La bella Italia XVIII

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Ancora oggi, a tanti anni dalla fine del nostro impero, c’è una canzone che lo ricorda e che, avendo perduto nel frattempo ogni connotazione politica, è diventata un classico. Il suo motivetto facilmente orecchiabile, tramandato di bocca in bocca e di generazione in generazione, è tuttora vivo fra noi, essendo entrato di prepotenza nell’immaginario collettivo. Può infatti capitare di sentirlo fischiettare anche da chi delle imprese coloniali italiane non ha neppure memoria. Si tratta di Faccetta nera, versi di Renato Micheli e musica di Mario Ruccione, composta nel 1935 prima in romanesco e poi tradotta in italiano per il suo strepitoso successo. Essa rivela, meglio di ogni altra testimonianza, con quale spirito gli italiani di allora andarono alla conquista dell’Abissinia. Rileggiamo dunque insieme il testo di questa canzone che fece da sottofondo alla campagna d’Africa come la colonna musicale di un film.

Se tu dall’altopiano guardi il mare,
moretta che sei schiava fra gli schiavi,
vedrai come in sogno tante navi
e un tricolor che sventola per te.
Faccetta nera, bell’abissina,
aspetta e spera che già l’ora s’avvicina.
Quando staremo vicino a te,
noi ti daremo un’altra legge e un altro re.
La legge nostra è schiavitù d’amore,
il nostro motto è libertà e dovere,
vendicheremo noi camicie nere
gli eroi caduti liberando te.
Faccetta nera, bell’abissina,
aspetta e spera che già l’ora s’avvicina.
Quando staremo vicino a te,
noi ti daremo un’altra legge e un altro re.
Faccetta nera, piccola abissina,
ti porteremo a Roma liberata,
dal nostro sole tu sarai baciata,
sarai camicia nera pure tu.
Faccetta nera, sarai romana,
la tua bandiera sarà quella italiana,
noi marceremo insieme a te
e marceremo avanti al Duce e avanti al Re.

