La bella Italia XIV

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All’alba del 10 febbraio 1936 le truppe italiane iniziarono la marcia dì avvicinamento verso l’Amba Aradam, l’enorme massiccio montagnoso coperto da una fìtta vegetazione tropicale che bloccava la via a sud, ossia la strada per Addis Abeba. Mentre le sette divisioni dei tre corpi d’armata impegnati nell’operazione, superato il fiume Gabat, procedevano all’accerchiamento dell’intera montagna, Badoglio mise in azione l’artiglieria, secondo una tecnica nella quale era considerato maestro. Per due giorni furono sparati sull’amba 23.000 colpi e gli aerei vi scaricarono 4000 quintali di bombe e qualche bidone di gas. Ma la sera dell’11, quando gli alpini della divisione Pusteria si trovavano a pochi chilometri dalla vetta, gli abissini non si erano ancora fatti vivi, fedeli alla tattica imposta loro dal comandante Mulughietà, che era anche ministro della Guerra e uno dei più autorevoli ras dell’impero etiopico. Personaggio leggendario, il vecchio guerriero, che non abbandonava mai il suo caratteristico scudo di pelle di rinoceronte, non cessava di mostrarsi ottimista. All’inizio delle operazioni aveva inviato al negus un messaggio radio (che i nostri marconisti intercettavano regolarmente) per annunciargli di avere “avvolto e circondato gli italiani” mentre, in effetti, era lui a essere avvolto e circondato. D’altro canto, però, la sua armata era ancora intatta, giacché egli aveva risparmiato i propri uomini rifiutando di correre in aiuto a ras Cassa durante la battaglia del Tembien. Gli abissini si fecero finalmente vivi la mattina del 12 abbattendosi come al solito a ondate successive contro gli italiani, che li respinsero facilmente con il fuoco delle mitragliatrici e degli attacchi aerei. Quello stesso giorno, Hailè Selassiè, che seguiva la battaglia a 400 chilometri di distanza dal suo quartier generale di Dessiè, inviò un messaggio telegrafico a ras Cassa con l’ordine di mandare le sue truppe migliori verso l’Amba Aradam in modo da piombare alle spalle dei nostri. Era un’idea eccellente, che certamente avrebbe messo Badoglio in difficoltà, ma quell’ordine non giunse mai. O meglio, ras Cassa dirà in seguito di non averlo mai ricevuto, anche se è più probabile che abbia voluto ricambiare il “favore” di ras Mulughietà. Quanto a ras Immirù, ancora schierato nello Scirè e sprovvisto di radio, continuò a restare fermo sulle sue posizioni ignorando quanto accadeva sul resto del fronte.
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Frattanto la resistenza etiopica sull’Amba Aradam diventava sempre più debole. L’artiglieria e gli attacchi aerei provocarono lo sbandamento dell’armata di Mulughietà. Questi, dopo alcuni sporadici tentativi di fermare gli italiani, la mattina del 15 febbraio, ritenendo impossibile la difesa dell’Amba Aradam, impartì l’ordine della ritirata generale che, come vedremo, si rivelerà molto più sanguinosa della stessa battaglia. Prima del tramonto del sole la battaglia dell’Amba Aradam poteva quindi dirsi conclusa. Era stata una vittoria facile per Badoglio, ma la propaganda provvide oltremodo a ingigantirla. Gli alpini della Pusteria in avanzata verso la vetta non incontrarono ostacoli di sorta, ma solo qualche gruppo urlante di uomini che si affacciavano dalle caverne levando disperati i loro moncherini al cielo. La consegna fu di stare alla larga trattandosi di lebbrosi, ma non è da escludere che quella lebbra meritasse di essere chiamata iprite. Di cadaveri invece ne incontrarono pochi, anche se furono sufficienti per far scrivere al ministro Giuseppe Bottai, che in quella battaglia si meritò una facile medaglia d’argento: “Cadaveri di gente nera. Non commuovono. Questa morte di colore sembra una mascherata”.
La mascherata, per la verità, la organizzarono successivamente i nostri comandi. Agli alpini che avevano raggiunto per primi la cima dell’amba, si ordinò, per ragioni politico – propagandistiche e malgrado le loro risentite proteste, di lasciare alle camicie nere della 23 Marzo l’onore di issarvi il tricolore. E inoltre, racconta Italo Pietra, allora comandante del battaglione alpino Exilles, ai suoi uomini fu impartito l’ordine di costruire sulla nuda vetta fortificazioni, trincee, muraglie a secco e nidi di mitragliatrici, come se dovessero affrontare un combattimento. Ma non si trattava della minaccia di un contrattacco nemico. Scrive ancora Pietra:
Dopo tre giorni di lavoro finalmente scoprimmo l’arcano: un bel mattino arrivò dal fondovalle una lunga fila di muletti col duca di Spoleto in testa e con un codazzo di pezzi grossi e di inviati speciali a caccia di cose viste, con gli attendenti muniti di thermos e dì impermeabili Vatro, che pregustando la gioia di dire io c’ero, o forse anche per prendersi una medaglia, si rivelarono instancabili nel farsi fotografare qua e là sulla terra rossa accanto alle mitragliatrici per le foto-documento.

