La bella Italia XII

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Nei giorni seguenti, sulle colonne in marcia verso Neghelli, che fungeva da retrovia dell’esercito etiopico, Graziani scatenò gli attacchi aerei, mentre la fame, la sete e il deserto decimavano l’armata di ras Desta, che giunse infine esausta e dissanguata in vista di Dolo. La lotta continuò tuttavia ancora per alcuni giorni: gli abissini si batterono furiosamente non per vincere, ma per il cibo e soprattutto per l’acqua. Un giornalista italiano, Sandro Volta, che era presente, riferirà di una “massa imbestialita di abissini che si buttavano contro la morte certa per un sorso d’acqua ed erano falciati dalle mitragliatrici”.
Fu durante questa battaglia che sarebbero stati usati per la prima volta gas vescicanti. Il verbo condizionale è pleonastico in quanto, benché l’accusa sia stata a lungo smentita in forma ufficiale e dagli stessi combattenti (molti di loro, fra cui lo stesso Montanelli, in un certo senso il Senofonte dell’impresa, lo negarono a lungo e in buona fede), è ormai documentato che in Etiopia gli italiani ricorsero anche ai gas. Il primo a farlo fu dunque Graziani per “diritto di rappresaglia”, si disse poi, dopo che il pilota Tito Minniti, caduto in territorio nemico, era stato torturato, castrato e quindi decapitato. L’iprite fu comunque utilizzata sia sul fronte sud che sul fronte nord, ma non su larga scala (Mussolini ne aveva autorizzato l’impiego solo in casi eccezionali “per supreme ragioni di difesa”) e non con tale frequenza da poter sensibilmente mutare il corso della guerra. Secondo lo storico britannico James Strachey Barnes, “lo fecero legalmente quando gli abissini violarono altre convenzioni: l’evirazione dei prigionieri, l’impiego delle pallottole esplosive e l’abuso del simbolo della Croce Rossa”.
Sugli effetti della guerra chimica, il negus inviò alla Lega delle Nazioni un’ampia relazione in cui, pur dando per scontata una strumentale esagerazione, non mancavano testimonianze di particolare drammaticità.
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Da parte loro, i rappresentanti italiani respinsero le accuse del negus e controbatterono accusando gli abissini di impiegare le pallottole esplosive dum-dum, anch’esse vietate dalla convenzione di Ginevra. Tuttavia la Lega, sempre più paralizzata dai contrasti interni, non prese posizione sull’argomento e lasciò che la polemica sull’uso dei gas e delle dum-dum si esaurisse in una lunga e infuocata campagna di stampa.
Frattanto la controffensiva di Graziani aveva disperso l’armata di ras Desta e il 20 gennaio il generale poté fare il suo ingresso a Neghelli. La città era praticamente deserta. Terrorizzati dai bombardamenti, gli abitanti si erano rifugiati nei boschi. Passarono alcune settimane prima che si decidessero a rientrare in città. Si trattava, a ben vedere, del primo vero successo militare: ras Desta in fuga, un’armata dispersa e sgomento tra le file abissine. Mussolini era soddisfatto, ma Badoglio non dovette affatto rallegrarsene.
Ai primi di gennaio, dopo alcune settimane di stasi, il maresciallo, sempre più pungolato da Mussolini, si trovò costretto a scegliere fra due alternative: aspettare il nemico sulle posizioni fortificate o prevenirlo con un contrattacco. Optò per l’attacco e mise a punto il piano di quella che sarà poi definita “la prima battaglia del Tembien”. Il piano era relativamente semplice. Badoglio progettava di prendere in contropiede le forze di ras Cassa e di ras Sejum attraverso il passo Uarieu, mentre due finte offensive, sferrate contro le ali estreme dello schieramento abissino, avrebbero impegnato le armate di ras Immirù e di ras Mulughietà, impedendo loro di accorrere in aiuto a quelle impegnate nel settore centrale. I combattimenti iniziarono il 19 gennaio e il villaggio di Mehenò, al centro delle linee abissine, passò più volte di mano. Verso sera gli uomini di ras Cassa cominciarono a indietreggiare dando agli italiani l’impressione di avere via libera. In realtà il ras, che pur essendo sprovvisto di mezzi moderni (in particolare dei servizi di comunicazione) non era digiuno di tattica militare, facilitò l’avanzata degli italiani per poi poterli cogliere di sorpresa. Era infatti consapevole che la chiave della battaglia era situata a passo Uarieu e su questo obiettivo si apprestava a concentrare tutti i suoi sforzi.

