Mille Aghi III: L’Abito

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L’Abito

— Questo è un caso per te — annunciò con fare disgustato l’ispettore Nynn. — Un altro di quelli strambi.
Io ero in ritardo e con il fiato corto. In James Street ero rimasto chissà come bloccato dall’annuale sfilata dell’Associazione Commercianti del Centro e, per un po’, avevo temuto di dover passare l’intera giornata circondato da giganteschi palloncini, parodie di esseri umani. Ma ci vuole altro che qualche Gulliver di gomma per trattenermi quando l’ispettore Nynn annuncia di essersi imbattuto in uno di quei casi che lui definisce “per Nynn”.
E San Francisco è la città giusta per questo genere di crimini. In nessun altro posto qualcuno ha mai ucciso con un movente come quello del maggiordomo Frank Miller nel 1896, o ha mai realizzato una rapina in banca del calibro di quella del signor Will il sempliciotto, nel 1952. Date un’occhiata a Gli omicidi di San Francisco di Joe Jackson e vi accorgerete che, da queste parti, siamo capaci di creare un’atmosfera particolarissima nella nostra città. E quando succede, Nynn lascia che sia io a occuparmene.
Nynn non aggiunse altre spiegazioni; si limitò ad aprire la porta e io lo precedetti all’interno.
L’appartamento non mi sarebbe dispiaciuto per nulla, non fosse stato per quello che c’era sul pavimento.
Due pareti erano occupate quasi per intero da finestre. Una guardava sul Golden Gate; dall’altra, nelle belle giornate, si potevano vedere i Farallones; quella era proprio una bella giornata.
Lungo le altre due, schiere di dischi e un giradischi. Avevo sentito parlare della collezione Horn, che annoverava le prime incisioni d’opera mai realizzate. Se fossi stato lì per altri motivi, mi sarebbe venuta l’acquolina in bocca alla prospettiva di ascoltare le voci di quei grandi interpreti ormai scomparsi.
— Se riuscirai a cavare qualcosa che abbia un senso da questa storia — grugnì l’ispettore — è tutta tua… al solito onorario.
Il che significava una cena alla pizzeria di Lupo, completa di pizza Caruso, pomodori con basilico fresco e pane francese da intingere nella paradisiaca salsa degli speciali calamari (questo è il termine italiano) di Lupo. Tutto è rimasto come l’abbiamo trovato.
Io guardai l’highball rimasto a metà e ormai quasi privo di colore ora che il ghiaccio si era sciolto. Guardai il piccolo cilindro di cenere che era stata una sigaretta consumatasi da sola. Guardai l’aspirapolvere, un aggeggio dall’aspetto sorprendentemente funzionale in quell’ambiente così lussuoso. Guardai il giradischi, ancora acceso, che effettuava i suoi immutabili settantotto giri al minuto, anche se sul piatto non c’era nulla.
Infine riuscii a guardare di nuovo la cosa sul pavimento.
Era peggio di un corpo. Era una parodia senza sangue e senza alcuna consistenza del consueto occupante del punto che la polizia contrassegna con una X. Trovare indumenti sparpagliati in giro è normale, perfino più normale in un appartamento da scapolo che vedere gli abiti ordinatamente appesi nell’armadio. Ma questo… Sopra il collo della vestaglia c’erano gli occhiali. Le maniche della camicia erano all’interno di quelle della vestaglia. La camicia era abbottonata fino al colletto e sotto di esso era annodata la cravatta a foulard.
Le falde della camicia erano convenientemente infilate nei pantaloni, che avevano la cerniera tirata su e la cintura allacciata. Sotto i risvolti dei pantaloni c’erano le scarpe, disposte in un’angolatura assolutamente naturale, e al di sopra s’intravedeva il bordo delle calze.
— E sotto la camicia c’è la maglietta — mormorò l’ispettore Nynn con aria sconsolata — e un paio di mutande dentro i pantaloni. Non manca niente, c’è tutto quello che avrebbe addosso un uomo ben vestito. Solo che l’uomo non c’è.

