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Genocidi statunitensi: I nativi d’America.
Quando si parla di Guerre indiane, l’attenzione degli storici statunitensi si sposta immediatamente verso quella lunga serie di conflitti prima tra i coloni, principalmente di estrazione europea, e le tribù indiane dell’est, poi, con la nascita degli Stati Uniti, tra quegli stati e i popoli nativi in genere (chiamati in genere “Indiani d’America” o “pellerossa”), ma sopratutto quelli collocati ad ovest del Mississippi.
Alcune delle guerre principali furono provocate o presero spunto da una serie di discutibilissimi atti legislativi del Parlamento degli Stati Uniti o dei governi di alcuni stati. Sicuramente è da ricordare, per le enormità in esso contenute, l’Atto di Rimozione degli Indiani, unilateralmente promulgato e pesantissimo per le conseguenze che finì per scatenare.
Dalla colonizzazione europea dell’America del XVIII secolo fino al massacro di Wounded Knee e alla “chiusura” della frontiera nel 1890, le Guerre Indiane hanno portato alla conquista, alla decimazione, all’assimilazione delle nazioni indiane, e alla deportazione di tutte le tribù nelle riserve indiane.
Con le guerre indiane si sono manifestati certi tratti culturali che hanno formato la solida base della discriminazione razziale su base etnica e del razzismo che affliggeranno gli Stati Uniti da quel momento fin tutto il XX secolo. Lo studioso Russel Thornton, utilizzando informazioni governative americane e altre collegate al censimento del 1894, ha elaborato alcuni dati ricavando alcune stime secondo le quali dal 1775 al 1890 almeno 45.000 indiani e 19.000 bianchi avrebbero perso la vita. Questo suo calcolo include anche donne, vecchi e bambini, poiché i non-combattenti spesso perivano durante gli scontri di frontiera e la violenza dei combattimenti non risparmiava, né da una parte né dall’altra, le loro vite. Altre elaborazioni contemporanee, invece, hanno prodotto numeri enormemente superiori e assolutamente impressionanti. Ormai si dice che tra i cinquanta e i cento milioni di nativi americani hanno perso la vita tra il 1494 e il 1891 e questo consente di classificare la “Conquista delle Americhe” come il più grande genocidio della storia dell’umanità.
Ho voluto dare particolare rilievo agli eventi che hanno caratterizzato la vera e propria conquista del west, per cui con questo articolo mi limito alle guerre indiane che si sono succedute ad ovest del Mississippi a partire dal 1830 e fino al 1890, anno del massacro di Wounded Knee e della cosiddetta “Chiusura della Frontiera”. Parlo della questione “guerre indiane” limitandomi ad una rappresentazione parziale degli innumerevoli conflitti. Di tutto ciò che manca, però, parlerò in altri articoli in maniera più completa.
Come era già accaduto a est, l’avanzata dei coloni verso ovest, le grandi pianure e le alture occidentali causò in brevissimo tempo dei contrasti insanabili con le popolazioni indiane che vivevano nelle zone che venivano attraversate dai flussi migratori. Furono molte le tribù che scelsero il sentiero di guerra contro i bianchi, dagli Ute del Gran Bacino ai Nez Perce dell’Idaho, ma tra tutti i Nativi, i gruppi che opposero la resistenza più tenace e feroce alla spinta espansionistica degli Americani furono i Sioux ed i Cheyenne a nord e gli Apache e i Comanche a sud-ovest.
I Sioux erano ottimi cavalieri e, quindi, particolarmente abili nelle battaglie a cavallo. Erano guidati da capi guerrieri risoluti, come Nuvola Rossa (Red Cloud) o Cavallo Pazzo (Crazy Horse) la cui autorità era strettamente collegata alla loro condotta e al carisma. I Sioux erano arrivati in tempi recenti nelle pianure provenendo dalla immensa regione dei Grandi Laghi, ma impararono prestissimo a domare, a montare e usare superbamente i cavalli e da quel momento si mossero verso ovest riuscendo a sconfiggere ogni tribù che incontravano sul proprio cammino, diventando così temibili ed esperti guerrieri.