Le sorti dello scontro si decisero infatti attorno a quel varco roccioso che era tenuto dalla I Divisione Camicie Nere 28 Ottobre guidata dal generale Umberto Somma e composta in gran parte di volontari anziani reduci della prima guerra mondiale o addirittura di quella di Libia. La mattina del 21 gennaio una colonna di camicie nere, forte di circa 2000 uomini al comando del Console Filippo Diamanti, usciva dal passo Uarieu per compiere una puntata dimostrativa. A questo punto, contravvenendo all’ordine di Badoglio, che gli imponeva di fermarsi sulle rive del fiume Belès “per non correre il rischio di essere staccati dal passo”, Somma, ingannato dalla facilità con la quale la colonna è penetrata nel territorio nemico, cambia idea e ordina a Diamanti di superare anche il corso d’acqua e di spingersi fino a ridosso dei roccioni di Daràn. Il giovane console obbedisce a malincuore, e le camicie nere cadono nella trappola abilmente preparata dagli abissini. Chiusa nel fondovalle e stretta in una morsa fra le truppe di ras Cassa e quelle di ras Sejum appostate sulle alture, la colonna si trova improvvisamente in mezzo a due fuochi. Gli etiopi attaccano in massa a ondate concentriche, secondo la loro tattica di annientamento, e i legionari si difendono con furore. Ma in pochi minuti la partita diventa disperata e non rimane che morir bene. Cade, finito a sciabolate, il Seniore Luigi Giuseppe Valcarenghi, cremonese, cinquantenne, reduce di due guerre; cade Fausto Berretta, maturo ferrarese, dopo avere consumato i nastri di due mitragliatrici e le pallottole del suo moschetto; cadono molti altri ufficiali: Marco Molaroni, Amerigo Passio, Luigi Chiavellati, in tutto 19 per l’esattezza e oltre 350 fra legionari e ascari. Cade infine padre Reginaldo Giuliani, cappellano militare reduce della Grande guerra. È uno dei tanti preti-soldato affascinati dal mestiere delle armi che hanno seguito le nostre truppe spinti da un desiderio di martirio, ma che, insieme alla croce, spesso impugnano il moschetto. Padre Giuliani viene ucciso a sciabolate mentre impartisce l’estrema unzione a un morente. Il massacro sarebbe completo se non intervenisse un reparto di ascari inviati da Somma in loro aiuto. Al tramonto i superstiti riescono a ripiegare verso passo Uarìeu con i compagni feriti e in condizioni terribili: la piana formicola di armati che danno la caccia ai gruppi isolati e si accaniscono contro i cadaveri.
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Quando gli italiani giungono finalmente al sicuro nei fortini, gli inseguitori sono fermati dal fuoco incrociato delle mitragliatrici, ma non se ne vanno. Inizia infatti l’assedio: le fonti d’acqua vengono tagliate e così i collegamenti telefonici, mentre il forte è battuto dal tiro dei cecchini e da alcune batterie che gli abissini hanno posizionato sulle alture. Nel campo nessun luogo è al sicuro, neppure l’ospedaletto. E quel che è peggio, le munizioni cominciano a esaurirsi e la sete a tormentare gli assediati, mentre gli etiopi si avvicinano sempre più. Il giorno dopo un aereo sorvola il forte e lascia cadere un messaggio di Badoglio, scritto frettolosamente a mano: “Coraggio, mio Somma, Vaccarisi è vicino. Le tue camicie nere stanno scrivendo una pagina magnifica. Resisti ed avrai la vittoria”. Tutto infatti dipende dalla resistenza del passo. Se quel presidio cade, la valanga dei nemici travolgerà anche i soccorritori.
L’assedio del passo Uarieu durò tre giorni e furono giorni durissimi. In quel momento Badoglio si rese conto di poter anche perdere la guerra e il negus si illuse di poterla vincere. A Addis Abeba, infatti, già cantavano vittoria e venne diramato un bollettino ufficiale, esagerato e fantasioso come erano tutti i comunicati provenienti dalla capitale abissina, nel quale si annunciava l’annientamento della Colonna Diamanti e dell’intera Divisione 28 Ottobre. I legionari, invece, resistettero tenacemente (“Ma la mitragliatrice non la lascio / gridò ferito il legionario al passo... ”diceva una canzone che s’ispirò a quell’eroico episodio e che tutti i balilla italiani dovettero imparare a memoria), anche se l’intero sistema dei fortini era accerchiato. Ai difensori scarseggiavano le munizioni, alla batteria del capitano Borgatti erano rimasti 24 proiettili, i soldati avevano le giberne vuote, mentre i rinforzi tardavano a giungere e quel poco che veniva lanciato dagli aerei con i paracadute spesso veniva spinto dal vento in territorio nemico.
Imbaldanziti dal successo e guidati dai due figli di ras Cassa, gli attaccanti, assaporando la prossima vittoria, non diedero requie agli assediati e li impegnarono in tremendi corpo a corpo che aprivano varchi sanguinosi nei ranghi. In seguito la stampa italiana esalterà gli eroici episodi singoli e collettivi che vi si verificarono e che furono effettivamente numerosi. Come Toselli, come De Cristoforis, come Galliano, i “vecchi” legionari della 28 Ottobre, reduci delle carneficine della Grande guerra e che finora avevano guardato con sprezzo a questo facile conflitto coloniale, scoprirono quanto fosse duro e difficile combattere contro un’orda urlante che avanzava frontalmente incurante del fuoco incrociato delle mitragliatrici.