Era come se Edward Horn fosse stato aggredito da qualche acido in grado di dissolvere solo la carne, lasciando intatti gli oggetti inanimati. Come se un aspiratore iperspaziale avesse risucchiato l’essere umano lasciandosi dietro solo il suo guscio di stoffa.
— Posso usare un portacenere? — domandai.
Nynn annuì. — Abbiamo lasciato intatta la scena perché tu la vedessi. Ma le foto sono già state scattate. — Mentre accendevo la sigaretta, lui si avvicinò al giradischi e lo spense. — Questa maledetta trottola mi dà sui nervi.
— E tutta questa maledetta faccenda dà sui nervi a me — replicai. — È come una versione striptease del Mary Celeste. Solo che lo spogliarello non ha avuto le caratteristiche di una provocazione graduale; uno schiocco di dita e woosh! un uomo non c’è più. Un attimo prima se ne sta comodamente vestito a casa sua, a fumare, a bere, ad ascoltare dischi. E l’istante dopo è nudo come un verme… e dove e a fare che cosa?
Nynn si tirò la punta del naso, che non aveva alcun bisogno di essere allungato. — Abbiamo chiesto al cameriere giapponese di controllare l’armadio. Non c’è un solo capo di abbigliamento né un accessorio appartenente a Edward Horn che non sia ancora qui, in casa.
— Chi l’ha trovato? — chiesi.
— Kaguchi, il suo cameriere personale. Ieri era la sua serata libera. È tornato solo questa mattina, per preparare il caffè e le uova all’ostrica, come sempre. E ha trovato questo.
— Sangue? — azzardai.
Nynn scosse il capo.
— Visitatori?
— In questo condominio ci sono dieci appartamenti. In tre di essi ieri sera davano una festa. Potete immaginare di che aiuto ci è stato l’addetto all’ascensore.
— La bibita che stava bevendo?
— Ne abbiamo fatto esaminare un campione dal laboratorio. Ottimo scotch e nient’altro.
Aggrottando le sopracciglia, indicai l’aspirapolvere. — Quello che cosa ci fa? Dovrebbe stare nascosto da qualche parte.

— Anche Kaguchi ne è rimasto sorpreso. Ha detto che era ancora tiepido quando l’ha trovato, come se fosse stato usato da poco. Ma abbiamo guardato nel sacchetto e posso assicurarti che Horn non è stato risucchiato là dentro.
— Moventi?
— Un tipetto vivace, il nostro signor Horn. Leggi anche tu la rubrica mondana di Herb Caen? E Kaguchi ci ha completato il quadro. Fratelli, padri, mariti… Una marea di moventi.
— Ma perché in questo modo? — rimuginai. — Liberarsi di lui, d’accordo. Ma lasciare questa buccia vuota…?
— Non si tratta solo del perché, Nynn. Ma del come.
— Il come? Non dovrebbe essere difficile…
— Provaci. Prova a infilare un paio di maniche in un altro paio, le mutande nei pantaloni, in modo che i vestiti cadano senza grinze né pieghe, proprio come se rivestissero un corpo. Io ci ho provato, con gli indumenti del guardaroba. Non funziona.
Mi venne un’idea. — Non bisogna infilarli uno nell’altro — osservai altezzoso. — Ma toglierli. Guardi. — Mi sbottonai il cappotto e la camicia, disfeci il nodo della cravatta e mi tolsi tutto insieme. — Visto? Le maniche sono dentro le maniche. — Abbassai la cerniera e con due passi uscii dalle mutande e dai pantaloni. — Ecco fatto. Le mutande nei pantaloni.
L’ispettore Nynn fischiettava il ritornello di Strip Polka. — Avresti avuto una carriera davanti, Lamb — bofonchiò. — Solo che adesso devi infilare la camicia tra i pantaloni e le mutande e fare in modo che resti ben tesa. E guarda qui. — Prese una scarpa ed estratta di tasca una torcia ne illuminò l’interno. — La calza è rimasta impigliata in una piccola sporgenza di uno degli occhielli di metallo. Ecco che cosa le ha impedito di cadere; dentro è ancora visibile la leggera impronta delle dita. Prova un po’ a toglierti una scarpa allacciata e vediamo se riesci a ottenere lo stesso risultato.
Cominciai a rivestirmi sentendomi maledettamente sciocco.
— Qualche altra ispirazione? — sogghignò Nynn.
— La sola ispirazione che mi è venuta riguarda il dove andare adesso.
— Un giorno o l’altro — grugnì l’ispettore — scoprirò dove vai a procurarti le tue idee superbrillanti.
— Come disse la vecchia signora al guardiano degli elefanti — borbottai in risposta — se glielo dicessi non mi crederebbe.
Il Montgomery Block (Monkey Block per i locali) è un dedalo antico ed esageratamente imponente di uffici e studi sul limitare della Chinatown di Grant Avenue e il quartiere italo-messicano-franco-basco di Columbus Avenue. Lo studio che cercavo era in fondo a un lungo passaggio, oltre l’angolo tutto-americano in cui la sede del quotidiano italiano Corriere del popolo è situata in diagonale rispetto all’ufficio di Tinn Hugh Yu, dottore in filosofia e notaio.