Gli Apache, stretti tra le altre tribù indiane e la temibile presenza dei Messicani, praticavano l’arte della guerra prevalentemente in zona aride e ricche di canyon. Anche tra gli Apache c’erano molte differenze tra i diversi raggruppamenti che del ceppo principale facevano parte. La stessa collocazione in un’area piuttosto che in un’altra del sud-ovest determinava lo sviluppo maggiore di aggressività o di bellicosità. La loro economia prevedeva l’allevamento di animali, la coltivazione sporadica di vegetali, la caccia, ma una parte importante era costituita dalle razzie che colpivano indifferentemente le altre tribù indiane e i villaggi dei Messicani.
Verso la metà del XVIII secolo alcuni raggruppamenti di indiani delle grandi pianure arrivarono fino in Texas e lì gli scontri con i nuovi arrivati, i coloni europei, non tardarono a svilupparsi e proliferare. Il Texas, però, divenne anche meta per un gran numero di anglo-americani migranti che si insediarono intorno al terzo decennio del XIX secolo. Da quel momento in poi, per una cinquantina d’anni, ci furono molti confronti armati che videro opposti principalmente i Texani, civili, militari, miliziani e volontari, ed i Comanche. Tra le tantissime scaramucce, la prima vera battaglia fu quella del “massacro di Fort Parker” del 1836. In quella circostanza un gruppo molto numeroso di guerrieri Comanche, Kiowa, Wichita e Lenape attaccò i coloni stabilitisi nel forte, uccidendone alcuni. Nonostante il relativo basso numero di bianchi che persero la vita in quella battaglia, si sviluppò una vampata di rabbia mista a vero odio indirizzata contro gli indiani, aggiungendo alle motivazioni tipiche della frontiera western anche il rapimento, avvenuto durante l’attacco indiano, di una giovane donna, Cynthia Ann Parker.
La Repubblica della stella solitaria, il Texas, ottenne l’indipendenza solo a seguito di una sanguinosa guerra contro la madrepatria originaria, il Messico. Per gli indiani che vivevano nel Texas, però, le cose peggiorarono ulteriormente. Il governo, guidato dal presidente Sam Houston, iniziò una nuova relazione con gli indiani attraverso una seria politica di cooperazione con i Comanche ed i Kiowa. Ma la cosa non andò molto avanti negli anni… Un fraintendimento, invece, guidò la politica nei confronti dei Cherokee, presso i quali Sam Houston aveva vissuto per un po’ di tempo. I Cherokee diedero l’idea di essersi schierati per il Messico ai tempi della guerra per combattere la nuova ed inesperta repubblica texana. Questo era inaccettabile, ma Houston risolse il conflitto senza ricorrere alle armi, rifiutandosi di credere che i Cherokee avessero potuto attaccare proprio il suo governo!
Le cose volsero al peggio (per i Nativi) sotto l’amministrazione di Mirabeau Bonaparte Lamar – che fu eletto subito dopo Houston – che attuò una politica decisamente differente nel rapporto con gli indiani. Sotto Lamar la repubblica texana tentò di trasferire i Cherokee più ad ovest e riuscì alla fine ad avere la meglio. Una lunga serie di battaglie (con tutto il ben noto corollario di razzie) avvenne in seguito al tentativo di deportare i Comanche ed i Kiowa. Il primo grave scontro fu la battaglia di Council House in cui, durante un colloquio di pace, vennero sequestrati a sorpresa alcuni capi di guerra Comanche, evento che scatenò subito dopo la “Grande Incursione” del 1840 ed alla battaglia di Plum Creek.
Il governo di Lamar rimase famoso per la sua politica nei confronti degli indiani costosa e assolutamente insoddisfacente. Va sottolineato che nei quattro anni di gestione Lamar i costi per le guerre sostenute superarono nettamente le entrate annuali, mettendo in seria difficoltà la gestione finanziaria del nuovo Stato.
Fece seguito il ritorno di un governo guidato da Sam Houston che immediatamente riprese una politica più diplomatica ed assicurò al Texas ed ai Texani una serie di trattati con tutte le tribù indiane dell’area, compresi i bellicosi e temutissimi Comanche.
