La bella Italia XV

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Sotto la sua tenda da campo allestita sulle alture del Mecan sovrastanti la grande pianura di Mai Ceu, Pietro Badoglio fumava pensieroso l’ennesima sigaretta  “Serraglio” allontanando i fastidiosi insetti con il suo inseparabile scacciamosche di crine bianco. Di fronte a lui, al limite della valle, si stavano ammassando gli abissini: una decina di migliaia di soldati raccogliticci ai quali si sommavano i sei battaglioni della kebur-zabagnà, la guardia imperiale, che con i suoi 20.000 uomini bene armati e bene addestrati costituiva l’unica unità ancora intatta a disposizione del negus. Si trattava di un contingente inquadrato e attrezzato modernamente con mitragliatrici e cannoni a tiro rapido capaci di sviluppare una notevole potenza di fuoco. Per contrastarlo Badoglio disponeva del 1° corpo d’armata del generale Santini e del corpo d’armata indigeno di Pirzio Biroli, vale a dire circa 40.000 uomini avvantaggiati dall’appoggio dell’arma aerea e dalla solita schiacciante superiorità tecnica. Ma il maresciallo era ugualmente tormentato dai dubbi. Se il negus avesse adottato la tattica suggerita da Wehib Pascià in Somalia e costretto gli italiani a inseguirlo nell’interno, oltre Dessiè, la sua armata si sarebbe trovata in gravi difficoltà. Le linee di comunicazione erano già enormemente dilatate; allungandole di altri 400 o 500 chilometri in territori inospitali, la situazione sarebbe vieppiù peggiorata. Ma poteva anche accadere di peggio: se il negus avesse rinunciato allo scontro frontale per trasformare la sua armata in un esercito di bande guerrigliere, gli si sarebbe aperta subito la strada per Addis Abeba; il percorrerla, però, avrebbe comportato il rischio di cadere in una trappola mortale.
Nel campo abissino, gli inascoltati consiglieri europei ormai non nascondevano più il loro pessimismo, ma il negus non intendeva darsi per vinto. Fedele alla tradizione, aveva voluto assumere personalmente il comando dell’esercito e, benché fosse rimasto praticamente solo (dei suoi “grandi” ras, Mulughietà, Sejum, Cassa e Immirù, soltanto Cassa si era potuto riunire a lui), decise di affrontare il nemico sul campo dando prova di una forza d’animo e di una sicurezza che non mancarono di rinfrancare le sue truppe più fedeli, le quali ora anelavano a combattere contro l’odiato invasore. D’altro canto, il negus contava ancora ingenuamente sull’intervento della Società delle Nazioni e forse sperava che una piccola, anche se limitata, vittoria avrebbe potuto giocare a suo favore sui tavoli di Ginevra.
Dal suo quartier generale, Hailè Selassiè era in continuo contatto telegrafico con la moglie Menen, che da Addis Abeba seguiva con ansia gli sviluppi della situazione e che lui aggiornava spesso con dovizia di particolari che sarebbe forse stato meglio mantenere segreti. Evidentemente sottovalutava l’efficienza dei nostri servizi di intercettazione i quali “leggevano” tutto ciò che l’imperatore le mandava a dire. Il 27 marzo fu captato questo suo telegramma inviato all’imperatrice:
Ci troviamo schierati davanti al nemico osservandoci l’un l’altro col binocolo. Ci dicono che le truppe del nemico che si trovano riunite davanti a noi sino ad ora non superano approssimativamente i diecimila uomini. Le nostre truppe ammontano esattamente a trentunomila unità. Poiché la nostra fede è riposta nel nostro Creatore e nella speranza che Egli ci aiuti, avendo noi deciso di avanzare e di entrare nelle loro fortificazioni e dato che l’unico nostro aiuto è Dio, confida nel massimo segreto questa nostra decisione all’abuna, ai ministri, ai dignitari e rivolgete a Dio le vostre decise preghiere.

