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In Italia, la gente aveva cominciato a capire che la guerra d’Abissinia era giunta alla sua vittoriosa conclusione quando, il 4 maggio, i giornali annunciarono che il negus era fuggito a Gibuti. Il mattino del giorno seguente tutto il paese fu percorso da un fremito. Negli uffici, nelle fabbriche, nelle scuole e nelle strade non si parlava d’altro. L’attesa della grande notizia era vivissima e il vicesegretario del partito, Adelchi Serena (il segretario Starace era a “compiere il suo dovere” in Africa), si rivelò un abile regista della manifestazione. Prima diede via libera alle voci per far salire la tensione, poi ordinò che alle 17.45 le sirene delle fabbriche e le campane delle chiese cominciassero a suonare a distesa. Era il segnale della grande “adunata” e nel giro di pochi minuti gli italiani si riversarono nelle piazze delle città e dei borghi, dove già erano stati approntati gli altoparlanti. Si calcolò che fossero almeno venti milioni, ma forse il calcolo peccava per difetto. Dopo un’ora, quando la temperatura della folla era salita al punto giusto, il “regista” Serena fece sapere – e la notizia come per miracolo si diffuse in pochi istanti – che il Duce avrebbe parlato alle 18.30- Era una bella serata di maggio, il sole doveva ancora tramontare, la temperatura era mite e le piazze stracolme. Quella di fronte a Palazzo Venezia era affollata in maniera incredibile e così piazza del Duomo, a Milano, dove una colossale insegna luminosa con la scritta “Viva il Duce” si era accesa improvvisamente sulla facciata del Carminati, di fronte alla cattedrale. Nelle altre città e in tutti i paesi d’Italia l’atmosfera non era diversa, mentre nei borghi sperduti, sprovvisti di impianti radiofonici, erano prontamente affluiti veicoli speciali muniti dì altoparlanti.
L’attesa delle folle era dovunque spasmodica e l’aggettivo non è retorico. Mussolini si fece attendere a lungo, ma finalmente comparve sul famoso balcone. Era in divisa di comandante generale della Milizia e l’applauso che lo accolse fu più scrosciante del solito. Seguì un lungo silenzio che il Duce seppe abilmente sfruttare. Poi cominciò a parlare:
Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani e amici dell’Italia al di là dei monti e al di là dei mari! Ascoltate! Il maresciallo Badoglio mi telegrafa…
Dopo avere scandito parola per parola il telegramma inviatogli da Badoglio, e dopo l’interminabile ovazione che ne seguì. Mussolini riprese osservando quelle pause studiate in cui era maestro:
Durante i trenta secoli della sua storia, l’Italia ha vissuto molte ore memorabili, ma questa di oggi è certamente una delle più solenni. Annuncio al popolo italiano e al mondo che la guerra è finita. Annuncio agli italiani e al mondo che la pace è ristabilita.
Da quel momento in poi ogni sua frase fu accolta con grida di giubilo che divennero deliranti quando alta fine proclamò: “L’Etiopia è italiana!”.
Quello che accadde poi è indescrivibile. La gente non si limitava più ad applaudire, molti piangevano senza ritegno; c’era chi saltava, chi ballava, e tutti si abbracciavano l’un l’altro senza neppure conoscersi. Intanto le campane e le sirene avevano ripreso a suonare, mentre gli altoparlanti diffondevano gli inni del regime. Un entusiasmo simile, bisogna riconoscerlo, non si era mai visto. Neppure il 4 novembre 1918 per la fine della guerra mondiale. Il “Corriere della Sera” uscì in edizione straordinaria. Il titolone, che diceva: “Il Duce annuncia al mondo: l’Etiopia è italiana”, era alto 15 centimetri, un fatto inaudito per il misurato e compassato giornale milanese.