Nel ripiegamento, Mulughietà andò incontro a un amaro destino. Decimata dalle incursioni della nostra aviazione cui era stato affidato lo sfruttamento del successo, la sua armata si spinse nei territori della Dancalia abitati dagli Azebu Galla, guerrieri crudeli e combattivi che, essendo nemici tradizionali degli antichi dominatori scioani e amhara, il nerbo dell’esercito abissino, si erano volontariamente schierati con gli italiani per consumare le loro vendette. I fuggiaschi sopravvissuti alle incursioni aeree furono inseguiti e massacrati da questi guerrieri che li attendevano al varco. In una di tali imboscate fu ucciso e mutilato (la castrazione rientrava nel loro stile di guerra) fra gli altri il giovane Tadessa, figlio di Mulughietà. Il vecchio ras tornò allora sui suoi passi per vendicare la sua morte, ma venne anche lui ucciso non sì sa se dalla raffica di un aereo italiano o dai colpi degli Azebu Galla. Usciva così di scena l’ultimo dei ras che, agli ordini di Menelik, avevano sconfitto gli italiani a Adua. Questa volta il suo famoso scudo non era servito a salvargli la vita. La sua armata aveva perduto oltre 20.000 uomini, contro i 657 perduti dagli italiani e, almeno come unità organica, non esisteva più.
Ora Badoglio doveva regolare i conti anche con i ras Cassa, Sejum e Immirù che nella prima battaglia del Tembien gli avevano procurato non poche preoccupazioni. Le forze di Cassa e di Sejum erano ancora accampate nel Tembien, quelle di Immirù molto più a destra, a sudovest di Axum. Questa volta Badoglio cambiò tattica passando dal logoramento all’annientamento rapido dell’avversario. Il 3° corpo d’armata del generale Ettore Bastico compì a marce forzate una manovra avvolgente “a fronte rovesciato”, ossia alle spalle delle forze di Cassa e di Sejum, mentre il Corpo eritreo di Pirzio Biroli le attaccava di fronte.
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La seconda battaglia del Tembien ebbe inizio il 27 febbraio in una regione aspra e selvaggia. Dopo avere perduto Abbi Addì, capoluogo della regione, ras Cassa, pur essendo privo di rifornimenti, accettò coraggiosamente la sua sorte e si ingolfò nei territori misteriosi e impervi del Tembien centrale e nel selvaggio bacino del Tacazzè. Gli italiani lo inseguirono: conoscevano i luoghi meglio di lui, grazie ai rilevamenti cartografici aggiornatissimi di cui il ras era privo, e potevano quindi incalzarlo, stringerlo e pensare persino di catturarlo. Per poco non andò così: ras Cassa aveva situato il proprio quartier generale sull’inaccessibile Amba Uork (montagna d’oro), nel cuore roccioso e lunare del Tembien e il suo rifugio pareva imprendibile. Ma nelle prime ore del 27 febbraio si svolse lo spettacolare episodio della “conquista della Montagna d’oro”, che accenderà la fantasia degli stessi abissini. Centotrenta uomini, fra alpini, camicie nere e ascari, armati di moschetto, pugnale e bombe a mano, dopo un’arditissima scalata notturna della montagna, raggiunsero la cima alle sei del mattino cogliendo di sorpresa le sentinelle. Ras Cassa fece appena in tempo a fuggire: i primi cinque alpini che irruppero nella caverna dov’era il suo comando, trovarono ancora acceso il fornellino sul quale stavano preparandogli il carcadè. Ma furono loro a berlo.
L’inseguimento delle bande ormai disfatte di ras Cassa e di ras Sejum venne poi affidato all’aviazione. Così scrisse un giornalista che seguì la ritirata a bordo di un aereo:
Le necessità della fuga non consentivano al nemico di nascondersi a lungo. I gruppi marciavano in pieno disordine lungo l’unica pista e la strettezza dei guadi, i binari delle pareti dei burroni contribuivano a tenerli inevitabilmente uniti e addensati in colonna. Anche da mille metri era facile scorgerli. Poi si piombava. Il velivolo imboccava il corridoio delle anguste valli, ne seguiva lo zig zag. Seminava intanto, sobbalzando agli schianti, il suo carico mortale.