Il tono di questo messaggio non era quello di un condottiero che si preparava a vincere una battaglia, bensì quello di un uomo disperato che, con l’aiuto di Dio, si accingeva ad andare incontro al suo destino… La preziosissima informazione, confidata “in segreto” dal negus alla sua consorte, deve aver fatto tirare un sospiro di sollievo al maresciallo Badoglio. Stava infatti a significare che il negus non aveva alcuna intenzione di compiere quel tanto temuto salto indietro dì 200 o 300 chilometri, ma che si apprestava a fargli la “cortesia” di andargli incontro…
Cosa avrà spinto il negus a compiere questo suo beau geste non lo sapremo mai. La risposta si cela nella complessa personalità di questo sovrano feudale impastato di orgoglio e deciso a difendere il suo onore e a restare fedele al motto che ne contraddistingueva l’antichissimo lignaggio: “Il Leone della tribù di Giuda vince”. Hailè Selassiè era certamente un uomo moderno, colto e intelligente, ma in lui le tradizioni ancestrali erano profondamente radicate. Anche i grandi negus del passato – Teodoro, Giovanni, Menelik – avevano comandato personalmente le grandi battaglie campali e avevano sempre vinto, grazie alla superiorità numerica, al coraggio dei combattenti e forse all’aiuto di Dio o dell’Arca misteriosa ormai irraggiungibile. Lui, comunque, non poteva essere da meno dei suoi predecessori: avrebbe perciò attaccato il nemico in massa e frontalmente, come volevano le consuetudini del passato e così come aveva fatto Menelik sul campo di Adua. Non intendeva restare ad attendere l’iniziativa dell’avversario: o sfondare o morire.
Badoglio lo attendeva a piè fermo. Malgrado le difficoltà ambientali, aveva schierato opportunamente sulle alture, fra i monti Bohorà e Corbetà e il passo del Mecan la divisione alpina Pusteria insieme alla 1a e 2a divisione eritrea. La mancanza di strade, l’ecatombe dei bagalì, i muletti sfiancati dalle fatiche, e mille altri imprevisti avevano rallentato il posizionamento delle truppe e il munizionamento delle batterie. Era infatti toccato agli artiglieri da montagna sostituirsi alle bestie da soma caricando sullo zaino, già pesante, un proiettile da 75/13 ciascuno: sei chili e mezzo in più da portare a spalla per quattordici ore di marcia.
Ma ora tutto era pronto e non bastava che attendere. Lontano poco più di cinque o sei chilometri, nell’immensa pianura di Mai Ceu, biancheggiavano le tende degli accampamenti abissini e la sera si udivano sempre più vicini i canti dei guerrieri che al rullo dei negarli “facevano fantasia” attorno a centinaia di falò. Dalla parte italiana invece era buio fitto. A turno, gli alpini dormivano in tenda o stavano all’erta presso le feritoie. Di giorno si affaccendavano per migliorare l’assetto delle ridotte e provvedevano a spargere sul terreno antistante le scatolette vuote il cui rumore, nel silenzio della notte, avrebbe segnalato l’approssimarsi del nemico. Gli ascari, invece, erano occupati a lucidare le baionette, i fucili, le mitragliatrici e a rassettare le proprie uniformi, come se si preparassero per una festa.
Alle prime luci dell’alba del 31 marzo 1936, nelle ridotte italiane avevano cominciato a distribuire il caffè, quando si udì il lungo e lamentoso urlo della iena ripetuto tre volte. Era il segnale convenuto con la giovane sciarmutta amica degli alpini il cui significato era noto a tutti: “stanno arrivando!”. Ci fu appena il tempo per correre alle armi che subito una massa urlante sbucò fuori dai boschi circostanti e dalle macchie di euforbie del colle chiamato “ditale rovesciato” per la sua forma curiosa. Erano migliaia: i guerrieri in sciammo bianco avevano le scimitarre sguainate e le guardie dell’imperatore entravano per la prima volta in scena in gruppi compatti nella loro uniforme gialla, con le fasce gambiere, i piedi nudi e il fucile con baionetta innestata in pugno. Gridavano tutti come ossessi e quando furono vicini, il loro grido di guerra si fece più distinto: “Adua, Adua, Macallè!”, i nomi che ricordavano le due prestigiose vittorie del passato.
Allorché gli assalitori giunsero a tiro, gli alpini ricevettero l’ordine di aprire il fuoco e subito i fucili 91, i mortai da 45, le mitragliatrici leggere Breda e le mitragliatrici pesanti Fiat 1914 cominciarono a cantare. Ampi squarci si aprirono nella massa avanzante, ma l’ondata proseguì verso le trincee giungendo a portata delle bombe a mano. Alcune ridotte vennero evacuate e poi riconquistate, ci furono scontri corpo a corpo, ma gli alpini tennero duro. Le prove più difficili toccarono al battaglione Pieve di Teco e al battaglione Intra, che lasciarono una decina dì morti sul terreno, ma dopo un’ora di combattimento gli abissini dovettero ritirarsi.