Quel giorno la situazione era relativamente tranquilla nello studio del dottor Verner. Peter Catenich stava ancora lavorando con impegno al suo blocco di marmo, seguendo apparentemente la teoria secondo cui, se la si martella abbastanza di frequente, la forma naturale insita nella pietra prima o poi finisce per emergere. Irma Borigian stava facendo esercizi vocali e di tanto in tanto passava a verificare i propri progressi premendo un tasto del pianoforte, cosa che sembrava rassicurare lei più di quanto tranquillizzasse me. Quei due, più un paio di ragazzetti che non avevo mai visto prima, occupatissimi a tirare di scherma, erano al momento gli unici componenti del Verner Varieties a portata di mano.
Irma ah-oh-ohaaava, sbraitava e impazzava, gli schermidori schioccavano, Peter tempestava di martellate il blocco di marmo e in mezzo a quel terrificante frastuono il Vecchio, in piedi davanti alla sua scrivania-leggio alta un metro e cinquantatré, procedeva risoluto a buttare giù con la sua antiquata calligrafia roboanti periodi di L’anatomia della nonscienza, il mai concluso compendio di curiosità che era per metà Robert Burton e per metà Charles Fort.
Mi lanciò l’occhiata media. Non la frettolosa “solo questa frase” né l’ostile “caro ragazzo, questa pagina deve essere finita”; ma quella intermedia “solo un altro immortale paragrafo”. Afferrai una sedia e mi sforzai di guardare Irma che cantava e di ascoltare Peter che scolpiva.
Impossibile descrivere il dottor Verner. Si potrebbe dire che è di un’età compresa tra i settanta e i cento anni. Si potrebbe dire che ha una criniera bianca come quella di un leone albino e un pizzetto simile a quello di un colonnello del Kentucky che non ha mai sentito parlare dei sigari. («Quando un uomo ha i capelli bianchi» l’ho sentito sentenziare una volta «tabacco e barba sono vizi che si escludono a vicenda»). Si potrebbe anche accennare alla figura imponente e alla mobilità per nulla inglese delle sue vecchie mani candide e allo sconcertante scintillio di quegli occhi incredibilmente azzurri. E ancora la vostra descrizione non sarebbe più soddisfacente di quella secondo cui il Taj Mahal è un edificio a cupola, quadrato, di marmo bianco.
Lo scintillio era nei suoi occhi e la mobilità nelle mani quando alla fine venne a torreggiare su di me. Ma non c’erano più quando ebbi finito di raccontargli dell’appartamento di Horn e dell’uomo vuoto. Per un istante rimase immobile, accigliato, lo sguardo vacuo, le mani inerti lungo i fianchi. Poi, senza muoversi, spianò la fronte e aperta la bocca emise un tonante muggito.
— Tu spaccanote! — ruggì. Irma si fermò e assunse un’aria ferita. — Voi testicoli di pietra! — (Gli schermidori si fermarono e assunsero un’aria speranzosa). — Tu peggiore del peggiore di coloro che hanno pensieri sfrenati e incerti — Peter si fermò e assunse un’aria rassegnata). — Credono di urlare — concluse il dottor Verner con un tubare di colomba, dopo essere passato da una citazione shakespeariana a un’altra con tanta rapidità che io stavo ancora cercando di individuare il punto di congiunzione.
Il Verner Variety aspettava il successivo numero in programma.
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Avvolto in un silenzio maestoso, il dottor Verner marciò verso il giradischi. Quello di Horn era un aggeggio realizzato su ordinazione di tutto rispetto, ma nulla in confronto a questo.