Il giorno seguente un solenne Te Deum venne celebrato in tutte le chiese d’Italia. A Milano, il cardinale Ildefonso Schuster non risparmiò entusiasmo e retorica esaltando la redenzione dei miseri e il trionfo sulla schiavitù millenaria. Un decreto del governo stabilì che per tre giorni il paese doveva rimanere imbandierato, ma poi i giorni furono portati a cinque, essendo stata annunciata per sabato 9 maggio una nuova grande adunata. “Il popolo italiano riunito nelle piazze” spiegavano i giornali “potrà così ascoltare le importantissime decisioni che saranno comunicate dopo la riunione del Gran Consiglio del fascismo e prima della riunione del Consiglio dei ministri”. Il Gran consiglio era convocato per le 20 e quello dei ministri per le 22.30. Fra le due riunioni avrebbe parlato lui, Mussolini.
Anche questa volta la regia di Adelchi Serena fu perfetta e ancora più suggestiva. Il 5 maggio Mussolini aveva parlato in pieno giorno, questa volta lo fece nell’oscurità della notte, rotta dalle luci rutilanti dei fari e dei riflettori. In piazza Venezia, a Roma, c’era un’atmosfera quasi nibelungica, come in certe adunate hitleriane che già andavano di moda in Germania. I giornalisti per descriverla dovettero forzare la propria fantasia. Ugo Ojetti scrisse che la folla straripante dalla piazza nelle vie adiacenti “era tanto immobile e compatta che solo le teste appaiono, senza spalle, accostate come i ciottoli di un acciottolato”. Orio Vergani paragonò la folla a “una scatola di pallini da caccia”.
Accolto con un entusiasmo da mundial, il Duce parlò alle 22 in punto e la sua frase clou, che fece spellare le mani agli ascoltatori, fu questa: “Dopo quindici secoli, l’Impero è riapparso sui colli fatali di Roma”. Spentasi l’interminabile ovazione, il Duce soggiunse con una dì quelle teatrali interrogazioni con cui intesseva sovente il suo dialogo con gli ascoltatori: “Ne sarete voi degni?”. “Sì” urlò la folla. E lui, dopo la solita pausa a effetto, concluse: “Questo grido è come un giuramento sacro che vi impegna davanti a Dio e dinanzi agli uomini, per la vita e per la morte”. Qualcuno ebbe anche la costanza di contare gli applausi tributati a Mussolini in quella magica notte: furono quarantadue.
Per la verità, il Duce ci aveva pensato un po’ sopra prima di “fondare l’Impero”. Apprendiamo dalle memorie di Dino Grandi, allora ambasciatore a Londra, che il 6 maggio il Duce gli aveva così telegrafato: “Desidero conoscere quali, a tuo parere, sarebbero le reazioni inglesi se io proclamassi l’Impero”. Grandi aveva risposto: “Nessuna reazione, solo un po’ di malumore”. L’impero dunque poteva essere “fondato” senza preoccupazione, e Vittorio Emanuele III accettò assai di buon grado di diventare, oltre che re d’Italia, anche imperatore d’Etiopia. Tanto di buon grado che cercò di contraccambiare il dono offrendo al Duce il titolo di principe, ma questi lo rifiutò e, bisogna riconoscerlo, con un certo stile. “Maestà,” gli rispose infatti declinando l’offerta “io sono e voglio essere solo Mussolini. Le generazioni dei Mussolini sono state sempre generazioni di contadini e ne vado un po’ orgoglioso.” Si accontentò della gran croce dell’Ordine di Savoia che gli fu assegnata con la seguente motivazione: “Ministro delle forze armate preparò, condusse e vinse la più grande guerra coloniale che la storia ricordi. Guerra che, egli, Capo del governo del Re, intuì e volle per il prestigio, la vita, la grandezza della patria fascista”.