Nel 1846 il Texas si integrò agli Stati Uniti e, a sorpresa, gli anni che andarono dal 1856 al 1858 furono particolarmente sanguinosi sul fronte texano a causa del massiccio spostamento dei coloni all’interno della terra Comanche, la grande ed inviolata Comancheria. Seguirono dolorosissimi scontri che posero fine alla resistenza del popolo Comanche. Ci furono la Battaglia di Little Robe Creek e la spedizione di Antelope Hills nel 1858, le quali rappresentarono un durissimo colpo proprio nel cuore della Comancheria.
Ulteriori scontri e vere e proprie battaglie tra i coloni e gli indiani continuarono e nel 1860, durante la Battaglia di Pease River, le milizie texane distrussero un campo indiano scoprendo in seguito di aver recuperato la famosa Cynthia Ann Parker, quella ragazzina che era stata rapita dai guerrieri Comanche nel 1836. Cyntha tornò a vivere con la famiglia d’origine, i Parker, ma perse i suoi figli, uno dei quali, Quanah Parker, divenne in seguito un notevolissimo capo tribù dei Comanche. Lo stesso Quanah Parker, però, nulla poté contro lo strapotere militare degli Stati Uniti e dopo la prima battaglia di Adobe Walls dovette arrendersi alla schiacciante superiorità bellica del governo americano e, nel 1875, stabilirsi in una riserva nel sud-ovest dell’Oklahoma.
Il conflitto tra bianchi ed indiani continuò anche durante la guerra di secessione, nonostante quasi tutta l’attenzione del governo unionista fosse chiaramente riposta sul fronte bellico col Sud ribelle. La guerra coi Dakota del 1862 (chiamata anche “Grande Rivolta Sioux del 1862”) fu il primo grande scontro tra gli Stati Uniti ed i Sioux. Dopo sei settimane di battaglie nel territorio ancestrale del Minnesota, condotte per la maggior parte dal valoroso e astuto capo di guerra Piccolo Corvo, si registrarono più di 500 morti tra soldati e coloni statunitensi.
La consistenza delle perdite Sioux nella grande rivolta non fu documentato, ma dopo la guerra ben 303 indiani furono accusati di omicidio e rapina da un tribunale statunitense e condannati a morte per impiccagione. Molte tra queste condanne vennero commutate in carcere, ma il 26 dicembre 1862 a Mankato, una cittadina del Minnesota, si andò ad effettuare quella che a tutt’oggi resta la più grande esecuzione di massa nella storia degli Stati Uniti, con l’impiccagione di 38 guerrieri Sioux.
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Nel 1864 invece avvenne una delle battaglie con gli indiani che fu ricoperta di infamia non appena se ne conobbero i contorni precisi. Parliamo del Massacro del Sand Creek. In quell’occasione un distaccamento di milizia locale attaccò un villaggio di indiani Cheyenne ed Arapaho situato nel sud-est del Colorado ed uccise e mutilò indistintamente uomini donne e bambini. Gli indiani che si erano accampati lungo le rive del fiume Sand Creek avevano avuto rassicurazioni dal governo degli Stati Uniti che avrebbero potuto restare dov’erano vivendo tranquillamente nella loro area, ma quelle rassicurazioni non furono sufficienti a placare il crescente odio dei bianchi nei confronti dei nativi a causa delle molte razzie e degli scontri che aveva incendiato tutte le praterie meridionali. I politici americani, pressati sopratutto dall’indignazione dell’opinione pubblica dell’Est, diffusero un appello pubblico contro altre carneficine nei confronti degli indiani, ma esso cadde decisamente nel vuoto…
Nel 1875 l’ultima vera guerra Sioux scoppiò quando la corsa all’oro nel Dakota arrivò alle Black Hills (Colline Nere), territorio sacro per quegli indiani. L’esercitò statunitense non precluse veramente ai minatori l’accesso alle zone di caccia Sioux, rendendo intollerabile la situazione per gli indiani che erano stretti tra il non dover aggredire i bianchi e il non essere difesi nel proprio diritto dai soldati. Non solo, l’esercito venne anche chiamato ad attaccare alcune bande che stavano cacciando nella prateria, come peraltro era loro diritto in base ai trattati allora in vigore…
Nel 1876 dopo un’organizzazione meticolosa di una campagna contro gli indiani chiamati “ostili”, il Generale George Armstrong Custer trovò l’accampamento principale dei Lakota Sioux e dei loro alleati nei pressi del fiume Little Bighorn. Nella battaglia che prende il nome da questo fiume, Custer ed i suoi uomini, i quali si erano separati per motivi strategici dal resto della truppa, furono annientati dagli indiani che vantavano una netta superiorità numerica nonché un vantaggio tattico dovuto alla precipitazione del generale nello scatenare l’attacco.