A questo punto l’attacco cambiò direzione e l’ondata degli assalitori si diresse verso il settore centrale tenuto dai reparti eritrei. Cominciarono così a entrare in azione le mitragliatrici Schwarzlose, in dotazione agli ascari, mentre le batterie da 75 lavoravano ormai a colpo sicuro. Contro queste posizioni fu prodotto lo sforzo maggiore. Le trincee erano basse e fatte un po’ alla carlona, perché agli ascari non piaceva realizzare muretti a secco e neppure la guerra prudente dietro le feritoie. Non avevano neanche ripulito bene il campo di tiro, così che i folti cespugli di euforbie a una decina di metri dalle posizioni offrivano comodi nascondigli. La difesa diventava perciò difficile e sanguinosa come l’attacco, e per qualche tempo gli abissini pensarono che il successo fosse ormai a portata di mano: le truppe indigene indietreggiavano dopo mischie feroci e alcune trincee venivano abbandonate.
Ma alle otto, come comunicò lo stesso negus nel consueto telegramma alla moglie Menen, “un potente rombo si udì venire dal nord. Gli aerei! Aerei da caccia e da bombardamento! Essi non poterono lanciare i gas perché le nostre truppe erano intimamente mescolate con quelle italiane, ma gettarono bombe e spararono raffiche di mitragliatrici sui nostri uomini che non erano impegnati nel corpo a corpo”. Impossibilitati ad aiutare le nostre forze impegnate nella battaglia, gli aviatori si erano infatti scatenati sulle retrovie, ostruendo la strada ai reparti che avrebbero dovuto sostituire le truppe di prima linea e, soprattutto, paralizzando l’invio dei rifornimenti. “Se a questo punto” riferì ancora il negus alla consorte “qualche nostra carovana di viveri fosse giunta dalle retrovie, i nostri soldati avrebbero potuto riprender le forze e ricominciare un combattimento che non era ancora disperato. Sfortunatamente le carovane arrivarono troppo tardi perché appena si fermavano venivano irrorate di iprite.” Hailè Selassiè non rinunciò tuttavia a sfruttare il successo iniziale e mandò all’assalto gli ultimi battaglioni della guardia imperiale non ancora provati dal fuoco.
“Questa volta” racconterà Pietro Badoglio “tutta la Guardia Imperiale, sostenuta da un fuoco vivace, muoveva verso le nostre posizioni, avanzando a sbalzi, sfruttando il terreno, dando prova di saldezza e di un notevole grado di addestramento, unito a un superbo sprezzo del pericolo.” Pur tenendo conto che, come sono soliti fare tutti i comandanti nei resoconti delle loro imprese, sia Badoglio che il negus esageravano a loro vantaggio, la situazione doveva essere alquanto confusa. Così riferisce infatti Italo Pietra che partecipò anche a quella battaglia:
Dalle feritoie dello ridotte il colpo d’occhio sulla battaglia è perfetto come su una partita di calcio dall’alto delle gradinate. Vediamo chepì, fregi, galloni e luccicare di armi portate a braccia: la Guardia Imperiale! Arrivano, salgono, si tengono aggruppati. Migliaia e migliaia. Batticuore, rabbia di essere lontani. Non puoi resistere a guardare lo spettacolo, idee nere ti passano per la testa. Gli aeroplani volano alti… C’è confusione, non possono bombardare, non possono mitragliare.
L’attacco delle guardie imperiali fu intensissimo e durò tre ore. Conquistarono il passo Mecan, si impadronirono del “ditale rovesciato” e del cosiddetto “boschetto delle euforbie”. I difensori in difficoltà non avevano sufficienti munizioni, che venivano affannosamente recuperate frugando nelle giberne dei caduti. Anche all’artiglieria scarseggiavano i proiettili e i rifornimenti tardavano ad arrivare. Mancando gli aerei e i cannoni, gli italiani erano praticamente costretti a combattere “ad armi pari” e la situazione sì faceva sempre più difficile. Così, alle 11.30, ai battaglioni eritrei fu impartito l’ordine di contrattaccare alla baionetta. Primo davanti a tutti per antico privilegio si mosse dalle ridotte il battaglione Toselli. “Armi, Toselli!, armi” gridava l’ufficiale italiano a dorso di cavallo. Poi molti altri battaglioni avanzarono tutti insieme con un solo impeto; avevano fasce alla vita di colori diversi, le armi in pugno, e alla loro testa cavalcavano i comandanti: il generale Dalmazzo, i colonnelli Corsi, Tracchia, Scotti e tutti gli altri ufficiali. Tra le raffiche e le esplosioni si udiva la chiamata dei reparti a uno a uno: “Arrai, Terzo eritreo”, “Arrai, Decimo eritreo… Arrai! Arrai!”.