In seguito, per volontà della Camera, e con disappunto di Vittorio Emanuele (che non gradì di diventare un “parigrado” del Duce), Mussolini fu insignito, insieme allo stesso sovrano, del grado di “Primo Maresciallo dell’Impero”. Da parte sua Starace, da buon coreografo del regime, modificò il “Saluto al Duce” con il quale era obbligatorio aprire ogni manifestazione politica con la formula più arzigogolata di “Salutate nel Duce il fondatore dell’Impero!” al quale, tutti in coro, si doveva rispondere: “A noi!”. Questa novità non piacque troppo a Mussolini: “Invece di rispondere “noi”, vien voglia di dire “amen”“ borbottò quando gliela comunicarono. Tuttavia l’accettò ugualmente e il nuovo saluto diventò rituale. Ormai era entrato nella spirale dell’apologià e neppure le piaggerie più smaccate lo turbavano più.
Per quanto si sia cercato di svilirla, la guerra d’Abissinia fu effettivamente la più grande guerra coloniale combattuta, e l’averla vinta rappresentava un vanto per l’Italia. Tanto più apprezzabile per il fatto che era costata la vita di soli 3357 italiani: 1304 morti in combattimento, 1600 per cause di guerra, più 453 caduti fra operai e camionisti. Cifre, come si vede, paragonabili a quelle delle “guerre intelligenti” dei nostri giorni e non a quelle cui sì era abituati allora.
Gli esperti militari inglesi avevano pronosticato una campagna di almeno cinque anni e il fatto che fosse durata appena sette mesi appariva un miracolo dell’arte militare. Per il maresciallo dì Francia Philippe Pétain l’impresa “andava considerata un capolavoro”, mentre veniva clamorosamente smentita la pessimistica previsione (in cui si era cullato anche Hitler) del capo dello stato maggiore tedesco, generale Werner von Blomberg, secondo il quale “era impossibile che una piccola e povera nazione, peraltro sottoposta a embargo e ostacolata dalla potenza superiore britannica, potesse portare a compimento quella conquista a 6 o 7000 chilometri di distanza dalle sue basi di rifornimento”.
In Italia e all’estero, i riconoscimenti furono innumerevoli e il Duce venne subissato di congratulazioni. Sembrava che il mondo avesse dimenticato il negus, il gas e le sanzioni. Agli italiani all’estero capitava di sentirsi dire: “Beati voi che avete un uomo come Mussolini”. Dino Grandi racconta nelle sue memorie: “Lo stesso 5 maggio, Re Edoardo VIII, da pochi giorni succeduto a Giorgio V, mi convocò a palazzo Reale per congratularsi, presente il ministro Eden, per la vittoria italiana”. Boccone amarissimo deve essere stato quel riconoscimento per Anthony Eden che aveva fatto tutto il possibile per opporsi alla nostra avventura africana. In Italia, l’unico scontento fu forse il maresciallo De Bono che, in quei giorni, scrisse amareggiato nel suo rudimentale diario riesumato dall’attento Franco Fucci:
Ce ne vorrà del tempo perché io ci faccia il callo! È stata un’ingiustizia! Mussolini? Mussolini è un egoista e non pensa certo a me. Ieri le truppe sono entrate in Addis Abeba. Epilogo vittorioso! Sarà bene che io non ci ragioni troppo sopra. Io spero che Mussolini si ricordi che, tre anni fa, solo lui e io pensavamo alla possibilità di quello che è successo. Ma adesso io non devo essere messo in un cantone!
E più avanti, quando venne a sapere che a Badoglio era stata riconosciuta la favolosa indennità di un milione di lire all’anno, lui che aveva sempre avuto un religioso rispetto per il denaro annotò: “A Badoglio l’assegno di un milione annuo! Alla salute: che ganasce!”.