Se credete che sia complicato oggi, con i dischi che vanno a settantotto, a quarantacinque e a trentatré giri, dovreste vedere quelli dei primi del secolo. C’erano cilindri, ovviamente (per quelli Verner disponeva di un’attrezzatura a parte). Invece delle attuali dimensioni standard, i dischi avevano un diametro che andava dai diciassette ai trentacinque centimetri, con tutta una gamma di misure intermedie. Perfino i fori centrali erano di grandezze diverse. Molti dischi non giravano come quelli odierni, ma era la puntina a spostarsi sulla loro superficie; parecchi erano ondulati, con la puntina che andava su e giù invece di procedere lateralmente, un metodo che garantiva una riproduzione migliore ma che, chissà come, non incontrò mai un grande successo. Variava anche il tipo di solco, cosicché se due società utilizzavano entrambe il taglio ondulato, spesso non era possibile suonare i dischi di una su un giradischi progettato per l’altra. E, tanto per complicare ulteriormente le cose, alcuni dischi iniziavano dal bordo interno invece che da quello esterno. Era la Libera Iniziativa portata al delirio.
Il dottor Verner mi aveva spiegato tutto questo mentre mi dimostrava come il suo giradischi potesse tenere testa a qualunque disco mai fabbricato. E con quel congegno mi aveva effettivamente fatto ascoltare di tutto, dalle copie pirata delle esplosioni canore di Crosby a una registrazione del Sestetto originale Floradora che, non mancava mai di sottolinearlo, era un doppio sestetto o, come lui preferiva definirlo, un duodecimetto.
— Sta per ascoltare il soprano più grande del secolo — annunciò con voce lenta. — Rosa Ponselle ed Elizabeth Rethberg erano passabili e si potrebbe dire qualcosa anche in favore di Lilian Nordica e Lena Geyer. Ma ascolti! — E fece scivolare la puntina nel primo solco.
— Dottor Verner — stavo per sollecitare qualche nota a piè di pagina, ma avrei dovuto sapere come andavano queste cose.
— Caro ragazzo…! — mormorò lui in tono di protesta, perfettamente udibile al di sopra dei fruscii preliminari dovuti all’incalzare del tempo, e mi lanciò una strizzatina d’occhio più blu del blu che pareva suggerire come soltanto un imbecille avrebbe potuto non vedere la logica dell’intero procedimento.
Tornai a sedermi e mi misi in ascolto. Anche Irma ascoltava, ma gli occhi degli altri continuavano a posarsi con palese desiderio su scalpello e fioretti. In un primo tempo ascoltai con poca attenzione, ma in seguito finii col protendermi in avanti per sentire meglio.
Ho udito, dal vivo o registrata, la voce di tutti i nomi illustri elencati dal dottor Verner, per non parlare della Tebaldi, della Russ, della Ritter-Ciampi, della Suez e di entrambe le Lehmann. E, seppure con riluttanza, cominciai ad ammettere che aveva ragione: questa era la voce di un soprano. La musica non mi era familiare: l’accompagnamento di una versione latina del Padre Nostro, sicuramente del Diciottesimo secolo e, a lume di naso, opera del Pergolesi; aveva l’espressività distaccata ma reverente che caratterizza il suo approccio alla musica sacra. La grave cadenza sostenuta era l’ideale per valorizzare una voce; e la voce, senza un tremolio neppure nelle note prolungate e con uno stupefacente controllo del respiro, meritava tutta la valorizzazione possibile. Durante una lunga frase di volate, faticosa, pressante come sarebbe stata in un pezzo di Mozart o di Haendel, mi accorsi che per solidarietà Irma aveva trattenuto il respiro insieme con la cantante e che la cantante aveva vinto. Irma si era lasciata sfuggire un ansito pieno di ammirazione prima che il soprano, ancora senza riprendere fiato, arrivasse al termine della frase.