Dalle loro postazioni, gli alpini seguivano lo scontro. Questa volta toccava alle mitragliatrici abissine che sparando nel mucchio da meno di 200 metri aprivano varchi paurosi fra gli attaccanti. I corpo a corpo si fecero furiosi: i colori vivaci delle fasce di lana degli ascari e il rosso dei loro tarbusc si confondevano con il bianco degli sdamma, il giallo delle uniformi, i lampi delle baionette e delle scimitarre. Decine di ufficiali furono visti cadere dalle cavalcature e centinaia di indigeni morirono con loro. Successivamente, anche gli alpini andarono al contrassalto in aiuto degli ascari, e gli abissini cominciarono a rinculare disordinatamente. I cespugli dì euforbie davanti alle ridotte eritree furono ripuliti a uno a uno dei nemici ancora vivi, poi alpini e ascari raggiunsero le alture del “ditale rovesciato” e della collina detta “del candelabro”. Alle quattro del pomeriggio, riconquistato il passo Mecan, si era ancora nel pieno della battaglia e il negus con la forza della disperazione ordinò l’offensiva generale sull’intero arco del fronte, mentre, come noterà lui stesso, il cielo si ricopriva “di nuvole basse e nere apportatici di sciagura”. Per due ore infuriarono i combattimenti ma, alle sei, il negus, avendo visto cadere il meglio della sua armata, fu costretto a ordinare il ripiegamento. La battaglia di Mai Ceu si concluse con gravi perdite da parte italiana e gravissime da parte abissina. Così infatti Hailè Selassiè comunicò alla moglie Menen:
Dalle 5 del mattino alle 7 di sera le nostre truppe hanno attaccato le forti posizioni nemiche combattendo senza tregua. Anche noi abbiamo partecipato all’azione e per grazia di Dio siamo rimasti incolumi. I nostri principali e fidati soldati scioani sono morti o feriti. Sebbene le nostre perdite siano gravi, anche il nemico è stato danneggiato. La Guardia ha combattuto magnificamente meritando ogni elogio. Anche le truppe amhara hanno fatto del loro meglio. Le nostre truppe, per quanto non siano in grado di svolgere un combattimento di tipo europeo, hanno sostenuto per l’intera giornata il confronto con quelle italiane.
Nella notte il tempo si mise a pioggia con lampi frequenti che illuminavano la pianura coperta di morti. Nelle ridotte italiane, ora che le armi tacevano, giungevano i lamenti dei feriti: abìet… abìet…, pietà… pietà…, confusi con il rombo funebre dei tamburi e le grida degli abissini intenti nella ricerca dei compagni caduti. L’indomani si registrarono ancora alcuni attacchi contro le posizioni italiane, che furono facilmente respinti, e il giorno seguente il negus, ormai senza speranza, ordinò la ritirata nell’intento di salvare il salvabile delle sue truppe.
Divisi in branchi disordinati, i circa 20.000 superstiti della battaglia si mossero verso il lago Ascianghi. Il negus contava di raggiungere Dessiè, dove sì trovava il figlio primogenito Asfa Uossen con le sue truppe. Ma Dessiè era lontanissima, mentre dietro di lui incalzava il Corpo eritreo mandato da Badoglio al suo inseguimento. Oltre che dall’aviazione, l’esercito abissino era tormentato dai soliti predatori Azebu Galla, galvanizzati dalla leggenda, subito diffusasi, del tesoro imperiale che il negus avrebbe trasportato con sé. Anche le popolazioni locali, che odiavano assai più degli italiani i loro antichi dominatori scioani, si sfogarono contro i fuggiaschi. Molti reparti furono costretti a pagare un pedaggio per essere autorizzati a transitare, altri vennero decimati dai bombardamenti e dai mitragliamenti in picchiata. La mattina del 4 aprile, dopo avere marciato per tutta la notte nella fiumana disordinata dei suoi soldati, il negus trovò un giaciglio di fortuna in una caverna presso Quoram, ma dovette ben presto rimettersi in cammino e abbandonare i suoi oggetti personali per l’incalzare degli inseguitori.