Nel 1890, nella riserva settentrionale dei Lakota, a Wounded Knee nel Dakota del Sud, il rituale della “Danza degli Spettri” (Ghost Dance) portò l’esercito a tentare di sottomettere i Lakota. Durante l’assalto vennero uccisi più di 300 indiani, per la maggior parte anziani, donne e bambini. Fu l’ultima, inutile strage.
Tuttavia, già molto prima di questo evento erano già state eliminate le basi per la sussistenza sociale delle tribù delle Grandi Pianure, con lo sterminio quasi completo, nel corso degli anni ’80, dei bisonti con una caccia tanto indiscriminata quanto studiata a tavolino con lo scopo di indebolire gli indiani e renderne inutili le migrazioni.
Le guerre indiane del sud-ovest si svolsero sostanzialmente dal 1846 al 1895. Tutte le tribù indiane di quella vasta area geografica, ad eccezione dei Pueblo, furono coinvolte, volenti o nolenti, nei conflitti; nella gran parte dei casi queste battaglie furono un seguito della guerra precedente, la guerra d’indipendenza messicana.
Per vari decenni le tribù indiane rimasero coinvolte sia nei commerci che nelle battaglie con i vari coloni stranieri finché tutto il territorio del sud-ovest, comprendente gli attuali stati di Colorado, California, Utah, Nevada, Wyoming e Nuovo Messico, venne annesso agli Stati Uniti a danno dei messicani tra il 1848 ed i 1850.
Tra tutte le guerre indiane della zona, quelle che coinvolsero i Navajo e gli Apache, con tutto il carico di drammaticità che oggi conosciamo, sono le più studiate, ma non furono le uniche.
La più grande campagna statunitense nel sud-ovest coinvolse 5.000 soldati e costrinse, nel 1886, Geronimo e i suoi guerrieri Apache ad arrendersi.
Vennero tutti trucidati.
Gli Yankees non facevano prigionieri, ma schiavi indiani ogni tanto.
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Non accetto lezioni di pace o pacifismo dai signori statunitensi.
Parlano dei genocidi degli altri!
Tsé.
Cordialità
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It’s really.
Ritornerò.
Grazie caro Ninni
Theresa Elizabeth
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Theresa Elizabeth Warren
Grazie per esserci
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Lo sterminio dei Nativi Americani iniziò nel 1610 e proseguì fino al 1890 concludendosi con il massacro della popolazione dei Lakota nel Sud Dakota.
Secondo le ultime stime si parla del 90% della popolazione .
Non accetto alcuna lezione dalle pance blu.
Grazie Ninni
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Franci Mira
Lo sterminio degli indiani d’america: la Shoah negata
A New York, a pochi passi dal Memoriale dell’Olocausto, sorge il museo dei nativi americani, ma lì i conti non tornano
Abbiamo ucciso, stuprato, torturato, umiliato e oppresso.
Nel corso della storia, abbiamo agito peggio delle bestie in numerose occasioni. In qualità di uomini, abbiamo deciso di ricordare; di non dimenticare il male che siamo in grado di farci l’un l’altro, lo stesso dolore che oggi più che mai infliggiamo ai nostri fratelli.
Grazie
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Nel 1500 circa 80 milioni di abitanti occupavano il nuovo mondo e nel 1550 sopravvivevano solo 10 milioni di indigeni.