Questa bella canzonetta, piena di buoni propositi umanitari quanto quell’altra, assai meno orecchiabile, improvvisata dai soldati (“E se l’Africa si piglia, si fa tutta una famiglia”), veniva cantata dai legionari in partenza e dalle folle che li salutavano dai moli. Anche i microfoni dell’EIAR la proponevano a ogni occasione, senza che nessuno trovasse da ridire sul palese messaggio antirazzista in essa contenuto. D’altra parte, il razzismo era lontano mille miglia dalla mentalità degli italiani. Anzi, erano ancora gli anni in cui Mussolini lo definiva sarcasticamente “robaccia per biondi” e autorizzava i giornali umoristici a sbeffeggiare gli effeminati “bellinazi” che si vantavano della loro ariana purezza razziale. Da noi Faccetta nera, cantata dalla calda voce di Carlo Buti, scatenò semmai la fantasia erotica degli italiani, tanto che, lo possiamo affermare con certezza, il richiamo sessuale della “bella abissina” spinse molti più giovani ad arruolarsi volontari di quanti ne attrasse il richiamo della “missione civilizzatrice” o della conquista del “posto al sole” sbandierate dalla propaganda di regime.
Per alimentare questi entusiasmi, i giornali, il cinema, la pubblicità e persino i pacchetti di sigarette furono autorizzati a esporre invoglianti negrette a petto nudo in un’epoca così bacchettona e morigerata in cui il seno delle ragazze bianche si poteva soltanto immaginare (quello della bella Clara Calamai, protagonista della Cena delle beffe, lo si vedrà per la prima volta nel 1941 e per pochi secondi). “Mai come allora” ha scritto Leo Longanesi “si sono ammirate immagini di seni così turgidi e puntuti. Gli italiani non vedevano l’ora di partire; l’Abissinia ai loro occhi appariva come una sterminata selva di bellissime mammelle a portata di mano.”
La musica cambiò dopo la conquista dell’impero. Ma a lanciare il primo attacco razzista contro la “sdolcinata Faccetta nera” non furono né Mussolini né gli ideologi del fascismo, bensì un giornalista di fama francamente insospettabile. Si trattava di Paolo Monelli, ex ufficiale degli alpini, autore di libri di successo e grande firma, prima della “Gazzetta del Popolo” e poi della “Stampa”. Spirito libero, colto, raffinato (anche in uniforme portava il monocolo), Monelli aveva seguito la campagna d’Abissinia sin dal primo giorno e aveva scritto molte avvincenti corrispondenze di guerra ingentilite da gustose pennellate di colore che le rendevano ancor più gradevoli.
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Cosa lo spinse a prendersela con la canzonetta più popolare del momento non si spiega. Certamente non fu “ispirato dall’alto” come pensa Sandro Cerbi, storico attento e curioso che, avendo avuto l’opportunità di frugare nell’inesplorato archivio privato del famoso giornalista, ha riesumato questa singolare vicenda. Monelli non era il tipo da farsi imbeccare “dall’alto”, semmai era lui a dare le imbeccate. Poco tempo prima, per esempio, un suo articolo contro l’uso della terza persona singolare nel linguaggio comune aveva suggerito ad Achille Starace la ridicola campagna per l’abolizione del “lei” e per l’adozione del “voi”. È molto più probabile che Monelli abbia agito di sua iniziativa per ambizione snobistica, per andare controcorrente o perché avvertì prima degli altri che la “razza” cominciava a diventare di moda anche in Italia. Ma vediamo che cosa sosteneva Monelli nel suo articolo, inaspettatamente truculento, intitolato significativamente Moglie e buoi dei paesi tuoi, che apparve sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino il 13 giugno 1936.
Già l’esordio è un affondo micidiale:
Se io fossi imperator, sai ch’io farei? Prenderei l’autore delle parole della canzone Faccetta nera e l’obbligherei a vivere due o tre settimane, che dico?, due o tre giorni, e giuraddio che basterebbero due o tre ore, in una capanna abissina con una faccetta nera. Con una di queste abissine tutte sudice di un sudiciume antico, sempre fetide del burro rancido che cola a goccioline sul collo; sfatte a vent’anni; per secolare servaggio amoroso fatte fredde ed inerti fra le braccia dell’uomo; e per una bella dal viso nobile e composto, cento ce ne sono dagli occhi cisposi, dai tratti duri e maschili, dalla pelle butterata. E gli direi: Eccoti la tua faccetta nera; dalle la tua patria e il tuo re, e tientela vicino a te tutta la vita; questo è il fiore dell’equatore che ti aspetta e spera che già l’ora si avvicini. Vestila per la rivista, mettila in camicia nera (così almeno avrà una camicia).
E il giornalista così proseguiva:
Le parole di Faccetta nera sono peggio che idiote. Sono indice di una mentalità che vorremmo trapassata, di uno stato d’animo rugiadoso e romantico corrotto di sdolcinatura e di vizio che dobbiamo seppellire sotto dieci metri di terra se vogliamo andare per il mondo a fare l’impero. Sono indegne della nostra gioventù sportiva e casta. Sono il frutto dell’ignoranza provinciale di chi è venuto alla conquista dell’impero cantando la conquista di una donnetta puzzolente.
Il mondano Monelli, galante e trasgressivo, concludeva la sua filippica razzista e perbenista con queste parole:

Né va dimenticato che l’amore è soprattutto fabbrica di prole. Ora che cosa vuole far fare alla faccetta nera il nostro cantastorie? Un figlio? Un meticcio? Qui l’ignoranza del cantore diventa delitto contro la razza (razza bianca dico; non corro dietro a certe deformazioni teutoniche). Ma noi dobbiamo popolare l’impero d’intatta gente nostra, non disseminare intorno malinconici bastardi. Non è ammissibile per un popolo sano, forte, antico, la promiscuità con i barbari vinti. Un popolo che costruisce per uno splendido futuro non augura a sé eredi corrotti.
L’articolo di Monelli raccolse autorevoli consensi in certi ambienti del regime, ma, per la verità, Faccetta nera non fu mai messa all’indice. Ci si limitò a non farla più cantare durante le adunate e le parate ufficiali, fu limitata anche la sua diffusione radiofonica e tuttavia, ancora nel 1938, l’orchestra sinfonica dell’EIAR, diretta dal maestro Ugo Tannini la registrò in un disco che fu largamente venduto.
La violenta invettiva del giornalista, che malgrado la forzata presa di distanza dalle “deformazioni teutoniche”, dava dei punti anche al teorico del razzismo Alfred Rosenberg, non venne accolta con favore neppure negli ambienti dell’impero. D’altronde in Africa, tutti, ufficiali, sottufficiali, funzionari e coloni, disponevano di una “madama” (cosi venivano chiamate le “quasi mogli” con cui convivevano more uxorio) le quali peraltro non erano affatto “cispose”, come le descrive Monelli, ma, specialmente le somale, spesso affascinanti e di rara bellezza. Molti veterani dell’Africa se le sposarono e gli altri le ricordarono sempre con nostalgia; come Indro Montanelli che ancora conservava nel suo studio il ritratto della graziosa Desta, la sedicenne tigrina che lo aveva seguito docilmente, di tappa in tappa, come usavano fare le donne degli ascari, durante la sua marcia verso Addis Abeba.
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Oltre alla diffusione del “madamismo” fra gli uomini, pare che nel neonato impero neppure le mogli degli ufficiali e dei funzionari coloniali disprezzassero la “promiscuità con i barbari vinti”. Circolavano infatti a Addis Abeba aneddoti esilaranti e storielle piccanti di cui si ritrova traccia nell’interessante diario segreto di Ciro Poggiali, in cui il giornalista annotava cose che la censura gli impediva di pubblicare sul suo giornale. Scrive per esempio Poggiali:
Si apprende che a Mogadiscio il servo somalo di un funzionano della Banca d’Italia sì presenta al padrone per annunciargli che intende licenziarsi. “Perché” chiede il padrone “se ti ho sempre trattato bene e sono contento di te? Vuoi forse un aumento di salario?” E l’altro: “No, guitana, io devo andare via. Tua moglie sempre volere, sempre volere da me… e io non resistere. Troppa fatica…”.
A Addis Abeba invece, prosegue Poggiali, “la moglie di un colonnello che ha appena finito di sgravarsi domanda ansiosa a chi l’assiste: “Di che colore è?”. “Purtroppo è nero”“.
Non mancavano neppure le promiscuità del terzo sesso. Montanelli raccontò di quanto gli accadde quando gli fu assegnato un “francolino” (venivano chiamati così i boy attendenti) che prima era stato al servizio di un noto generale di divisione. Stupito che il ragazzo avesse lasciato un generale per servire un semplice tenente, Montanelli gliene chiese con insistenza il motivo. E l’altro, in lacrime, alla fine confessò: “Perché signor generale sempre culo, culo, culo…”.
L’eccessivo sviluppo del “madamismo”, peraltro comprensibile in un ambiente popolato di soli uomini, cominciò a preoccupare Mussolini soltanto un anno dopo la conquista dell’impero, quando anche in Italia presero a serpeggiare le teorie teutoniche sulla difesa della razza. Il 19 aprile 1937 veniva infatti emanato il seguente decreto reale:
Il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione di indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi, concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
Da notare che la pena si applicava soltanto agli italiani, non alle loro partner di colore, perché a essi veniva addossata l’offesa al “prestigio della stirpe”. Tuttavia non era ancora vietato il matrimonio regolare, che infatti verrà proibito soltanto a partire dal novembre del 1938 con l’entrata in vigore delle famigerate leggi razziali, con cui si condannava ogni unione “del cittadino italiano ariano con persona appartenente ad altra razza”.