29 pensieri su “La bella Italia XV

  1. Il delirio e la tristezza del perdente.
    Il perdente grida di dolore a prescindere dallo schieramento.
    Hai scritto una pagina sensibile e densa di umanità, caro Ninni.
    Grazie per quest’ennesima perla.
    Grazie, un capitolo veramente eccelso.
    Grazie

    Maria Luisa

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    • Il 4 novembre 1934 il consolato italiano di Gondar fu attaccato da gruppi armati etiopi che causarono la morte di numerosi àscari eritrei e il 5 dicembre 1934 l’incidente di Ual Ual convolse un gruppo di dubat somali agli ordini del capitano Roberto Cimmaruta.
      Questi due episodi furono utilizzati come pretesto per poter iniziare le operazioni militari in Etiopia, già da tempo programmate

      Buon sabatop e grazie

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    • Si procedette ad un netto incremento numerico delle forze da mettere in campo.
      Alla fine, il 3 ottobre 1935 le truppe italiane, sotto il comando del maresciallo Emilio De Bono, cominciarono ad avanzare dalle basi eritree verso il territorio etiope

      Grazie

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  2. Un capitolo decisamente interessante e sofferto.
    Certo che parlare e descrivere una sconfitta non è semplice soprattutto se ci si deve attenere alla soria e alla rigorosità dei fatti.
    Fortunatamente la Vostra penna, Milord, riesce a riassumere, approfondendo, i periodi dando quella continuazione ideale che è il racconto del periodo.
    Da questa battaglia, raccontata con superlativa bravura, si ha proprio la percezione dell’avanzata.
    Inarrestabile pur contornata da mille dubbi.
    Si aprono le porte per la conquista?

    Grazie Milord.
    Grazie davvero

    Elena

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    • i soldati italiani erano circa 100000, mentre quelli “indigeni” erano oltre 60000, reclutati dalla primavera del 1935 mediante la leva obbligatoria.
      Si contava molto sulla loro coesione, combattività, mobilità e conoscenza dei luoghi

      Grazie

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    • Nella prima fase della conquista le difficoltà logistiche furono enormi.
      Soltanto le unità eritree erano in grado di penetrare con maggior facilità negli impervi territori etiopi.
      In più occasioni le truppe abissine travolsero quelle italiane e alla fine di dicembre i morti e i feriti erano soprattutto àscari.

      Grazie per esserci

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  3. La tua bravura, Ninni, rasenta la leggenda.
    Non l’ho mai messo in discussione. Forse, da discutere, ci sarebbe un attimo la forma. Sembra, infatti, una forma fascista e adulatoria di un regime che tanto dolore ha procurato.
    Invece la tua penna riesce a colorare il mondo con i colori della giustizia e della verità.
    Colori che sempre e da sempre ti accompagnano quale paladino degli oppressi.
    Infatti ho notato con quale “coloritura” parli delle truppe sconfitte del Negus….
    Gli oppressori, i furbi, i pazzi, diventano i tuoi beniamini se soltanto sono deboli.
    Ti riconosco in questo: un animo nobile, dolce e sicuramente giusto.
    Un animo dalla perfezione immacolata.
    Grazie milord.
    Grazie per tutto questo…

    Ti stimo tantissimo e ti bacio

    Babi

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      • Già.
        Una sostituzione che fu veramente fatale per gli abissini.
        Grazie Ninni per tutto quello che scrivi rendendolo, direttamente, fruibile e al servizio della comunità.
        Sei speciale in questo, te lo riconosco.
        Un uomo, un grande uomo pronto ad annullarsi per il bene del prossimo.
        Ti riconosco anche questo.
        Comunque ti ringrazio per quello che scrivi: grazie veramente.