In Messico c’ erano circa 25 milioni di persone nel 1500 e nel 1600 solo 1 milione di indigeni mesoamericani erano ancora vivi.
Quindi si parla di circa 90 milioni di morti.
Ma come è potuto accadere tutto questo?
Perché?
Gli assassini parlano con lo slang degli stati dell’Unione.
Grazie Ninni, davvero
Gab
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Iosif Dzugasvili
A Battery Park, sulla punta meridionale di Manhattan, troverete il Memoriale dell’Olocausto.
Una toccante raccolta di immagini in bianco e nero, a tutti tristemente nota dai tempi della scuola elementare, precede la sezione che tratta l’argomento di Israele in quanto stato e nazione.
A pochi passi dal Memoriale troverete anche il museo dei nativi americani, gli indiani d’America, e con una spolverata di preparazione storica vi accorgerete che i conti non tornano.
Perché decidiamo di ricordare solo certi aspetti del terrore?
Interi capitoli di storia vengono silenziosamente ritoccati, rivisitati o semplicemente dimenticati a seconda delle necessità del momento.
Grazie
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Le cause di una tragedia di così ampie dimensioni sono molteplici, ma la principale fu la sete di potere e la bramosia di ricchezza degli europei sbarcati in America, si parla di persone che erano per lo più avventurieri senza scrupoli e che con tutti i mezzi cercarono di far fortune a scapito degli indigeni che invece non avevano la minima idea di cosa gli stava accadendo.
Grazie a te Ninni e al tuo senso di giustizia se sei riuscito a ri-sollevare il problema verso un popolo che sembra smemorato…
Grazie
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Maria Luisa Ranieri
Le cause di una tragedia di così ampie dimensioni sono molteplici, ma la principale fu la sete di potere e la bramosia di ricchezza degli europei sbarcati in America.
Si parla di persone che erano per lo più avventurieri senza scrupoli e che con tutti i mezzi cercarono di far fortune a scapito degli indigeni.
Quegli stessi indigeni che non avevano la minima idea di cosa gli stava accadendo.
Grazie
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Leggendo questa pubblicazione, la mia prima riflessione è su un controsenso: come gli USA, che si incensano quale potenza più democratica e mirante alla stabilizzazione della pace interna ed internazionale, possano avere a loro carico il più grande genocidio di tutti i tempi “100 milioni di nativi vennero trucidati e persero per sempre la loro terra madre”.
A non voler far ricadere sui figli le colpe dei padri, però è impossibile, anche ai nostri tempi, non rilevare quanto gli USA dimostrino essere potenza guerrafondaia ingerente, col pretesto della pace, ovunque nel mondo. Ricordo con fastidio il Nobel per la pace conferito a Obama per gli intenzionali programmi; abbiamo visto in pratica quale merito ne abbia avuto, del prestigioso riconoscimento.
Tante falsità sono state portate a giustificazione di tanto orrore e, proprio con le guerre indiane, gli USA si dimostrarono razzisti: fu abominevole che i genocidi furono addirittura ratificati per legge.
Io non penso che tutti sappiano la realtà proprio come sia stata. Io, personalmente, Ti ringrazio Antonmaria, per aver dettagliato lo sviluppo dello scempio a carico dei Nativi.
Io non trovo mai, in generale, senso alle guerre. In quest’ occasione, mi vien da riflettere che chiunque venga su questo mondo abbia diritto alla sua terra dove gli capiti di nascere per atavica generazione.
Giustifico la causa degli indiani ad accanirsi per difendere la propria terra madre e le proprie risorse di sostentamento; non riesco altrettanto con gli Stati Uniti che non hanno avuto umanità, tolleranza e la giustizia di valutare che, esseri della propria stessa natura, dovessero avere il diritto di mantenersi la propria terra.
Chiudo con tanta tristezza perché tanti scempi del passato non hanno avuto neppure l’ utilità di evitare nel futuro le guerre.
La vita è un bene inestimabile, a nessuno dovrebbe essere dato di privarlo ad un proprio simile. Non ci sono cause a valerne la giustificazione.