Dal suo comando sull’Enda Jesus, Badoglio seguiva con apprensione, se non con angoscia, le sorti della battaglia. Se ras Cassa fosse riuscito a superare il passo avrebbe avuto via lìbera per penetrare nel profondo delle retrovie dello schieramento italiano e aggirando Macallè sfondare verso Adua e l’Eritrea. Con il volto impietrito, ma senza manifestare apertamente le sue emozioni, il maresciallo impartì ordini concitati, affinché tutte le forze disponibili fossero inviate al passo Uarieu. Prudentemente, però, prese anche le opportune misure per un eventuale sgombero dello stato maggiore da Enda Jesus, ipotesi che non era affatto da escludere. La notte fra il 23 e il 24 gennaio Badoglio la trascorse seduto su uno sgabello con la mantellina sulle ginocchia e il telefono a portata di mano, ma solo all’alba gli giunse la notizia che attendeva con ansia: la colonna del generale Vaccarisi inviata in soccorso si era congiunta con la guarnigione assediata. Ora il passo era definitivamente sbarrato. Per tutta la giornata del 24 gli abissini furono attaccati da terra e dal cielo. Oltre alle bombe, gli aerei italiani lanciarono sull’armata nemica dei cilindri che all’impatto con il terreno si rompevano e liberavano un liquido incolore che si espandeva nell’aria emanando un odore di mostarda: era l’iprite, il gas che aveva seminato la morte nelle trincee della prima guerra mondiale. L’effetto sulle truppe abissine fu devastante: ras Cassa vide i suoi uomini “lasciare cadere le armi, portare urlando le mani agli occhi, cadere in ginocchio e poi crollare a terra. Era la brina impalpabile del liquido corrosivo che cadeva sulla mia armata”.
La sera del 24 gennaio si concluse la prima battaglia del Tembien. Gli italiani erano riusciti a respingere gli abissini sulle posizioni di partenza occupando Debra Amba e sventando la minaccia che gravava su Macallè. Badoglio aveva avuto così modo di studiare dal vivo la tattica abissina.
Il vantaggio principale su cui poteva contare il comandante italiano era rappresentato, oltre che dall’inefficienza del servizio di informazione etiopico (molti comandi erano addirittura sprovvisti di carte topografiche e si affidavano alle indicazioni di chi conosceva il territorio} anche dalla consuetudine del nemico di attaccare frontalmente in masse concentrate, sulle quali era possibile far pesare, come riferisce lo stesso Badoglio nel suo diario di guerra, “la stragrande superiorità del campo tecnico e l’impiego della nostra aviazione”. Il negus non aveva voluto dare ascolto a quei “consiglieri” europei che lo esortavano a non cadere nella trappola delle grandi battaglie in cui gli italiani avrebbero sicuramente avuto la meglio. Ossia di non adottare gli insegnamenti del conte von Clausewitz, ma di fare tesoro delle esperienze di Lawrence d’Arabia. Occorreva insomma costringere gli italiani a una lunga indeterminata guerriglia. Occorreva farla durare almeno due o tre anni durante i quali le ambizioni, il prestigio e l’economia dell’Italia sì sarebbero ridotti al lumicino. Lawrence d’Arabia, infatti, non aveva perduto tempo e uomini per combattere frontalmente l’esercito turco, ma avvelenava i pozzi, demoliva i ponti, assaltava i convogli e distruggeva le carovane.
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Così avrebbe dovuto agire Hailè Selassiè: limitarsi alle azioni di guerriglia da cui i suoi uomini, più resistenti e più pratici del terreno, avrebbero ricavato enormi vantaggi lasciando che gli italiani venissero ingoiati nell’immensità del territorio. Erano, bisogna riconoscerlo, ottimi consigli, ma il negus era prigioniero della sua volontà di condurre una guerra “moderna”. E anche del sogno di poter ripetere l’impresa di Menelik, di ras Mangascià e di ras Alula i quali, facendo massa contro il nemico, avevano sgominato gli avversari nella battaglia di Adua. C’era inoltre una questione di orgoglio perché gli aristocratici ras abissini consideravano la tattica guerrigliera quasi un’umiliazione. “Un discendente del negus Giovanni” rispose con fierezza ras Sejum a un consigliere europeo “fa la guerra, ma non può fare la guerriglia come un qualsiasi capo brigante.”
Un altro vantaggio, per Badoglio, era rappresentato dalla scarsa obbedienza dimostrata al negus dai suoi più importanti ras. I quali, peraltro, erano divisi fra loro da rivalità, ambizioni, faide e vendette storiche. Ognuno di essi, per uno spirito esasperato di indipendenza, era portato più a discutere che a eseguire gli ordini dell’imperatore, e nel contempo temeva l’amico che aveva alle spalle quasi quanto il nemico che aveva di fronte. Tanto è vero che, durante quella battaglia, ras Cassa invano chiese aiuto a ras Mulughietà, che preferì restare fermo nelle sue posizioni sull’Amba Aradam. Ogni ras, insomma, conduceva la propria guerra nel proprio territorio: Cassa nel Tembien, Immirù nello Scirè, Sejum nel Tigrè e Mulughietà sull’altopiano dell’Amba Aradam, nella regione dell’Endertà.
Vinta la sua prima battaglia, Badoglio poteva finalmente prepararsi a sferrare l’offensiva liberandosi in primo luogo dell’incubo dell’Amba Aradam, il massiccio montuoso posto dalla natura a sbarramento della strada verso il lago Ascianghi e Dessiè. L’Amba Aradam, situata a 2750 metri di altitudine, più che a una montagna fa pensare a un altopiano realizzato dalle mani dell’uomo, con la cima livellata e i fianchi tagliati a tronco. La sommità consiste infatti in una vasta distesa pianeggiante, lunga 8 chilometri e larga 5, coperta di fitte boscaglie. Sul retro della montagna, nelle sue innumerevoli caverne naturali, ora si celavano soldati, animali, cannoni e depositi, ossia l’intero esercito di ras Mufughietà, forte di circa 80.000 uomini.
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Questo capitolo lo dedico ai caduti della 2° Divisione CC.NN. 28 Ottobre, che si batterono fieramente!
Mai ricordati!
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58 pensieri su “La bella Italia XII