        Babi

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  4. Caro Antonmaria

    Seppur si parli di guerra, anche questo è un capitolo bellissimo: ci fate addentrare negli orrori della battaglia in questione con la scrittura efficace che è del Vostro Talento di immedesimare i lettori. Orrori, e dolori, riportati dalla parte di entrambi i fronti, vinti e vincitori.
    Dalle guerre in generale, non si possono pretendere cose giuste ed umanità. Voi Antonmaria, qui, sottolineate che accanirsi o addirittura uccidere il nemico disarmato e già vinto è abominevole.
    Non viene mai meno, in tutto ciò che scrivete, il risalto del Vostro senso di giustizia. E nei Vostri Valori siete davvero Unico, starVi al fianco è privilegio e orgoglio.
    Grazie, nel senso più esteso.
    Con immensa Stima e profondo Affetto,

    Maria Silvia
    Vostra Sil

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    • Il Negus neghesti Hailé Selassiè

      Il 20 gennaio cominciò la battaglia di Passo Uarieu, con l’attacco della II Divisione Eritrea.
      L’offensiva si concluse con un discreto successo.
      Il giorno seguente, tuttavia, gli abissini contrattaccarono e la colonna di camicie nere guidata dal console Filippo Diamanti, trovandosi isolata in posizione avanzata, fu quasi annientata. Il XII Battaglione Eritreo, per salvare i sopravvissuti, uscì eroicamente dalle proprie fortificazioni per ripiegare nuovamente su Passo Uarieu, difeso dalla II Divisione CC.NN. “28 ottobre” del generale Somma.

      Gli italiani furono stretti d’assedio per tre giorni, fino al momento in cui la II Divisione Eritrea del generale Vaccarisi riuscì a disperdere gli assedianti (tra cui Ras Cassa) e a ristabilire la situazione, ponendo fine, di fatto, all’intera prima battaglia del Tembien. Le perdite tra gli àscari furono oltre 400.
      Emerse, in ogni caso, il loro valore e la loro fedeltà.
      Dal punto di vista militare risultò chiaro come in campo aperto le truppe coloniali combattessero in maggior sicurezza rispetto a quelle nazionali

      Il confronto probabilmente decisivo fu quello della battaglia di Mai Ceu.
      Badoglio, con le divisioni eritree e gli alpini, incontrò la guardia imperiale di Hailè Selassiè nella conca di Mai Ceu.
      Il contrattacco italiano fu portato dagli àscari del generale Toselli, ancora una volta impegnati in prima linea.
      La battaglia terminò con gravi perdite in entrambi gli schieramenti ma, soprattutto, con la ritirata del sovrano etiope.

      Ricambiammo la stima e l’affetto

      Antonmaria
      Kren

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      • Vi ringrazio per gli ulteriori dettagli.
        Questo apporto e gli altri in risposta ai lettori sono contributi a completezza di questa Vostra opera storiografica, un lavoro di istraordinario studio ed impegno. Il Vostro talento, Antonmaria, ha orizzonti infiniti.
        LeggerVi è sempre arricchimento interiore, di qualsiasi cosa scriviate.
        Grazie, con devozione.

        Vostra Sil

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  5. Una grande sensibilità , come ormai ci hai abiuati da tempo, caro Milord.
    Concordo con Maria Silvia sull’abominio che è la guerra.
    Le sfumature terribili e la distruzione che porta dentro.
    Come possiamo, come potremo costruire un qualcosa di migliore se, rinunciamo a quel senso di umanità che ci può rendere salvi e felici?

    La guerra, una bruttura che comporta la perdita d’identità in chi la propugna (si diventa dei bruti) e in chi la subisce (si diventa vittime della forza bruta e non dell’intelligenza).
    Ingiustizie consumate all’ombra dell’arroganza personale.

    Grazie Ninni.
    Con questo capitolo ci hai reso un po’ di umanità.
    Il Negus, questo imperatore da operetta, dimostra sensibilità nel volere ostinatamente comunicare con la sua donna e manifestarle preoccupazioni e dolori.
    Così dovrebbe essere un vero rapporto affettivo anche se … suicida, in questo caso.
    L’amore gli è stato fatale.
    Era intercettato.

    Grazie Ninni per questa fatica immane che, attravverso la parola, ci insegna molto altro.
    Una lettura affascinante e qualificante.