E poi, per motivi più operistici che liturgici, la musica divenne più rapida. Le frasi di legato sostenuto lasciarono il posto a cascate di frivole e leggere infiorettature. Le note spumeggiavano e abbacinavano e la vivacità precipitava dall’aria stessa. Era impeccabile, irraggiungibile… infinitamente scoraggiante per una cantante e quasi traumatizzante per l’ascoltatore medio.
Il disco finì. Il dottor Verner si guardava intorno sorridendo radioso come se fosse lui l’artefice di tutto. Irma andò al piano, pigiò su un tasto per verificare l’incredibile nota e l’ottava alta su cui il canto si era spento, prese i suoi spartiti e uscì.
Peter aveva afferrato lo scalpello e gli schermidori stavano recuperando i fioretti quando mi avvicinai al nostro ospite. — Ma, dottor Verner — feci un cenno con il mento. — Il caso Horn…
— Caro ragazzo — sospirò lui — vuoi dire che non ti sei reso conto di avere appena ascoltato la soluzione?
— Ti fermi per un goccio di Drambuie, naturalmente, vero? — propose in tono formale il dottor Verner quando ci fummo accomodati nella saletta interna, che era quasi tranquilla.
— Naturalmente — risposi. Poi, mentre lui apriva la bocca: — “Perché senza il Drambuie” — citai — “forse il mondo non avrebbe mai conosciuto la semplice soluzione al problema del labirinto truccato.”
Lui rovesciò qualche goccia di liquore. — Stavo per parlarti proprio di questo. Come…? O forse ti ho già accennato a questo proposito?
— Infatti.
— Perdonami. — Ammiccò con fare disarmante. — Invecchio, ragazzo mio.
Con rituale solennità bevemmo il primo sorso di Drambuie. Poi:
— Ricordo bene — cominciò il dottor Verner — era l’autunno del 1981…
… quando l’orrore cominciò. A quell’epoca esercitavo a Kensington e lo studio prosperava come non era mai accaduto con i precedenti proprietari e rendeva anche parecchio di più. Finalmente potevo guardarmi un po’ intorno, contemplare e approfondire i molteplici piaceri che una metropoli al tempo stesso così cosmopolita e così provinciale offre a un uomo giovane e senza legami. Forse la San Francisco dello stesso periodo non era da meno in fatto di qualità; in effetti certe esperienze che ho fatto qui di qualche anno più tardi in relazione allo strano affare della cabala cablografica non sono state insoddisfacenti. Ma un uomo della tua generazione non sa nulla dei piaceri ormai sbiaditi di cinque lustri fa. Le battute umoristiche dei Music Hall, la delizia di un pollo caldo e una bottiglia ben fredda da dividere con una ballerina del Daly’s; il divertimento più semplice e meno costoso di navigare il Tamigi a bordo di un barchino (diviso, devo aggiungere, con una compagna più semplice e meno costosa)… piacevolezze che reclamavano tutto il tempo che potevo sottrarre al lavoro.