  1. Ne ho letto le prime due pagine e pirtoppo mi devo allontanare.§Ci tenevo a dirti quanta bellezza, profusione e profssionalità hai inserito in questo capitolo.
    Bellissimo.
    Un capolavoro …
    Tutti belli, ma questo…
    Grazie grazie

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  2. Ho apprezzato molto un pezzo di quella storia d’Italia che altri raccontano come gli pare.
    E’ conoscere la storia da un italiano bravo.
    E poi la storia ci parla di disfatte e lotte tra elementi che si combattono, ma non si capisce bene il perché.
    Grazie davvero: sei chiarissimo.
    Ciao Ninni un caro saluto..

    Fm Royal Yacht Club of Canberra
    (Sono tutti qua stretti a leggerti and ther’s an big applause)

    Tanti saluti cari da:
    Morris
    Diane
    Alfred
    Susan
    Marcello
    Frida
    Anthony
    Helen
    Mary
    John
    Bob
    Patricia
    Alyssa

    e io

    A big hug
    Kate

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    • Kate

      La storia, maestra di vita, ci insegna come comportarci lungo i dilemmi sociali di un paese (in questo specifico)
      Grazie per il passaggio, rivolgendo un ringraziamento per gli amici del RYCC.
      Grazie di cuore
      Cordialità

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  3. Un tripudio di bellezza e di pulizia stilistica.
    Si legge con attenzione e con gioia.
    Si riporta, entro il suo letto, il fiume della storia composto anche di eroi di cui nessuno parla e che oggi, grazie a te milord, possono essere soddisfatti di avere immolato la propria vita per un ideale.
    Un ideale ce si deve tenere sempre presente: la nostra identità.