Nessun provvedimento, invece, fu preso dal regime contro le semplici relazioni sessuali di carattere mercenario. Anzi, si importarono dall’Italia numerose prostitute, evidentemente più ricercate delle disponibili sciarmutte che abbondavano dovunque. Quando i mezzi logistici lo permettevano i reparti militari erano seguiti da case di tolleranza mobili “per Ufficiali” e per “Graduati e truppa”, regolarmente rifornite di meretrici bianche e nere. Soltanto più tardi, quando i postriboli per bianchi furono aperti anche ai neri facoltosi, qualcuno protestò e si pose un freno all’importazione dall’Italia di donne bianche. Questa misura, peraltro vagamente rispettata, fu inoltre causa di un piccolo incidente diplomatico. “Le autorità di Gibuti” racconta Ciro Poggiali nel suo inesauribile diario “hanno impedito che sei etère francesi, provenienti da Marsiglia e reclutate da una lussuosa casa di tolleranza di Addis Abeba, proseguissero il viaggio per la capitale”. Il giornalista continua così:
La ragione è questa: abbiamo tanto vociferato di non volere prostitute italiane in colonia affinché il primo contatto del mondo etiopico con l’Italia non avvenisse con donne da conio, sì insomma per ragioni di prestigio di razza. Allora il governatore francese di Gibuti ha ragionato così: se temete che la prostituzione bianca possa offendere il prestigio della razza italiana, io non posso permettere che sia offesa la razza francese. E le sei, assoldate da una simpaticissima signora marsigliese, famosa organizzatrice di case di tolleranza in tutto l’Oriente, hanno malinconicamente ripreso la strada per Marsiglia.
La legge contro il “madamismo” tuttavia non fece vittime. Venne infatti applicata, come si usa dire, “all’italiana” ossia con larga tolleranza, tant’è che non si hanno notizie di condanne, mentre risulta che molti italiani regolarizzarono la loro posizione riconoscendo persino i figli nati dall’unione con le indigene. Neppure le leggi razziali fasciste furono applicate in Abissinia, anzi suggerirono a Mussolini un ignorato progetto umanitario che merita di essere ricordato.
Come già accennato, nel novembre del 1938, mentre in Germania, Austria e Cecoslovacchia (queste ultime nel frattempo inglobate nel Terzo Reich) avevano avuto inizio le persecuzioni antisemite, anche l’Italia fascista sposò le folli teorie ariane. Di giorno in giorno, per gli ebrei l’aria si faceva sempre più irrespirabile e l’avvenire si prospettava sempre più oscuro. Non restava loro che una soluzione: fuggire. Ma dove? Nessun paese in Europa era disposto ad accoglierli: Svizzera e Francia avevano cominciato a respingere dai posti di frontiera i fuggiaschi, mentre gli americani si stringevano nelle spalle davanti alla mostruosa proposta di Hitler che offriva ebrei liberi in cambio di dollari in contanti. Restava il “sogno” della Palestina, allora sotto il dominio britannico, ma gli inglesi ne avevano sbarrato l’accesso temendo che l’afflusso in massa degli ebrei nella loro “Terra promessa”, ormai islamizzata, avrebbe provocato incidenti con la popolazione musulmana.
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Fu a questo punto che il viceré d’Etiopia suggerì a Mussolini di aprire alla popolazione semita le porte dell’impero. Ottenuto l’assenso del Duce, e l’approvazione del governo di Londra, felice di passare ad altri quella patata bollente, il progetto entrò subito in fase di realizzazione. A metà novembre, proprio nei giorni in cui in Italia venivano promulgate le leggi razziali, Amedeo d’Aosta convocò nella sua residenza di Addis Abeba il colonnello degli alpini Giuseppe Adami, allora capo dell’Ufficio topocartografico dell’impero. Come riferisce lo stesso Adami in un memoriale ancora conservato nell’Acropoli alpina di Trento, il duca gli chiese di individuare “una zona idonea ad ospitare in un primo tempo una colonia di 1400 famiglie ed in un secondo tempo di ospitarne un numero doppio”. Amedeo gli raccomandò “di scegliere un luogo immune da malaria e mosche tze-tze, ricco di acqua, favorito da un buon clima e abitato possibilmente da tribù pagane, perché aprire una sinagoga dove già vi fosse una moschea, sarebbe stato pericoloso”. “Mi aspetto da lei” concluse il viceré “un piccolo paradiso terrestre.”
Adami partì per la sua missione in compagnia del maggiore Gallina e del tenente Silvestri, con la scorta di alcuni ascari. Dopo varie ricerche, l’attenzione della commissione di studio si soffermò sulla zona Neghelli-Ascebo-Iavello, ai confini con il Kenia. Un paesaggio dolcemente montuose che ricordava al colonnello piemontese le Langhe e il Monferrato: “Quota media 1200 metri sul mare, temperatura massima 33 gradi, minima 14. La zona è abitata da tremila Borana, tribù di gente pacifica, che non ruba, non uccide ed è pagana di tipo animista: credono in ottantotto diavoli e nella metempsicosi”.