Tutti contenti dunque, meno De Bono. E meno, forse, donna Rachele, la moglie del Duce la quale, impressionata da quei fasti imperiali che le parevano troppo belli per essere veri, una sera, con saggezza contadina, disse al marito: “Abbiamo avuto tanta fortuna. Non può durare. Ritiriamoci in tempo. Andiamocene alla Rocca delle Caminate…”. Mussolini non ascoltò quel suggerimento e neppure il consiglio che gli diede Italo Balbo. “Indici subito le libere elezioni” gli mandò a dire da Tripoli il famoso trasvolatore atlantico. “Sarà un plebiscito e metteremo cosi tutte le cose a posto.” Mussolini invece preferì “tirare diritto” e, ancora una volta, lasciamo ai lettori libertà di immaginare cosa sarebbe accaduto se…
Pietro Badoglio era ancora in Abissinia, ma vi rimase per poco: appena il tempo per ricoprire il titolo prestigioso di viceré d’Etiopia. Il 22 di maggio salpò alla volta dell’Italia dopo aver ceduto il suo alto incarico a Rodolfo Graziani, che nel frattempo aveva ottenuto, oltre il grado di maresciallo d’Italia, anche il titolo nobiliare di marchese di Neghelli. Il conquistatore di Addis Abeba sbarcò a Napoli da una nave scortata da quattro sommergibili, salutato dal suono delle campane delle chiese e delle sirene dei piroscafi. Era andato a riceverlo il principe ereditario Umberto, che lo accompagnò in macchina attraverso la città in festa. A Roma fece una breve sosta e quindi raggiunse per un periodo di riposo la natìa Grazzano, nel Monferrato, che sarà presto ribattezzata Grazzano Badoglio. La sua popolarità era seconda soltanto a quella di Mussolini. Da tutto il mondo gli piovvero addosso congratulazioni, lauree e cittadinanze onorarie. Gli giunse persino, come racconta il suo biografo Silvio Bertoldi, un papiro cinese che gli dava il diritto di avere sette mogli. Il suo libro La guerra d’Etiopia venne tradotto in molte lingue e fu il bestseller di quell’anno. Papa Pio XI ricevette il maresciallo in pompa magna e nel pomeriggio il legato pontificio gli restituì la visita nella sua residenza romana come si usa con i capi di Stato.
Da astuto contadino piemontese, Badoglio non mancò di capitalizzare tanta gloria e il “conto” da lui presentato risultò piuttosto salato. A parte un titolo nobiliare di competenza sovrana, presentò a Mussolini queste richieste: il trattamento economico a vita di viceré, che gli venne accordato con un’apposita legge; il dono di una villa (gli furono versati in contanti 5 milioni che utilizzò per costruirsi a Roma una lussuosa residenza) e la promozione del figlio Mario da diplomatico a ministro plenipotenziario di seconda classe. Soltanto quest’ultima pretesa gli fu negata. Circa il titolo nobiliare, egli riteneva di avere il diritto di chiedere al re quello di duca di Addis Abeba (“Dopo tutto gli ho dato Vittorio Veneto e l’Impero”) e infatti fu accontentato. Quando il sovrano gli chiese quale motto preferisse per il suo stemma, Badoglio rispose senza esitazione Veni vidi vici, ma Vittorio Emanuele lo bocciò osservando che non gli sembrava opportuno “risuscitare i morti”.
La campagna africana svuotò i forzieri della Banca d’Italia, i prezzi aumentarono del 30 per cento, e tuttavia Mussolini raggiunse l’acme della sua popolarità in Italia e nel mondo. Persino l’antifascismo militante lo riconobbe a chiare lettere. “Il vecchio antifascismo è morto” ammise malinconicamente dall’esilio Carlo Rosselli, mentre il centro socialista di Parigi convenne che il regime godeva ormai del consenso “delle masse operaie, specialmente giovanili, perché conquistate dall’idea della giusta guerra proletaria delle nazioni povere contro le nazioni ricche”. E giustificò l’ondata antibritannica levatasi nel paese in quanto “il motivo dell’egoismo inglese che si mette di traverso alle giuste aspirazioni dell’Italia proletaria è innegabilmente sentito”. Da parte loro, i comunisti tendevano addirittura “la mano ai fascisti, nostri fratelli di lavoro e di sofferenza, perché vogliamo combattere assieme a essi la buona e santa battaglia del pane, del lavoro e della pace”.