In pratica, la sera del 29 anche la seconda battaglia del Tembien era conclusa. E l’entità della vittoria italiana si riflette nel numero delle vittime: 34 ufficiali, 359 soldati nazionali e 138 ascari contro 8000 abissini. L’armata di ras Cassa era dunque in frantumi, mentre quella di ras Sejum in fuga verso il Semien e l’Avergallè continuava a essere decimata dall’aviazione. Anche per queste due armate, come era accaduto a quella di Mulughietà, le perdite maggiori furono registrate durante le ritirate, perché le unità abissine, una volta battute, si disgregavano: i soldati pensavano solo a tornare a casa e si sbandavano in gruppi tribali facilmente individuabili.
Mentre era in corso la seconda battaglia del Tembien, il 29 febbraio altre truppe raggiunsero senza incontrare ostacoli la vetta dell’Amba Alagi, luogo sacro per la memoria storica italiana che ricordava il sacrificio di Pietro Toselli consumatosi il 7 dicembre 1895. In quell’occasione fu celebrata una commovente cerimonia, officiata da don Giovanni Garaventa, cappellano e centurione della brigata Montagna, con l’alzabandiera di un tricolore offerto dal podestà di Vittorio Veneto.
A questo punto, liquidati ras Cassa e ras Sejum, rimaneva ancora l’ultima armata del Nord comandata da ras Immirù, forse l’unico fra i capi etiopici a possedere notevoli capacità militari e una visione moderna della guerra. In dicembre, nel corso della controffensiva etiopica, Immirù aveva riconquistato quasi tutto lo Scirè giungendo a pochi chilometri da Axum, dove si era fortificato con il grosso delle sue truppe. Poi aveva continuato a logorare gli italiani con rapidi attacchi e colpi di mano.
La battaglia dello Scirè, come sarà poi chiamata, ebbe inizio alla fine di febbraio e fu, ovviamente, coronata dal successo, anche se si verificarono seri contrattempi che Badoglio non aveva lamentato nelle due battaglie precedenti. Assestata su imprendibili posizioni di montagna, l’armata di Immirù, forte di 30.000 uomini, costituiva una seria minaccia per Axum e per la conca di Adua. Per stanarla, il maresciallo dovette impiegare due corpi d’armata, il 2° comandato dal generale Pietro Maravigna, che avanzava da Axum, e il 4° del generale Babbini proveniente dal Mareb, oltre a folti reparti di ascari e di spahis libici: circa 40.000 uomini che sì mossero a tenaglia fra Selaclacà e l’Enda Selassiè.
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Ma Immirù era pronto a riceverli; godeva infatti di un discreto servizio di informazione, grazie soprattutto all’at-tivissimo clero copto di Axum. Una colonna della Gavinana fu presa tra due fuochi e subì gravi perdite: lo scontro durò dodici ore, e gli etiopi tentarono invano di impadronirsi dei cannoni. Vennero respinti, e tuttavia il generale Maravigna si vide costretto a chiedere a Badoglio di poter rimandare di un giorno l’avanzata. La quale, invece, riprese dopo due giorni e proseguì con grandi difficoltà, tanto che le nostre perdite superarono la media abituale di quelle battaglie: oltre mille nazionali tra morti e feriti.
In seguito Immirù, su ordini del negus, peraltro condivisi dallo stesso ras, cercò di sfuggire alla morsa degli italiani ripiegando sul Tacazzè e muovendosi di notte per evitare gli attacchi aerei. Il 3 marzo, giorno in cui avrebbe dovuto chiudersi attorno alte forze etiopiche la tenaglia ideata da Badoglio, il grosso della sua armata sfuggì alla trappola. Ma la loro sorte era ormai segnata. Aggredite dalle bande di sciftà, i briganti che, spesso con l’incoraggiamento italiano, attaccavano gli abissini in ritirata, le truppe di Immirù vennero sorprese dall’aeronautica mentre cercavano di attraversare in massa i guadi del Tacazzè. Fu una strage. Si contarono più di 7000 morti. Il ras, sconfitto ma non domo, si rifugiò nelle montagne con un migliaio di uomini rimasti a lui fedeli.
Crollava così l’intero fronte settentrionale e davanti a Badoglio si aprivano le porte dell’Etiopia. Incalzato come al solito da Mussolini che lo tempestava di telegrammi ultimativi, come il seguente: “Fate presto. La situazione internazionale ci impone di chiudere la partita”, il maresciallo diede a questo punto il via alla grande corsa verso sud. Con una marcia che rimarrà leggendaria, le colonne celeri italiane fecero avanzare in pochi giorni di 600 chilometri l’intero arco del fronte. Una colonna attraversò il deserto della Dancalia e occupò Sardò, il capoluogo dell’Aussa. Un’altra, guidata da Achille Starace, che diede prova di quel coraggio che non gli è mai stato negato, conquistò Gondar, ricca di castelli costruiti dai portoghesi e antica capitale degli imperatori abissini. Altre colonne si mossero a raggiera occupando Debarec, Socotà, Bogara, Abd el Rafi, quasi sempre senza incontrare ostacoli, ma dando prova di una incredibile resistenza contro le terribili difficoltà naturali che ostacolavano il percorso. I più veloci erano i reparti eritrei.