    Scusami milord, ma quanno ce vo ce vo

    Ciao e grazie

    Franci

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  4. Questo capitolo, Ninni, è caratterizzato da una resocontazione che è particolareggiata e soddisfacente sul piano storico.
    Certo ti sei “abbondato” alla rievocazione “degli eroi” ma ci sta.
    Ricordare dei reparti in armi che, sul campo di battaglia si comportano con onore rivendicando, così, un posto nella storia italiana, ci sta.
    Rievocando, quindi, i gesti eroici della Divisione Camicie Nere è lodevole sotto il profilo storiografico d’Italia.

    Mi preme, però, ricordare il carattere fanatico di quei reparti che portavano il terrore.
    Questa, però, è un’altra storia.
    Ti ringrazio per quest’opera poderosa paziente e complessa che ci stai mettendo a disposizione.
    Veramente edificante
    Grazie e buona serata

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    • Babi

      la rievocazione degli “Eroi” è un imperativo quando si deve definire un particolare storiografico o un assunto.
      I fatti.
      Sono i fatti che contano in un resoconto che si rivolge ad un pubblico desideroso di conoscere.
      Grazie per aver scritto.
      Cordialità

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  5. Caro Antonmaria

    Questo capitolo, giustamente dedicato ai Caduti della seconda Divisione CCNN 28 Ottobre, rende giustizia e gloria a chi combattè strenuamente per un ideale.
    La Storia è sempre ingenerosa nei confronti dei caduti militi semplici, qui gran parte addirittura volontari, lasciandoli senza nome. Parte di questi, tramite Voi Antonmaria, trovano riscatto. Cosa giusta averli annoverati.
    Questo capitolo è parte di un complesso che davvero sorprende per soddisfazione di notizie, per fluidità di esposizione e agevolezza di comprensione.
    Grazie Antonmaria, qualsiasi cosa scriviate, siete arricchimento interiore.
    Con Stima e Affetto,

    Maria Silvia
    Vostra Sil

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    • Maria Silvia

      1) Leggere un libro di storia non è chiaramente come gustarsi un romanzo sotto l’ombrellone o sfogliare pigramente una novella in treno. Bisogna armarsi di carta e penna (un classico blocco appunti di modeste dimensioni è la scelta giusta) e, soprattutto, dimenticarsi di leggere per raggiungere la fine del libro in poco tempo. Non si sta sfogliando un romanzo e non ci si deve aspettare qualcosa da godere tutto d’un fiato, che stimoli la nostra velocità’ di lettura “per vedere come va a finire”. Del resto, almeno a grandi linee, sappiamo già’ il nome dei vincitori, quello dei vinti e l’esito finale degli argomenti trattati: l’importante allora sarà di studiare nei dettagli ciascuno di essi, per capirne a fondo le cause, gli effetti e le meccaniche, imparandone e scoprendone al contempo nuovi aspetti e dettagli.

      2) Inutile anelare una pagina con meno testo e qualche “bella” illustrazione: non stiamo sfogliando un rotocalco o una rivista e vedere il viso di un generale o un’istantanea del campo di battaglia non può’ certo “alleviare” l’onere di una lettura spesso complessa e certamente impegnativa. Di contro, è utile far riferimento alle immagini solo dopo aver metabolizzato gran parte del volume che stiamo leggendo; solo allora avrà’ senso concretizzare in una vecchia foto in bianco e nero ciò’ che si è raccontato fin qui – solo allora potremmo varcare quella piccola “soglia d’accesso ad un mondo che non esiste più’” con reale cognizione di causa.

      3) Le cartine geografiche, se presenti in un libro, sono spesso poco più’ di un riempitivo o di un mero espediente per interrompere la monotonia delle pagine stampate. A causa delle dimensioni contenute di molti libri, è facile intuire quanto sia inutile costringere in pochi centimetri quadrati una mappa che originariamente copriva intere pareti del quartier generale di un esercito. Suggeriamo, invece, di usare vere e proprie carte geografiche, anche se attuali e non certo d’epoca, per riuscire facilmente a identificare i luoghi e la stessa morfologia del terreno. Ad esempio, le carte Kompass, utilizzate da molti escursionisti e sufficientemente dettagliate e altamente leggibili, sono un ottimo strumento complementare alla lettura.