Insomma, il Duce era al centro di tutto e il primo di tutti. Il successo militare e politico ottenuto gli aveva dato alla testa e aveva finito per convincerlo definitivamente che lo slogan coniato da Leo Longanesi: “Mussolini ha sempre ragione” fosse una constatazione indiscutibile. Secondo molti storici, fu a questo punto che il “fondatore dell’impero” subì quella trasformazione radicale, impastata di cesarismo e di bonapartismo, che con il contributo dei suoi innumerevoli apologeti lo condurrà a credere di poter padroneggiare in ambito mondiale quegli avvenimenti bellici che aveva certamente dominato e indirizzato in ambito etiopico. Risalgono infatti a quei giorni le prime avvisaglie del suo progressivo avvicinamento all’idea di essere un esperto stratega. “Un giorno si saprà” confidò a Bottai poco dopo la conclusione del conflitto etiopico “come io abbia anche tecnicamente diretta questa guerra. Bisogna far presto e picchiare sodo: la prossima non durerà più di sette settimane. Noi possiamo farlo. Non abbiamo bisogno di nessuno”. Poi aggiunse: “Pensa alla sorpresa degli italiani il giorno che si svegliassero e leggessero sul giornale questa notizia: una squadra aerea italiana ha bombardato la squadra navale inglese a Malta. Si ritiene che numero tot di navi sia colato a picco…”. Per un curioso gioco del destino, l’ex caporale dei bersaglieri cominciava inconsapevolmente a rassomigliare sempre di più all’ex caporale austriaco suo antico estimatore e imitatore.
Comunque l’avvenire era ancora lontano, anche se andava annunciandosi piuttosto difficile e sinistro se si considerano i torbidi che andavano crescendo in Spagna dove, tra breve, anche l’Italia, insieme alla Germania, sarebbe stata coinvolta in una sanguinosa guerra civile. Continuava invece l’idillio dell’impero, idillio fra il re e il Duce, fra il regime e il popolo, fra lo Stato e l’iniziativa privata che aveva trovato nel primo il suo più generoso cliente. Il pensiero di Mussolini era ancora concentrato sull’impero che voleva consolidare al più presto. “Nel 1938” confidò sempre a Bottai “gli italiani dovranno avere caffè, pelli, lane, cotone dall’Impero. Dovranno provare il senso tattile, direi quasi olfattivo dell’Impero.”
In realtà, come racconta quell’attento cronista del suo tempo che fu Giovanni Artieri, il “profumo” dell’impero gli italiani lo assaporarono soltanto nel primo anniversario della conquista dell’Abissinìa che fu celebrata a Roma con grande spettacolarità. Inizialmente si discusse su chi dovesse capeggiare la parata: Badoglio da solo, o Badoglio insieme a De Bono? (Graziani, trattenuto in Etiopia dalla carica di viceré, otterrà di potersi far rappresentare dal suo cavallo). Alla fine venne concesso anche a De Bono di figurare nel corteo, ma gli applausi andarono ovviamente tutti all’altro. Fu, quella, una manifestazione faraonica: in Italia non se n’erano più viste dai tempi dei “trionfi” tributati ai condottieri romani, ai quali Achille Starace evidentemente si ispirò. Per la sfilata convennero a Roma più di 10.000 abissini nei loro costumi tradizionali. Ascari, dubat, guerrieri Azebu Galla, ras impennacchiati, nonché i decorativi meharisti, che ricevettero l’onore di montare la guardia a Palazzo Venezia in groppa ai loro cammelli.
Tutti costoro marciarono schierati con le truppe nazionali in uniforme coloniale, tra folle osannanti, al cospetto del re e del Duce. Furono i dubat somali, splendidi uomini seminudi, neri e lucidi, a riscuotere, dopo Badoglio, il maggior plauso e si dovette, ironizza maliziosamente Giovanni Artieri, badare a difenderli dalle intraprendenze di certe audaci belle signore.
Cordialità
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Una fatica notevole. Non è facile, infatti, parlare di argomenti che il politically correct tengono nascosti agli occhi dei più.
Una descrizione che colpisce per la pulizia e soprattutto quell’onestà intellettuale che ti contraddistingue.
Quindi ci siamo.