Questi ascari coraggiosi e fedeli si erano rivelati fin dall’inizio della campagna degli ottimi combattenti. Degli abissini avevano la velocità nelle marce e l’irruenza nell’azione offensiva, a cui si aggiungeva la tenacia e la saldezza nell’azione difensiva. Se l’ufficiale bianco non li abbandonava, mantenevano la compattezza anche nei momenti più difficili. Erano orgogliosi della loro uniforme e della loro disciplina. Agili e scattanti, lucidavano con amore le loro armi e si facevano belli in ogni occasione; nessuno appariva mai scamiciato né a capo scoperto e, nella loro giubba cachi sotto il fez di panno e l’alta fascia colorata stretta alla vita, erano sempre ordinati ed eleganti come per una rivista. II battaglione più famoso e combattivo era il battaglione Toselli che portava la fascia nera in segno di lutto per l’eroe caduto. Camminavano di solito “in cresta” alle alture fiancheggiando per sicurezza il grosso delle colonne e tenendo il fucile sulla spalla, la canna in avanti e attaccato al calcio il fagottino con il carcadè, il sale, lo zucchero e una manciata di farina per la borgutta, una specie di focaccia. Quando sostavano nei poveri villaggi incontrati lungo la marcia, le donne li accoglievano con grida festose e invitanti atteggiamenti, consapevoli delle brame che quei soldati, marito o no presente, avrebbero sfogato entro poche ore su di loro.
Lungo le piste dell’immenso altopiano etiopico, i legionari incontravano le bande degli “alleati” Azebu Galla, pittoreschi e crudeli guerrieri armati dì lancia e di scimitarre (ma anche dell’inseparabile coltellaccio a lama curva che Paolo Monelli, amatore di parole nuove, aveva significativamente battezzato “castrino”).
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Essi mostravano orgogliosi i trofei di guerra strappati ai loro odiati nemici scioani: armi, scudi, ornamenti, selle di cuoio, sacchi di viveri preziosi, come orzo, sale, zucchero e carne secca. Ma anche orecchie e testicoli inanellati che esercitavano un forte richiamo sulle loro donne. Dagli Azebu Galla gli italiani furono informati che un’altra armata abissina stava marciando verso nord: un loro villaggio era stato incendiato dai soldati del negus che avevano marchiato a fuoco tutti gli abitanti con la lettera “M” per vendicare la morte di ras Mulughietà, a loro attribuita.
In effetti il negus stava marciando verso il fronte. Aveva raccolto attorno a sé ciò che restava del suo esercito, il cui nucleo principale era rappresentato dalla guardia imperiale, ottimi soldati ben addestrati dagli istruttori europei, con belle uniformi gialle e dotati di armi moderne. La sera, davanti alla sua tenda, i guerrieri cantavano attorno ai fuochi le loro canzoni di guerra, poi andavano ginocchioni a baciare i suoi piedi e le sue mani. Al seguito dell’imperatore viaggiavano numerosi giornalisti europei e americani con i quali egli si comportava come un educatissimo gentleman anche se forse, in cuor suo, avrebbe desiderato di mostrare il suo disprezzo contro tutti i frengi che lo stavano cinicamente abbandonando al suo destino. In una sola occasione, racconta Leonard Mosley, dimenticò di conformarsi alla falsa immagine del monarca costituzionale che offriva agli europei. In quei giorni un tribunale di guerra condannò alla fucilazione alcuni soldati e tre alti ufficiali colpevoli di codardia davanti al nemico, ma il negus, giunto sul posto, commutò le sentenze di morte. “Vuol farci vedere” pensarono i giornalisti “che è civile e umano.” Essi dovettero tuttavia ricredersi quando scoprirono che la sentenza era stata commutata in una condanna alla fustigazione: cinquanta colpi di curbasc alla schiena per i soldati e cinquanta colpi sul ventre per gli ufficiali. La terribile punizione venne eseguita davanti al sovrano e si può immaginare con quale risultato, se già gli stessi abissini consideravano mortali venticinque colpi di quello staffile di pelle di ippopotamo. Il negus assistette alla punizione esemplare senza fare una piega: restituì sorridendo il saluto dell’ufficiale fustigatore e si allontanò senza degnare di uno sguardo i sanguinolenti fustigati.
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Gli alpini della divisione Pusteria furono i primi a superare il passo Dubar sull’altopiano etiopico e a scendere nella conca di Mai Ceu. Trovarono il villaggio semideserto e disseminato di cadaveri nereggianti di corvi. La valle, tuttavia, era bellissima: aveva l’aspetto di un paesaggio svizzero, per via del verde intenso e dei fiori sbocciati grazie alla stagione delle “piccole piogge” appena cominciata. Nei giorni seguenti arrivarono i reparti del generale Ruggero Santini e i battaglioni eritrei di Pirzio Biroli. Tutti andarono a prendere posizione sulla collina, fra il passo Mecan orientale e il passo Mecan occidentale, che dominava la rigogliosa pianura e si misero al lavoro. Bisognava disboscare tutto intorno alle postazioni per allargare il campo di tiro, scavare trincee, sistemare le batterie, innalzare muri a secco e allestire piccole ridotte per ripararsi dalle pallottole. Verso la fine di marzo, ai limiti dell’immenso piano si accesero molti fuochi: erano i bivacchi delle avanguardie abissine che furono ben presto presi di mira dalla nostra aeronautica. Ma i fuochi continuarono ugualmente ad aumentare di numero: principiavano al calare della notte, dopo che gli aerei si erano allontanati e si spegnevano all’alba prima che questi tornassero. Italo Pietra, destinato a diventare un grande giornalista, ma che allora era soltanto un giovane tenente degli alpini, ricorda che una sera, mentre osservavano le mille luci dei bivacchi abissini, il suo colonnello, Emilio Battisti, commentò pensieroso: “Siamo pressappoco nelle condizioni di Toselli quando dall’Amba Alagi scriveva alla madre: “Vedo tanti lumi. I lumi aumentano…”. Speriamo che a noi vada meglio”.
Anche il maresciallo Badoglio, che aveva seguito le sue truppe sulle alture attorno a Mai Ceu, era pensieroso e tormentato dai dubbi. Che cosa farà il negus? Poi confidò a uno dei suoi più stretti collaboratori: “Se quello, anziché accettare battaglia, mi fa un balzo indietro di cento chilometri, io sono fritto”. Ma, a ogni buon conto, era soddisfatto. Aveva accontentato Mussolini lanciandosi in una lunga e rapida avanzata. Per giunta, aveva issato il tricolore sull’Amba Alagi proprio nei giorni in cui ricorreva il 40° anniversario della battaglia di Adua. Ora non gli restava che vibrare il colpo finale.
Sul fronte della Somalia, Rodolfo Graziani si era dovuto adattare, come già sappiamo, a un ruolo secondario. Oltre che della Peloritana, ora disponeva anche di una agguerrita divisione libica comandata dal generale Guglielmo Nasi, i cui componenti, tutti di osservanza islamica, erano stati cinicamente incoraggiati a sfruttare l’opportunità di sfogare il loro odio religioso contro gli “infedeli”. Dopo la conquista di Neghelli e la disfatta dell’armata di ras Desta, altri 30.000 abissini erano comparsi sulla scena al comando del generale turco Wehib Pascià, nemico storico degli italiani. Questi, oltre ad avere ricevuto dal negus “carta bianca”, ossia l’autorizzazione di dirigere le operazioni anche senza, o contro, il parere del ras, era un buon stratega e un ottimo psicologo. Contando sulla nota irruenza di Graziani e, soprattutto, sulla sua risaputa rivalità con Badoglio, Wehib sperava di attirare il comandante italiano il più possibile nell’interno (le operazioni si svolgevano su distanze enormi e in pieno deserto) offrendogli di tanto in tanto delle piccole “vittorie di Pirro” onde allontanarlo dalle basi di partenza per poi infliggergli un colpo mortale.