Grazie, Kren. Lodevole il Tuo impegno per la tutela della Giustizia, sempre; in questo caso specifico, per non voler far finire nel dimenticatoio ingiustizie compiute e che, dal passato, dovrebbero servire da monito per il presente.
Sei Immenso, mio Caro Kren.
Maria Silvia
Tua Sil
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Maria Silvia
La collezione prevede colorati capi d’abbigliamento, collanine, pipe da fumo e un’imponente collezione fotografica testimoniante l’unione tra la cultura pellerossa e quella americana: indiani che servono nell’esercito degli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale al Vietnam, indiani che tornano a casa in una bara con la bandiera a stelle e strisce; indiani che giocano a baseball, indiani che si esibiscono in danze rituali.
Camminando tra i corridoi del museo, che occupa il primo piano del gigantesco palazzo della dogana di inizio secolo, non ci si può che sentire un po’ presi in giro.
L’incontro tra l’uomo bianco e i nativi americani, dalla Patagonia all’Alaska, è risultato in un numero tra i 50 e 100 milioni di morti.
Si parla di una decina di Shoah una dietro l’altra.
Molti di loro sono morti a causa delle malattie trasmesse dai primi europei sbarcati nel nuovo mondo, e questi sono probabilmente i più fortunati. Non hanno dovuto assistere alla distruzione del proprio popolo e della propria cultura, subendo morti truculente combattendo contro un nemico invincibile.
In tutto il museo non si parla di morte e distruzione, di numeri e di fatti.
L’intera faccenda è presentata come una lezione di preistoria, quando la realtà è che lo sterminio degli indiani d’America è estremamente recente.
I figli degli indiani d’America, i pochissimi rimasti, vennero prelevati dalle loro comunità e mandati a vivere con famiglie di bianchi fino agli anni ’60 del secolo scorso. Il governo ha fatto di tutto per “americanizzare” la manciata di nativi rimasti, completando il genocidio iniziato qualche generazione prima.
Attraversando l’America dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico, ci si può imbattere in numerose statue dei responsabili di tale genocidio: i presidenti Andrew Jackson e Ulysses Simpson Grant,
Questi ultimi, primi tra tutti, furono ferventi sostenitori delle guerre d’espansione, conducendo una politica di vero e proprio sterminio.
È un po’ come se ci si imbattesse in silenziose statue di Gengis Khan e Heinrich Himmler.
La storia viene completamente ribaltata quando si parla del generale (Che poi era un Tenente Colonnello) George Armstrong Custer e del “massacro di Little Big Horn”.
Custer è riconosciuto da molti storici come la quintessenza del gangster americano; stupratore incallito, era solitamente accompagnato da un gruppo di squaw indiane, catturate in violente scorribande, per riscaldarsi la notte.
George Armstrong Custer è passato alla storia come un valoroso guerriero, morto dopo una coraggiosa battaglia contro una tribù di Sioux selvaggi a Little Big Horn.
La verità è tutt’altra: Custer e i suoi si fecero cogliere di sorpresa da Toro Seduto e Cavallo Pazzo che inflissero al reggimento una clamorosa sconfitta.
A Little Big Horn, i pellerossa vinsero una battaglia contro l’oppressore.
Visitando il luogo della battaglia nello stato del Montana, si potranno ammirare diverse lapidi che ricordano il sacrificio di Custer e del suo reggimento di cavalleria.
È un po’ come se oggi, visitando il luogo della rivolta del ghetto di Varsavia, ci si imbattesse nelle lapidi che ricordano il valore delle SS.
Tra le colorate collane e mocassini Lakota in mostra al museo fanno capolino timide scritte sul muro, citazioni dei pellerossa appartenenti alle varie tribù (o nazioni) trattate. L’incontro con l’uomo bianco e il conseguente sterminio è presentato come un evento naturale: “il mio popolo si è sciolto come la neve al sole…”, “è arrivata su di noi una tempesta!” e via dicendo.
È difficile non accorgersi di quanto la storia sia stata adattata all’esigenza del governo americano, uno dei primi che ha avuto successo nel distruggere completamente un intero popolo per poi presentare l’intera faccenda come un qualcosa accaduto in tempi immemori.