Ma più di ogni altra cosa ero appassionato di musica; e nella Londra del 1901 appassionarsi alla musica significava appassionarsi a… Ma ho sempre evitato con cura di inserire in queste narrazioni nomi reali e verificabili. Permettimi per una volta di essere ancora più discreto, la chiamerò semplicemente con l’affettuoso “agnomen” con cui mio cugino, per sua sventura, la conosceva: Bella.
Non c’è bisogno che ti parli di Bella artista; l’hai appena sentita cantare Pergolesi e sai come combinasse umiltà e magnificenza con un’agilità tecnica che questa nostra epoca degenerata associa unicamente a un certo tipo di soprano leggero. Ma devo cercare di descrivertela come donna se donna la si può definire.
In un primo tempo, quando sentii i pettegolezzi che circolavano per Londra, vi prestai poca attenzione. Per l’uomo della strada (e anche per lo spettatore) il termine attrice è tuttora un eufemismo per un altro, più crudo e più volgare, sebbene la mia esperienza di attrici, un’esperienza che si stende su tre continenti e oltre i settanta e passa anni a me concessi, mi spinge piuttosto verso una opposta valutazione.
L’individuo che emerge da branco è il naturale bersaglio della calunnia. Non dimenticherò mai il vergognoso episodio della figliata rapita, di cui il dottor Stookes, il veterinario, accusò me… Ma serbiamo questa assurdità per un’altra occasione e torniamo a Bella. Ero a conoscenza dei pettegolezzi e li attribuivo al semplice motivo cui ho accennato. In seguito, tuttavia, le prove cominciarono ad acquistare proporzioni tali che anche l’individuo più tollerante non avrebbe potuto ignorarle.
Prima, il giovane Ronny Fur-bish-Darnley si fece saltare le cervella. Aveva debiti di gioco, certo, e la sua famiglia preferì incolpare del suicidio questa sfortunata circostanza, ma la sua relazione con Bella era ben nota. Poi il sindaco Maclvers si impiccò con il suo fazzoletto al collo (il tartan del clan dei Maclvers, naturalmente). Non c’è bisogno di aggiungere che Maclvers non aveva debiti di gioco. Ma anche questo episodio sarebbe potuto passare sotto silenzio non fosse stato per un pari dal nome tanto illustre che non oso neppure parafrasarlo e che morì nell’incendio divampato nel suo castello avito. Sebbene al momento del ritrovamento fossero carbonizzati, i cadaveri di sua moglie e dei sette figli rivelarono la goffa fretta con cui lui aveva tagliato loro la gola.
Era come se… che parole usare?… come se Bella fosse una “messaggera” di quello che non abbiamo ancora imparato a chiamare Desiderio di Morte. Gli uomini che arrivavano a conoscerla troppo bene non aspiravano più a vivere.