Graziani che, malgrado gli ordini ricevuti, sognava in cuor suo di arrivare a Addis Abeba prima del suo rivale, cadde, o forse finse di cadere, nella trappola: si allontanò infatti per oltre 1300 chilometri dalla base italiana di Belet Uen, ma nel contempo le truppe libiche di Nasi, la colonna mobile del generale Vernè e i dubat del generale Navarra inflissero agli abissini tali e tante perdite da impedire al generale turco di portare a compimento il suo progetto. Anzi, la stessa sopravvivenza della sua armata fu messa a repentaglio e salvata solo dal sopraggiungere della stagione delle piogge. Le tempeste e gli uadi in piena, i fiumi di fango, costrinsero infatti Graziani a rallentare l’avanzata verso l’obiettivo sognato: la capitale etiopica.
Anche il negus, nel suo quartiere generale di Dessiè, sembrava accarezzare un piano simile a quello di Wehib Pascià o, quanto meno, questo era ciò che Badoglio più fortemente temeva. Hailè Selassiè avrebbe infatti potuto tentare una Waterloo abissina attirando le forze vittoriose italiane verso sud, a Dessiè e oltre, costringendole poi ad affrontare la battaglia lontano dalle basi di partenza. Angosciato da questo incubo, Badoglio dispose servizi speciali di sorveglianza sulla “strada dell’imperatore” per controllare i movimenti delle nuove truppe regolari abissine che da Dessiè stavano affluendo verso Mai Ceu. Si stava rapidamente avvicinando l’ora decisiva.
Il 7 marzo 1936, mentre Badoglio si preparava ad affrontare l’ultima battaglia, nel panorama internazionale la crisi etiopica passò in secondo piano per un nuovo colpo di mano della Germania. Cogliendo tutti di sorpresa, Hitler ordinò alla Wehrmacht di superare il confine “proibito” della Renania, la regione tedesca confinante con la Francia, alla quale per motivi di sicurezza i vincitori della Grande guerra avevano imposto la “smilitarizzazione”. Fu l’ennesima violazione delle dure condizioni imposte a quel paese dal trattato di Versailles, e per l’Europa un nuovo segnale d’allarme. Le proteste naturalmente non mancarono, soprattutto da parte della Francia che era la più interessata a mantenere lo status quo ai propri confini, ma la Società delle Nazioni, ormai in stato confusionale, si limitò a emettere la solita condanna formale e senza conseguenze.
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Vi furono tuttavia preoccupati scambi d’opinione tra i governi aderenti al patto di Stresa, e Mussolini ne approfittò per ammonire ancora una volta Francia e Inghilterra: se avessero continuato nella loro politica punitiva, l’Italia, “paese sanzionato”, non si sarebbe più sentita legata agli accordi di Stresa che miravano a contenere la rinascita del militarismo germanico. In Francia, nel frattempo, il governo Laval era caduto e gli era succeduto il governo di Albert Sarraut (con Pierre Flandin al ministero degli Esteri) che però mantenne nei confronti dell’Italia una politica amichevole. Dura e intransigente restò invece l’Inghilterra a causa della politica contraddittoria (e persino criticata all’interno del Foreign Office) del sempre più influente Anthony Eden il quale, se da un lato reclamava il ritomo al “fronte di Stresa”, dall’altro faceva di tutto per irritare Mussolini. Proprio in quei giorni, il capo del Foreign Office – che non mosse un dito contro l’atto di forza compiuto da Hitler in Renania – aveva infatti ribadito a Ginevra la sua volontà di estendere anche al petrolio le sanzioni contro l’Italia. Il “doppiopesismo” britannico non poteva non allarmare il Duce che, dopo l’annuncio a sorpresa del patto navale anglo-tedesco, temeva quanto la Francia l’eventualità di un’alleanza fra Londra e Berlino, peraltro già ipotizzata da Hitler nel suo Mein Kampf.
A questo punto è forse necessario ristabilire una verità storica, spesso nascosta, che sarà utile per chiarire le future decisioni mussoliniane. Secondo molti storici, a quell’epoca Mussolini era già d’accordo con Hitler e deciso ad allearsi con la Germania nazista per costituire l’Asse Roma-Berlino, ma si tratta di un’ipotesi totalmente infondata. In realtà. Mussolini era ancora un convinto sostenitore del patto di Stresa, considerava una jattura l’eventualità di essere “costretto” a gettarsi nelle braccia del Führer e ignorava i progetti espansionistici cui mirava il dittatore nazista. Anche lui, infatti, venne colto di sorpresa dal colpo di mano in Renania e se protestò blandamente fu solo perché, in quel momento, pensava innanzitutto a risolvere i suoi problemi immediati che non alle lontane prospettive dell’iniziativa tedesca. Il “diversivo” della Renania giocava infatti a suo vantaggio in quanto gli consentiva di stornare l’attenzione internazionale dalla sua guerra nella lontana Abissinia e di ricordare a tutti quale fra le due dittature – quella nazista – fosse la più pericolosa.