Il 5 dicembre 1938 Adami consegnò al viceré la sua particolareggiata relazione e questi ne fu molto soddisfatto. Era infatti sicuro che una colonia ebraica in Etiopia non avrebbe creato inconvenienti razziali o religiosi, essendo ben noto lo spirito di tolleranza degli etiopi verso gente di razze, colori e religioni diverse. Contava inoltre sul fatto che l’intelligenza e l’intraprendenza degli ebrei avrebbero certamente avvantaggiato l’economia generale dell’impero. Passarono tre mesi. Nel marzo del 1939, Amedeo, di ritorno da Roma, comunicò a Adami che Mussolini aveva molto apprezzato il suo progetto e che un giorno o l’altro sarebbero giunte le opportune istruzioni per realizzarlo. Purtroppo le cose andarono diversamente. Il 22 maggio l’Italia firmò il patto d’Acciaio con la Germania nazista e del progetto africano non si parlò più. Invece di fondare fra i ridenti pascoli dei Galla Sidamo la loro piccola Israele, anche gli ebrei italiani finiranno nei campi di sterminio nazisti.
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Il 1938 e il 1939 furono comunque gli anni più felici dell’impero. Si spesero fiumi di denaro con la convinzione che la nostra presenza in Etiopia sarebbe durata molto a lungo. Si aprirono nuovi aeroporti, si costruirono case, ospedali, scuole e venne potenziata la rete stradale. Nella sola Eritrea si realizzarono complessivamente 1450 edifici pubblici; la strada Massaua-Addis Abeba, di 1600 chilometri, fu portata a termine in diciotto mesi. Prima dell’arrivo degli italiani, per coprire lo stesso percorso si impiegavano tre mesi a dorso di cammello. La rotabile Kombolcia-Assab, di 480 chilometri, fu approntata in sei mesi. I numerosi coloni stabilitisi nell’impero potevano guardare al futuro con una certa sicurezza. Il ribellismo era stato in gran parte eliminato; restavano soltanto piccoli fuochi di guerriglia e brigantaggio come in qualsiasi altra colonia. Le “buone maniere” del nuovo viceré avevano indotto a capitolare anche i ras più combattivi.
Mussolini, da parte sua, pensava alla grande. Progettava, per esempio, di creare un esercito coloniale di un milione di uomini, con cinquanta aeroporti e un’industria metallurgica atta ad assicurare all’impero una completa autosufficienza. Ora, essendosi definitivamente immedesimato nella parte di stratega e di condottiero vittorioso, non era alieno dall’immaginare imprese napoleoniche. Una delle sue idee fisse, sostenuta peraltro dal duca d’Aosta e da altri personaggi, era quella di liberare l’Africa orientale dalla “servitù del canale di Suez” realizzando il congiungimento con la Libia e il Mediterraneo attraverso il deserto del Sudan anglo-egiziano.
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Si provvide anche allo sviluppo turistico dell’impero. In questa prospettiva il CTI (Consociazione Turistica Italiana) assegnò ad alcune decine di esperti la realizzazione di una Guida dell’Africa Orientale Italiana che costò mesi di lavoro collettivo. Ne sortì poi un volume di 640 fittissime pagine che oggi farebbe la gioia di un appassionato bibliofilo. Rilegato in tela e corredato di carte geografiche, piante dei centri abitati, delle strade, delle piste, nonché di dettagliati cenni storici, geografici e di informazioni sui costumi e le religioni, questo Baedeker italiano risponde con sconcertante dovizia di particolari a tutte le domande che si poteva porre l’eventuale turista. Dall’equipaggiamento necessario (“tenda con zanzariera, toeletta da campo, lanterna con candela o meglio lume a petrolio Petromax, scarpe alte per le signore, stivali per gli uomini, casco di sughero, maglie pesanti per la notte”, ecc.) ai mezzi di trasporto: aerei dell’Ala littoria, camion, cammelli e muletti (“I cammelli possono fare tappe di 30 km e portare fino a 200 kg. I muletti tappe fino a 40 km e portare 70-100 kg”); dalle precauzioni igieniche (“limitare i contatti con gli indigeni, i serpenti velenosi sono rari, eliminare al più presto le pulci penetranti e abbondanti”) al contegno con i nativi (“l’abissino è molto orgoglioso, volubile, dissimulatore e accorto parlatore. Gli eritrei e i somali sono orgogliosi di appartenere da gran tempo all’Italia. Di fronte agli abissini si considerano quasi pari agli italiani. Trattarli come etiopi sarebbe ingiusto e offensivo”); dall’alimentazione (“per l’acqua si consiglia di depurarla con ipoclorito di sodio, oppure versando poche gocce di tintura di iodio per ogni litro”) alle escursioni e alla caccia (“è proibito uccidere: elefanti con zanne di peso inferiore a 15 kg, rinoceronte, asino selvatico, stambecco nubiano, mufloné, pangolino, dugongo, marabù e avvoltoi di tutte le specie. Libertà per le altre specie”).
Di questa interessante e forse unica guida dell’Etiopia ne furono stampati 490.000 esemplari che vennero messi in vendita nell’ottobre del 1938 al prezzo di 18 lire. Non sappiamo quanti volenterosi turisti fecero in tempo a utilizzarla.
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6 pensieri su “La bella Italia XVIII