    Buona giornata.
    Con ammirazione,

    Annelise

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    • Il 24 aprile cominciò quella che sarebbe stata ricordata come la “marcia della ferrea volontà”: un’autocolonna iniziò a trasportare la Divisione Sabauda, le brigate eritree, precedute e fiancheggiate da vari battaglioni àscari appiedati, ed altri rappresentanti di ulteriori reparti verso la capitale Addis Abeba, raggiunta il 5 maggio 1936

      Grazie per aver scritto

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  6. Non mi ha preso nessun commento.
    E’ da ieri che provo a scrivere.
    Probabilmente WordPress si sta aggiornando.
    Bello come capitolo ma, come con i precedenti, rendi irresistibile l’attesa per il prossimo.
    Ciao
    F.

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    • La conquista dell’Etiopia, o per lo meno della sua capitale, era terminata.
      Le truppe coloniali pagarono un pesante tributo di sangue: furono oltre 4000 le perdite tra gli àscari.

      Il loro contributo fu tuttavia determinante

      Grazie e cordialità

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  7. Proprio vero che la verità non è mai quella che ti raccotano.
    Milord, ci avete abituati alla specchiatezza e alla pulizia di un racconto che racconto non è.
    Mi avete presa per mano e mi state trasportando, come gli altri lettori, attraverso la storia – di come avvennero i fatti – osservando e ascoltando le urla combattive e le grida di dolore.

    Tutto questo io o chiamo umanità.
    Grazie davvero…

    Buona giornata

    Eleonora

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    • Con la creazione dell’Impero (proclamato il 9 maggio 1936), Mussolini tentò di assimilare alla propria ideologia i combattenti di colore, che si erano distinti particolarmente durante le operazioni militari.
      Anche come compenso per il loro aiuto, l’Eritrea che entrò a far parte dell’Africa Orientale Italiana ebbe in concessione alcuni territori abissini

      Grazie e cordialità

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  8. Attraverso la conoscenza si conosce l’umanità.
    Eccocci a percorrere un altro chilometro in questo viaggio bello, perfetto e puntiglioso con il quale, caro milord, ci state restituendo una dimensione umana.
    Quella dimensione umana che ci parla di dolore, ma anche di vissuto e di sopportazione.
    Chi conquista e chi è conquistato.

    Questa a storia dell’umanità.
    però, a ben vedere nulla cambia e in tutto questo, milord, siete bravissimo a condurci attraverso e stanze della storia.

    Il mio pensiero va al negus e ai caduti dalla parte italiana che, ma mi riferico al senno di adesso, combatterono per un’ideale, giusto o sbagliato che sia.
    Non posso giudicarli nelle loro scelte.
    Un caro saluto e un grazie profondo..

    Giorgia

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    • A seguito dell’attentato a Rodolfo Graziani del 19 febbraio 1937 cominciò una durissima repressione su tutto il territorio etiope, il cui peso ricadde essenzialmente sulle unità “indigene”.

      Vorrei ricordare, in questo senso, il massacro di Debrà Libanòs (20-27 maggio 1937), in cui il generale Maletti con le sue truppe coloniali colpì l’elite della religione copta etiope provocando oltre 500 vittime, e il campo di concentramento di Dananè, costruito vicino a Mogadiscio e contraddistinto da condizioni di vita interne disumane

      Grazie e cordialità

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  9. Una storia raccontata con una maestria collaudata da noi, utilizzatori finali, con quella soddisfazione collaudata di anni e anni.
    Uno spaccato storiografico che ci prende e sistema.
    Grazie dottore per queste pagine memorabili.
    Buona giornata

    Amedeo

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    • Per essere più efficaci nelle azioni di rappresaglia, i battaglioni àscari furono resi più agili e vennero moltiplicati per ovvie necessità di dislocazione, il reclutamento divenne a base territoriale e gli ufficiali italiani cominciarono ad essere sempre più improvvisati.
      Il nuovo ordinamento prevedeva la creazione di 16 brigate “indigene”, costituite da 4-5 battaglioni ciascuna.
      Questa nuova organizzazione rese le truppe coloniali meno inquadrabili e anche meno efficienti

      Grazie

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    • Nonostante il brutale uso della forza, si capì ben presto che la pacificazione di quelle regioni che si opponevano al dominio italiano non risultava essere possibile.

      I soldati eritrei dovevano correre, in base a quelle che erano le emergenze contingenti, da una parte all’altra dell’Etiopia, senza avere la possibilità di domare definitivamente la resistenza abissina

      A causa di questa precaria situazione, non suscita particolare stupore il fatto che, ancora nel 1939, fossero presenti in Etiopia ben 136000 àscari.

      Grazie

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