D’altra parte, benché avesse ordinato alla sua diplomazia di mostrarsi più duttile nei confronti della Germania per intimorire Francia e Inghilterra, le effettive relazioni italo-germaniche erano ancora improntate da reciproca e profonda sfiducia. Mussolini sapeva che Hitler mirava a mettere l’Italia in difficoltà per avere mano libera in Austria. In seguito, come risulta da documenti riemersi recentemente, fu anche informato che il Fuhrer, con il proposito di indebolire l’Italia, già nel gennaio del 1935 aveva inviato in missione segreta a Addis Abeba il console Hans Steffen con l’incarico di convincere il negus ad attaccare di sorpresa l’Eritrea e la Somalia prima che gli italiani si muovessero. Successivamente, lo abbiamo già ricordato, Hitler concesse all’imperatore di Etiopia anche un credito a fondo perduto di 3 milioni di marchi per l’acquisto di materiale bellico germanico, trasportato in Abissinia dalle navi inglesi dopo che le acciaierie Borsig di Berlino ebbero provveduto a cancellare i marchi di fabbrica “per evitare indiscrezioni”. Risulta ancora che, in quel frangente, il Duce, intimorito, fece sapere all’ambasciatore tedesco von Hassel che se la Germania avesse interrotto l’invio di armi al negus, l’Italia avrebbe tollerato una nuova iniziativa in Austria. Ma poi cambiò idea dopo le clamorose vittorie di Badoglio nel Tembien e nell’Endertà così che i rapporti Roma-Berlino tornarono a essere molto tesi.
Mentre pendeva ancora sull’Italia la minaccia dell’inasprimento delle sanzioni, reclamato ostinatamente da Eden, Mussolini mise le carte in tavola con l’ambasciatore francese de Chambrun e con altri esponenti politici del governo di Parigi. A de Chambrun dichiarò: “Io sono sempre, e voi potete ben farlo sapere al signor Flandin, nella linea di Stresa. Posso assicurarvi che non vi è a tutt’oggi nella sfera politica assolutamente niente fra Hitler e me. Il mio modo di vedere sulla Germania rimane esattamente quello che era l’anno passato in aprile”. Soggiunse poi passandosi significativamente la mano sulla caratteristica calvizie: “Non intendo diventare alleato di Hitler neppure se mi ci tirano per i capelli. Ma dovete convenire che qualsiasi aggravamento delle sanzioni rigetterà necessariamente l’Italia in un isolamento dal quale il suo governo avrà il dovere imperioso di farla uscire. Spetta dunque alla Francia e all’Inghilterra di non respingerci”.
Ancora più franco, ricorda Renzo De Felice, il Duce lo fu con Louis-Jean Malvy, un ministro radicalsocialista francese che andò a fargli visita e che poi trascrisse la loro conversazione. Mussolini disse a Malvy:
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La situazione attuale mi obbliga a cercare altrove le sicurezze che ho perduto dal lato della Francia e dal lato dell’Inghilterra, al fine di ristabilire a mio vantaggio l’equilibrio infranto. E a chi indirizzarmi se non a Hitler? Io vi devo anche dire che ho già avuto da lui delle ouvertures… Fin qui mi sono riservato. Perché io valuto perfettamente ciò che succederà se io mi intendo con Hitler. Innanzi tutto sarà l’Anschluss a breve scadenza. Poi, dopo l’Anschluss, sarà la Cecoslovacchia, la Polonia, le colonie tedesche eccetera… Per dir tutto, sarà la guerra, inevitabilmente. È per questo che io ho esitato ed esito ancora a impegnarmi su questa via. Vi ho fatto pregare di venirmi a trovare perché voi possiate informare il vostro governo della situazione che vi ho esposto. Io attenderò qualche tempo ancora. Ma se prossimamente l’atteggiamento del governo francese e di quello inglese a mio riguardo, a riguardo del regime fascista e dell’Italia non si modifica e non mi darà le assicurazioni di cui ho bisogno, allora accetterò le proposte di Hitler. L’Italia diventerà alleata della Germania“.
Una profezia che si avvererà.
La Francia, angosciata dall’eventualità di un riavvicinamento italo-tedesco, non restò sorda alle argomentazioni del dittatore italiano. E furono appunto le pressioni del governo francese esercitate a Ginevra contro la proposta britannica di aggravamento delle sanzioni a far rinviare ogni decisione con il proposito dì compiere un ulteriore sforzo di conciliazione fra le due parti in conflitto. Mussolini, d’altra parte, pur facendo la voce grossa, era ancora disposto ad accettare una soluzione negoziata per “salvare la faccia” della Società delle Nazioni e per rientrare onorevolmente nell’organizzazione ginevrina. Infatti, ai primi di aprile elaborò un nuovo piano, secondo il quale quattro quinti del territorio abissino sarebbero passati in forma diretta o di protettorato sotto il dominio italiano lasciando il nucleo centrale, schiettamente scioano, al governo di Addis Abeba. Questo progetto fu fatto conoscere segretamente a Parigi e a Londra, ma naufragò per la netta opposizione di Eden, il quale aveva ormai assunto una posizione egemone nel governo britannico. Di fronte a questa aperta manifestazione di testarda ostilità, al Duce non restava che “tirare diritto”. E così fece. Lasciamo perciò ai lettori fantasiosi, che amano trastullarsi con i “se” e con i “ma”, la libertà di immaginare come sarebbero andate le cose in Italia e nel mondo “se” il ministro Hoare non si fosse rotto il naso sciando e “se” quel “cretino vestito così bene” non fosse inciampato in quel maledetto tappeto della Sala del Mappamondo.