Questo che descrivi è il periodo d’oro dell’Italia.
Un periodo che difficilmente, chi l’ha vissuto, potrà dimenticare.
Grazie
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Officina di comprensione e analisi, leggo questo nuovo capitolo pieno di tanta.
Un capitolo bello e preciso che prende fin dentro la parte più passionale.
Almeno questo è il sentimento che mi provoca.
Forte dei fatti storici, è pieno di verità ben dosate.
Sto conoscendo il sole della vittoria e l’amarezza della sconfitta, con la ragione di chi opera per la nazione in cui vive.
Grazie, caro Ninni per essere così preciso e soprattutto così umano.
Una umanità che travalica l’eventuale conoscersi, per atterrare sul piano dell’uomo.
Grazie Ninni.
Grazie davvero
Annelise
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Caro Antonmaria
Particolarmente di coinvolgente lettura, questo capitolo. Sarà che, di epoche così gloriose, l’ Italia non ne conobbe tante ed affatto dopo quella qui ben descritta dal Vostro geniale talento.
Negli anni, con merito, definiti ‘ruggenti’ si compirono veri e propri prodigi, data la brevità del periodo, che vanno dalla conquista di un territorio che è cinque volte maggiore dell’ Italia (che prospettava floridità anche per l’ Abissinia), di cui tratta questo passo, a quelli che nel corso dell’ opera ci avete esaustivamente informati. Direi, tra i tanti, spiccano: l’ istituzione di enti locali e pubblici e degli uffici di collocamento (alcuni di questi talvolta restavano chiusi per mancanza di disoccupati, tanto per sottolineare che periodo florido fu)/ la socializzazione dell’ Italia con la lotta all’ analfabetismo istituendo la scuola dell’ obbligo (nel periodo fascista l’ alfabetizzazione raggiunse il 70%, livello ben superiore a quello della Gran Bretagna, già da allora considerato uno degli Stati più emancipati culturalmente)/ l’ urbanizzazione, in tempi così brevi che oggi si sognerebbero, e la costruzione di numerose case popolari/ le opere di bonifica del territorio…
È emblematico che, i comunisti del tempo, dovettero riconoscere appropriate le scelte ed efficaci le azioni del governo fascista di quegli anni.
LeggerVi, Antonmaria, è sempre Meraviglia. Grazie.
Con immensa Stima e profondo Affetto,
Maria Silvia
Vostra Sil
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Ecco un capitolo che per forza e potenza rimane a se stante.
Perché nascondere che quei fatti di periodo furono eclatanti per tutti gli italiani?
Grazie per non aver ceduto alla moda di “prendersela” sempre con tutto quello che riguarda o ha riguardato il passato.
Noi siamo stati anche quel periodo lì e se l’attuale non riesce ad eguagliare il bene di tutti, beh, allora fatemi sognare.
Nel bene e nel male.
Grazie e ciao
Buon giorno
Fran
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Un ottimo saggio di bravura, professionalità e completezza storica.
Molto molto soddisfacente.
Buona giornata
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Almeno leggiamo un’opera bella e pulita.
Ultimamente non c’è una gran scelta mi pare.
Grazie Ninni, buona giornata
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Una lettura ottima, complessa e completa.
Una analisi specchiata e sicuramente onestissima.
Buon giorno
Amedeo
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Un resoconto storiografico che prende per bellezza e per completezza.
Altr non aggiungo perché rimango incantata sia dai commenti, sia dallo spessore del capitolo stesso.
Ciao Ninni e buona giornata.
L.
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Un pezzo notevole e pieno di bellezza nell’esposizione.
Sei bravo proprio.
Un pensiero ammirato e sicuramente diretto.
Ciao MIlord.
Susi
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La storia e la trascrizione di un fatto storico descritto con una grande maestria.
Sei sempre un grande, caro Ninni.
Un uomo che sa raccontare i fatti con quella umanità che ti contraddistingue e che ci fa vivere una dimensione bellissima.
Grazie milord.
Your Manu
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