchia”, un neologismo grecizzante riesumato da Mussolini per definire il nuovo orientamento economico inteso a produrre in casa propria i beni e i servizi di cui il paese aveva bisogno. Si può quindi rilevare che le “inique sanzioni”, oltre a fornire al regime un formidabile strumento di propaganda senza arrecare gravi danni economici, favorirono anche l’industria nazionale liberandola dalla fastidiosa concorrenza straniera. D’altra parte, questa volontà “di fare da sé” forse poteva essere considerata velleitaria, eppure non si può negare che trovò una profonda corrispondenza negli italiani di allora. Un esule antifascista come Carlo Rosselli dichiarò che bisognava “riconoscere con franchezza virile che il fascismo, almeno sul piano interno, che è poi quello che più di ogni altro ci concerne, esce rafforzato e consolidato da questa crisi”. Dal canto loro, i comunisti ammettevano sulla pubblicazione clandestina “Lo Stato operaio” che “il fascismo è riuscito per il momento a fanatizzare anche parte non indifferente della gioventù proletaria. Le sue parole d’ordine demagogiche hanno fatto presa su larghi strati della popolazione lavoratrice”.
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13 pensieri su “La bella Italia X

  1. Ho letto la prima parte ed è entusiasmante.
    Questo capitolo è una svolta.
    Una svolta narrativa. I fatti riportati ci parlano della applicabilità delle decisioni del periodo che, per l’Italia, furono decisioni importanti.
    Un regime che, parla alla popolazione e ai propri destini.
    Bravo, ma ritorno…

    Un Capitolo importantissimo per la comprensione di periodo.
    Ninni sei incredibilmente bravo.
    Grazie Direttore.

    Sofia

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  2. Bello proprio.
    Francamente non saprei cosa scrivere Milord.
    Questa è una scuola, anzi un’Accademia dove la tua professionalità al nostro servizio, insegna tanto dandoci molta luce.
    Mi ha permesso di capire e capire.
    Grazie

    Franci

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  3. Caro Antonmaria

    Chiunque possieda onestà intellettuale, leggendo questo Vostro saggio e particolarmente questo capitolo, non può che ammettere la positività, nonché l’ efficacia, di gran parte delle strategie e delle politiche fasciste con l’ intento di far conseguire all’ Italia prestigio come Stato sul piano internazionale e far ottenere benessere al proprio popolo. Magari oggi si potesse provare quell’ entusiasta sentimento di Patria che era proprio della più parte degli italiani di quel tempo!
    Fare cultura in maniera completamente obiettiva è attitudine di pochi tra gli addetti, senz’altro prerogativa Vostra, Antonmaria. Grazie.

    Con Stima e Affetto,

    Maria Silvia
    Vostra Sil

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  4. Il mio passato antifascista non si discute e non permetto a nessuno di metterlo in discussione.
    a, devo dire che in tutte le eggiori dittature ci sono stati dei momenti in cui, anche l’andazzo autoritario l’ha avuta vinta, almeno apparentemente, sul quotidiano ..
    Mi piace questo capitolo perché parla anche dei momenti favorevoli alla vita italiana.
    Quelli brutti si ricordano più spesso.
    Buona giornata milord

    Silvia

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  5. Davvero notevole come capitolo.
    Ma non saprei, decisamente, cosa scrivere.
    Tutti hanno scritto qualcosa ma, ti dirò, sto soltanto apprendendop e comprendendo…
    Mi stai insegnando davvero tanto…
    Ciao Ninni e buona giornata

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  6. Questo è un capitolo davvero notevole.
    Un punto di maestrìa non comune che parla e ci parla di perfezione stilistica e fluidità nell’assunto.

    Un passaggio cos’ l’ho letto, soltanto, nella Storia d’Italia di Montanelli-Cervi, L’Italia littoria.
    Le sue fonti sono ottime e il suo “assemblaggio” mirabile.
    Notevole e soprattutto la ringrazio davvero per aver colmato molte lacune…

    Buona giornata

    VF

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  7. Questo capitolo mi parla di tanta bellezza nello scrivere.
    Un colosso tra titani che si svolge nelle pieghe di un passato ancora oscuro.
    Sai dirmi, di quel passato, cosa conservi?
    i fatti fascisti non si possono cambiare.
    Che tu, con questi fatti, ci giochi è … un fatto.
    Tra l’altro ci siamo, da sempre, scontrati sul profilo politico.
    Ma su quello umano?
    Sono giunta qua per sbaglio (non è vero: mi è stato suggerito)
    Ma adesso ci sono…
    Ciao, come stai?

    (Al) Babi

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  8. Un saggio di bellezza che bellezza essa stessa.
    Questi temi, lo sai, mi lasciano molto perplessa e per giustizia, certe volte vorrei proprio essere in quel periodo presente per poterne raccontare la realtà.
    Ma ho un amico, un grande amico che ci regala già questi momenti.
    Momenti importanti e belli.
    Momenti di bellezza e di potenza letteraria.
    Grazie Ninni
    Grazie
    Buona giornata
    Dunque, domani, c’é l’altro vero?
    Ciao

    L.

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  9. Un capitolo che ho già letto due volte (ieri sera e oggi).
    Pieno come bellezza e chiarissimo come estensione.
    Credo che proverò a riconsiderare molto di quel periodo.
    Il tuo apporto, caro Ninni è notevole, come notevole è quello che leggo e che imparo.
    Buona serata e grazie

    Annelise

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