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21 pensieri su “La bella Italia XIV

  1. Caro Antonmaria

    Di capitolo in capitolo, quest’ opera è scoperta di vicende e significati che, sicuramente, tanti non conoscevano, anche per il tabù imposto alla storia dell’ epoca fascista.
    E ci si affida alla lettura con la fiducia che, Antonmaria, la Vostra onestà intellettuale e il Vostro talento scrittorio ispirano.
    Con la riservatezza che sapete mi caratterizza, Vi ringrazio e Vi esprimo la mia Stima ed il mio profondo Affetto.

    Maria Silvia
    Vostra Sil

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    • Maria Silvia

      A fronte di un’abbondante produzione storiografica relativa allo studio del fascismo nel contesto italiano, l’analisi della sua dimensione esterna – la politica estera e l’impero coloniale – rimane un ambito assai poco trattato fino alla metà degli anni Ottanta, quando gli studi di Angelo Del Boca ci consegnano una ricostruzione complessiva della vicenda degli italiani in Africa.

      Fino a quella data è stata a lungo lasciata in ombra quella che fu, nei sogni e nella realtà, una delle dimensioni essenziali del fascismo, l’espansione territoriale.
      Nei sogni, perché sono molteplici i progetti, dal contenuto vago, sulla “missione storica” della costruzione di un impero che riallacciasse a Roma i territori dell’Africa del nord e orientale, nonché quelli mediterranei della stessa Europa.
      Nella realtà, perché il regime fascista non riesce a realizzare i suoi obiettivi e la discrepanza fra progetti e realizzazioni, mostra con evidenza le difficoltà contratte nei rapporti con la Germania nazista nel tentativo, senza successo, di difendere i propri interessi e cogliere i propri obiettivi.

      Vi ringraziammo per quanto scriveste.
      Abbiate le nostre più sincere cordialità

      Antonmaria
      Kren

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  2. Una bellezza e una forza non comuni.
    Ho imparato tanto, caro Ninni e quel tanto, adesso che leggo, è sempre tanto poco. Ho notato, sai, il modo con cui descrivi e scrivi di questi fatti che mi interessano.
    Un interesse che è maturato poco per volta e si è+ sviluppato, malgrado il mio antifascismo conclamato, grazie ai tuoi scritti.

    Un interesse che mi illumina e soprattutto mi insegna.
    Grazie

    Annelise

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    • Annelise Baum

      In Europa, nel corso dell’Ottocento i commerci derivanti dall’espansione imperiale portano nei paesi occidentali merci esotiche e profitti eccezionali, mentre l’economia monetaria e la “civiltà” occidentale sono introdotte con forza nelle società extraeuropee.

      Vi ringraziammo per l’intervento con cordialità

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  3. La politica di riarmo attuata dal regime nazista aveva allarmato gli alleati. La Francia cercò a questo punto di avvicinarsi e di intendersi con Mussolini, la cui ambizione era in questo momento di fungere da mediatore fra gli alleati e la Germania.

    Grazie milord per queste belle, bellissime, pagine.
    Soltanto le persone intelligenti a questo punto possono apprezzare.
    Buona serata milord

    Anna

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    • Anna Blu

      Negli ultimi tre decenni dell’’800 l’Asia e in particolare l’Africa sono esplorate, conosciute e spartite fra le maggiori potenze europee che istituiscono perfino eserciti specificatamente coloniali per il controllo e il governo dei propri domini d’oltremare.

      Vi ringraziammo per l’intervento.
      Codialità

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  4. Ottimo Milord.
    Avete descritto tutto con quella bravura che Vi contraddistingue.
    Grazie per quello che ci donate e per l’attenzione nei particolari che profondete.
    Leggo, poi, l’affezione dei vostri lettori che è diventata proverbiale.
    Grazie per davvero

    Franci

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    • Franci Mira

      L’Italia, a pochi anni dall’unificazione, partecipa alla “zuffa” per l’Africa – scramble for Africa scrive il quotidiano “The Times” nel 1884 – rappresentando un’eccezione a confronto con gli altri paesi dal passato coloniale, per essere giunta all’inizio dell’età dell’imperialismo senza alcun possedimento oltremare.

      Vi ringraziammo per aver scritto
      Cordialità

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  5. molto bello e soprattutto, molto completa come narrazione di quei fatti che costituiscono il nerbo della storia patria.
    Grazie caro Ninni.
    Una fatica non da poco.
    Una fatica che è veramente lodevole.
    Grazie proprio

    G.