  1. Un lavoro che non si può non apprezzare per linearità, completezza e dovizia di particolari.
    Questo capitolo, poi, ci regala uno spaccato del tempo che, raccontato con eleganza, offre una finestra ampia e precisa di periodo.
    Grazie milord.
    La seguo

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  2. La figura di Rodolfo Graziani, a cui hanno persino avuto il coraggio di dedicare un sacrario, costato circa 120 mila euro e inaugurato l’11 agosto 2012 ad Affile, in provincia di Roma.

    Un generale fascista da molti considerato eroe di guerra, nonostante il sanguinario massacro di Addis Abeba (secondo fonti etiopiche circa 30.000 morti) e l’uccisione di almeno 1600 preti cristiano-copti, accusati di aiutare i ribelli Etiopi nella rivolta contro la colonizzazione italiana. Venne inserito dall’Onu nella lista dei criminali di guerra per l’uso di gas tossici e i bombardamenti degli ospedali della Croce Rossa, e sterminò migliaia di cristiani, fra cui donne e bambini”.

    Lo stesso genere di efferatezze dibattute durante il processo di Norimberga per la Germania nazista, mentre per i criminali di guerra italiani non c’è mai stato niente del genere, nonostante le esecuzioni sommarie e l’apertura di campi di lavoro forzato e campi punitivi, dentro i quali migliaia di prigionieri persero la vita per denutrizione, acqua inquinata e malattie.

    Lo stesso Graziani venne processato per il solo reato di collaborazionismo coi nazisti, dove venne condannato a 19 anni di carcere per poi scontarne solo quattro mesi.

    IL capitolo è scritto benissimo, Ninni.
    Ma di cosa stiamo parlando?

    Buon sabato

    Alby

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  3. Io trovo che la descrizione dei fatti, da qualsiasi parte arrivi, è sempre da auspicare al mero piegarsi alle mode fasciste o antifasciste.
    Viviamo un tempo in cui l’essere per essere non si vede più.
    Abbiamo un apparire per essere e di questo, in molti, ne fanno tesoro e compiono le più orribili nefandezze.
    Grazie milord per averci regalato una bellezza così bella.

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  4. Caro Antonmaria

    Questo Vostro, un saggio storico davvero completo. Lo dimostra, con alcuni altri, questo capitolo che ci informa di fatti curiosi, aneddoti e storielle che la Storia ufficiale e la maggioranza dei saggi non riportano e che non riguardano i veri e propri fatti politici, magari, alcuni, ne sono conseguenze.
    Grazie, Antonmaria, per la Vostra obiettiva attività di informazione sia si tratti di storia contemporanea, sia si tratti, come nel presente lavoro, di epoche remote.
    Con Stima e Affetto,

    Maria Silvia
    Vostra Sil

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