Fine prima parte di due …

9 pensieri su “Mille Aghi III: L’Abito

  1. Ho letto molto velocemente e mi scuso, caro Ninni.
    Questa prima parte è semplicemente stupefacente.
    Genialissima l’idea del “corpo sparito”.
    Come la descrizione dell’abito.
    Me lo rileggo ancora una volta sai?
    Grazie.
    Che incarico che ti sei preso, ma la tua genialità saprà sopperire al meglio.
    Farà parte di una raccolta che pubblicherai su Arnoldo Mondadori?
    I tuoi tre romanzi, sempre per la Mondadori, li ho gustati benissimo. Veramente bellissimi.
    Grazie Ninni.
    Rileggerò tutto

    Ciao
    M.

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  2. Milord la descrittività, in qusta prima parte, è il tuo cavallo di battaglia.
    Lo rilegerò anch’io.
    E’ bellissimo.
    Ma proprio bello.
    Un grande grazie Milord.
    Lo rileggo con più attenzione, te lo giuro…

    Eleonora
    🙂

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  3. È sempre così coi Tuoi racconti, Antonmaria: si legge e si annulla tutto intorno perché, leggerTi, è sempre così coinvolgente da calarsi nelle scene raccontate. È un gran Talento questo Tuo riuscire a rendere quasi filmate le situazioni che narri. E qui ci descrivi una situazione di surreale ipotetica scena di crimine in cui gli oggetti trovati stridono tra loro, facenti sfondo ad un cadavere mancante da un impeccabile vestito.
    Difficile ancora per me trovare una soluzione al giallo, dunque attendo con impazienza il seguito.
    Sei formidabile, geniale, Antonmaria.
    Quelli passati a leggerTi, son sempre momenti bellissimi.
    Con tanta Stima e profondo Affetto.

    Maria Silvia
    Tua Sil

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  4. L’intrigo della storia parte da un assurdo: l’assenza, totale, del cadavere.
    In tutte le giurisprudenze del mondo se manca il cadavere non v’é delitto.
    Qua, però, caro Ninni ci sottoponi uno dei dubbi che, iperrealistici, costellano la tua produzione molto spesso.
    E se … la traccia, per la soluzione, è data da una “non traccia”?
    Ecco che il cervello si mette in funzione. Anzi, si deve mettere in funzione per risolvere l’enigma angoscinte.
    Chi ha ucciso chi, come lo ha fatto e soprattutto: il morto dov’é…

    Ecco che ho assistito ad una analisi di periodo e letterale delle emozioni volte a ricostruire una situazione, proprio per districarla.
    Inutile sottolineare che attendo, affamata, la seconda parte.
    Grazie per questa chicca, per questa pietra preziosa.
    Ti confesso che ne ho sentito la mancanza.
    Arnoldo Mondadori è diventato, e a ragione, l’Editore che punta alla qualità.
    Ciao Ninni e buona domenica

    Isy

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  5. E qui l’alba mi coglie impreparato.
    Si, avevo letto l’annuncio, ma non credevo che fossi così veloce, così pronto a pubblicare.
    Ninni milord le tue liriche, e che racconti poi, sono sempre bellissimi.
    Aspetto la seconda parte.
    Mi ha interessato da subito.
    Grazie e buona domenica

    Dudù

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  6. Questa, per me, è un’esperienza nuova. Intendo dire : seguirti in un excursus su storie e passione per l’arte della scrittura.
    Ci conosciamo personalmente e non ci conosciamo mai.
    Leggo di poesie, racconti e romanzi e mi chiedo, domandandomelo, della differenza che passa tra la vita quotidiana e l’intimità di questo Blog dove ti vedo, sempre a tuo agio, e dove (ma questo è chiaro) riservi, riservandoceto, i momenti più belli della tua sctittura.
    te lo confesso: rimango affascinata da questo tuo modo di essere dove, l’intimo ninni, non è poi molto discoste dal Ninni pubblico anche se le differenze sono, quasi, sostanziali.Leggo di questo racconto, prima parte di un discorso iperrealista che fa, erò, riflettere.
    Un racconto che parte dall’antiracconto.
    Chi si sognerebbe mai, infatti, di parlare e affrontare certe tematiche senza che possa essere presente il soggetto?
    Parlo del cadavere.
    Il tuo genio è all’opera e mi lascia assolutamente incantata.
    Ninni Milord dai mille e mille aspetti e poliedricità che affascinano.
    Ne sono felicissima, anche, di vedere che i tui fans di danno il giusto rispetto e la giusta misura su quello che crei.
    Ti leggo sereno e pieno di verve.
    Ne sono felice per te e per quello che, mi è sembrato di intravedere, una soddisfazione “finalmente” sopraggiunta.
    Sono incuriosita dal leggere la seconda parte.
    Mi unisco agli altri (ma con un dovuto e rispettosissimo passo indietro davanti “all’unica”) e mi metto in attesa.
    Non fare passare molto tempo altrimenti mi costringi a usare il fucile.
    Ciao Nì, buongiorno.

    Babi

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