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    • Grande Flagello

      A confronto con la durata plurisecolare e l’estensione su più continenti degli imperi coloniali delle potenze europee – Spagna, Portogallo, Inghilterra, Francia – l’Italia unificata è interessata alla pagina dell’espansione coloniale solo per circa sessant’anni, durante i quali il sogno di un “oltremare” e la conquista di un “impero” africano si realizzano in possedimenti mantenuti per un periodo assai breve: dal 1882 in Eritrea, dal 1889 in Somalia, dal 1911 in Libia e dal 1935 in Etiopia, ma ovunque mai oltre il 1943.

      Solo la Germania mantiene possedimenti coloniali per un periodo più breve, dal 1884 al 1918.

      Vi ringraziammo per la generosità delle vostre parole.
      Grazie e cordialità

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  6. Ineccepibile sotto tutti i punti di vista.
    Anche i più ostici.
    Allargare, così,la visione di ciò che è passato, in quella di ciò che è accaduto non è facile.
    Ciao e buona domenica.

    Vale

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    • Valerio B.

      Il ventennio coloniale italiano riesce a convogliare entusiasmi patriottici di molti italiani e italiane, sogni di fortune e passioni che si scontreranno con una realtà assai meno trascinante: l’oltremare italiano, uno dei più circoscritti geograficamente e dei più poveri economicamente, frutterà vantaggi poco generalizzati e meno duraturi di quanto la propaganda andava asserendo.
      Molti italiani subiscono il fascino dell’ignoto e dei viaggi di esplorazione, riferito all’Oriente misterioso e all’Africa sconosciuta, altri puntano al dominio, al prestigio internazionale, ai profitti e agli affari.

      Questi diversi atteggiamenti convergono in un acceso nazionalismo che spinge alla conquista delle basi commerciali sulla costa, da armare e difendere per avanzare nei territori interni, nella speranza di trovare ricchezze naturali e commerciali.

      Grazie per esserci.
      Cordialità

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  7. Cos’é la storia (o almeno come andarono e si percepirno quelle cose che, comunque, hanno cambiato il nostro modo di vivere)?
    Non sempre le verità di cui si parla collimano con quanto realmente accadde.
    Tu, caro Ninni, ci offri, nel tuo resononto quell’atto di liberazine, che è il fatto, correlato al fatto compiuto.
    Molto bello.
    Buona domenica

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    • Melissa T.

      La propaganda, e in buona parte anche la “storiografia coloniale”, hanno sempre sottaciuto il radicale divario esistente fra l’imperialismo italiano e quello delle altre potenze – evidente a chiunque mettesse mano ad una carta geografica e ai dati statistici internazionali – come se rilevarlo significasse commettere reato di lesa maestà.
      È per questo motivo che l’origine della tesi storiografica dell’imperialismo italiano, un po’ debole, ma non per questo meno aggressivo degli altri, è ravvisabile nelle posizioni radicalmente critiche dell’antifascismo clandestino degli anni Trenta, sebbene già espresse da parte socialista e democratica alla fine dell’800.

      Grazie per esserci e cordialità

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  8. mi ha avvinta proprio.
    Altro non potrei scrivere: non saprei commentare quello che non è commentabile.
    Grazie Ninni
    (Credo che si fosse bloccato il blog perché è la terza volta che provo a scrivere)
    Wordpress in aggiornamento?
    Mah…Ciao e buona domenica

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    • Lilly Simoncelli

      La conquista dell’impero, come spazio vitale, essenziale a un progetto di trasformazione della società, rappresenta un elemento peculiare del fascismo, espresso fin dal 1922 a fondare una “nuova civiltà”, quella fascista, e nell’accelerazione impressa, da Mussolini a questo processo, con la conquista dell’Etiopia.

      Grazie e cordialità.

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  9. Intendiamo, con i nostri passaggi, annoverare la ricerca storica qule elemento per vivere meglio?
    Certamente.
    Capire per capirsi e comprendere la nostra evoluzione.
    Un capitolo bello sul serio.
    Pieno di suspance e di interesse.
    Grazie davvero.
    Ciao e buona giornata

    Maria Luisa

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    • Maria Luisa Ranieri

      La guerra coloniale in Africa è rappresentata dal fascismo come il livello più alto del mito di rigenerazione nazionale, il motore primo per il rinnovamento degli italiani, il nuovo contesto per l’elaborazione degli schemi d’ingegneria sociale, nei quali un nuovo tipo di umanità, idoneo alla conquista e al dominio, avrebbe condotto l’Italia a una posizione di supremazia nel contesto europeo.

      Mussolini, in una delle cicliche svolte epocali in cui agli italiani era offerta l’occasione di provare la propria virtù dopo secoli di decadenza e di creare una nuova civiltà, decide di affrontare la sfida per portare a compimento la nascita dell’uomo nuovo, dominatore e conquistatore, plasmando il carattere degli italiani con la fede nella religione fascista e la sottomissione alla guida del duce.

      Grazie e cordialità

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  10. Un capitolo interessantissimo che riempie la coscienza di chi vuole imparare.
    Grazie Ninni.
    Un passaggio che apre a nuove conoscenze.
    Grazie davvero…

    Babi
    (Oggi a casa a leggerti. Buon pomeriggio)

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