      Un racconto di storia è una porta aperta sul passato, un viatico per esplorare e conoscere meglio tempi andati che, altrimenti, ci appartengono soltanto dal punto evolutivo sociale e politico.
      E’ come salire ogni volta sulla macchina del tempo: una simile esperienza va goduta fino in fondo in ogni suo aspetto.
      Non mi resta a questo punto che augurare a Voi, mia gentile e attenta signora, una buona e proficua lettura, ringraziandovi per il profondo interesse!

      Grazie per il vostro intervento.
      Vogliate accettare le nostre migliori cordialità per una proficua domenica.

      s.e.
      Antonmaria
      Kren

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      • Giust’ appunto!
        Come ho espresso ripetutamente, questo Vostro ultimo lavoro sorprende anche per l’ impegno di studio e raccolta documentazione all fine di riuscire ad offrirci una lettura di fluida comprensione e coinvolgente. Una lettura a cui ci si affida conoscendo la vostra onestà intellettuale ed i il Vostro spiccato senso di giustizia.
        Grazie per la pregiata risposta.
        Buona domenica

        Maria Silvia
        Vostra Sil
        T.

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  6. Un capitolo belle e dal quale ho imparato tanto.
    Per esempio da dove deriva Ambaradan che ho sempre usato nel descrivere le cose enormi e complicate e soprattutto sensa senso e senza scopo…
    Grazie

    Micaela

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  7. Una descrizione, dei fatti storici, che si perde tra i rivoli di un certo pericolosissimo fascismo.
    Un fascista morto sta bene dove sta.
    Il tuo capitolo è bello, ma non ti sembra di sporgerti un po’ troppo sul fascismo appunto?

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  8. Un capitolo notevole, pieno di professionalità…
    Grazie.
    Noto che, come sempre, la stupidità la fa da padrona. Il fanatismo è quello che leggo da certe persone che, fanaticamente, assumono identità inequivocabilmente fanatiche.
    Buona giornata Ninni

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  9. Un capitolo bello e preciso.
    Mi ci sono specchiata per tutto quello che dice e anzi ho imparato tanto.
    (Specchiata perché mio nonno, che è morto molto anziano, aveva fatto la guerra)
    Ciao e grazie.

    PS: Ma gli stupidi sempre in giro stanno?
    Ciao

    Elena

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  10. Ecco un capitolo che ci descrive, continuandola, l’odissea italiana di acquisizione di ulteriori spazi, per espandersi e diventare più grande.
    Ovviamente come termini di area geografica.
    Allora si chiamava colonialismo ( Una pratica più che lecita e sotto molti aspetti, auspicabile per il bene della propria nazione. A chi stava a cuore, naturalmente)..
    Oggi potrebbe chiamarsi espansione, aggregazione o addirittura concorso tra stati che godono di una più ampia piattaforma economica e sociale (federazione, confederazione, associazione tra stati come negli States)
    Quindi un fatto positivo, ma parliamo del 1935 o pressappoco.
    E allora, amico mio, io valuto questo tuo scrivere e portare a conoscenza secondo quello che hai da dirci e da raccontarci.
    Non si deve, credo, fare caso al fatto che alcuni componenti delle forze armate portassero una camicia di un colore piuttosto che un’altro.
    Essi erano dei soldati comunque.
    Quindi avevano lo stesso dovere di difendere il giuramento (che accomuna tutti gli eserciti del mondo) che li legava, indissolubilmente, alla patria e ai suoi ideali.
    Un lavoro pieno di meriti, il tuo, caro Ninni.
    Un lavoro che mi da quella gioia di leggere, imparare e capire che è la soddisfazione di passare dal Milord.
    Grazie a te oggi sono più soddisfatta.
    Attendo il prossimo capitolo. Non farmi, non farci aspettare troppo.
    Buona giornata

    Theresa Elizabeth Warren
    Washington DC, US

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    • Theresa Elizabeth Warren

      Il problema dello studio e dell’elaborazione della scienza storica, seguendone – in maniera problematica – le evoluzioni metodologiche e la grande diversificazione tematica.
      ll tema ci ha spinto a proporre un nuovo ed ulteriore momento di dibattito intorno agli strumenti della produzione storica,
      Strumenti che grazie a voi lettori diventano armi da conquista.
      la conquista della verità storica.
      Grazie e cordialità

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  11. Ho riletto questo Capitolo che si è insinuato grazie all’esposizione felice.
    Sono stupita dalla forma e soprattutto dai contenuti.
    Divino sul serio, anche se ho sempre un mancamento appena sento parlare di fascismo.
    Grazie a te, comunque, è di facile lettura. Mai avuto dubbi.
    Ciao Nì

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