È rimpiazzare la “storia scomoda” con la “storia utile”, non c’è memoria laddove non serve.
Non c’è un angolo del museo che parli di sterminio, di umiliazione e di distruzione culturale.
Non viene trattato l’annientamento dei metodi di sussistenza dei pellerossa e la loro conseguente schiavitù verso l’uomo bianco e i suoi strani modi di vivere.
Sono stati uccisi un numero tra i 30 e i 60 milioni di bisonti delle pianure solo in Nord America, una delle fonti principali di cibo e vestiario per le tribù indiane.
Questo ha causato il totale soggiogamento dei pochi nativi scampati allo sterminio.
Niente di tutto questo viene discusso al museo dei nativi americani di New York.
Perché il 27 gennaio commemoriamo la Shoah, mentre il resto dell’anno insabbiamo genocidi immensamente più grandi?
Muri di fotografie in bianco e nero, dentro i campi di concentramento nazisti, ricordano alcune vittime dello sterminio: gli sterminati siamo noi.
Sono foto di bianchi, di europei, che ci ricordano la vecchia foto della nonna di quando era giovane.
Volti sorridenti di altri tempi, ma non di un altro mondo.
La sensazione di essere stato esposto sin da bambino ad una sola memoria inizia a impadronirsi di me davanti alle foto degli scheletri viventi dei campi di concentramento.
È la solita divisione tra “noi” e “loro”, l’infinita guerra causata dal fatto che ancora oggi non ci riferiamo alla razza umana come un’unica entità.
Oggi più che mai siamo in grado di condurre guerre d’invasione e di oppressione, siamo in grado di sottrarre la terra degli altri proprio perché sono “gli altri”.
Nel 2017 trattiamo la storia come uno strumento per pulire la nostra coscienza, più sporca che mai.
Se ancora oggi siamo in grado di perpetrare certi crimini contro noi stessi e contro il nostro pianeta, forse il “giorno della memoria che si vuole ricordare”, ovvero la memoria istituzionalizzata, non è stato sufficiente.
Grazie
Con tantissima stima e ammirazione
Kren
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Geniale e giusto come non ti avevo letto mai.
Bellissimo commento
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Ottimo.
Vale pure come commento all’articolo principale.
BRAVO
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Due minuti per significarLe tutta la mia approvazione
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le sue letture, comprensive di commenti come questo sono, sempre, il passagio verso le più alte vette del senso umano.
Grazie
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SEI DIVINO.
IL CIELO E CENTOMILIONI DI MORTI OSSERVANO.
GRAZIE NINNI
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Ormai, Kren, non dovrebbe più sorprendermi il Tuo Essere l’ immensità delle virtù più belle che possano appartenere ad una persona, invece eccomi ancora a leggerTi con stupore. Spicca, qui, il Tuo senso di Giustizia che Ti muove a divulgare la verità ove ci siano tentativi di sabotarla per convenienza di qualcuno. In questo caso, quelli relativi il genocidio dei Nativi d’ America, è vera vergogna.
Ci parli del museo degli indiani d’ America di New York che non rappresenta una memoria onesta sugli stessi. Una collezione di reperti che non capacita il visitatore disinformato della travagliata storia dei Nativi, conclusasi col genocidio più efferato di tutti i tempi: cento milioni di morti, immolatisi per la più giusta delle cause: difendere la propria terra, loro dimora e fonte di sostentamento.
Sono amare le Tue riflessioni, compresa quella che non esista una commemorazione per tutte le vite distrutte, non solo Nativi combattenti ma anche indifesi bambini donne e anziani. Benissimo hai fatto Tu a parlarne, hai dato loro voce, li hai resi eroi.
Direi che la pregiata risposta che mi hai riservata è a pieno titolo un seguito dellla pubblicazione principale. Una lettura che, almeno per quel che mi riguarda, rimane nel cuore. Grazie per così tanto.
Ti Stimo e Ti Voglio bene sconfinatamente.
Tua Sil
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Ecco un articolo la cui bellezza è grande e di pregio.
Una bellezza che trascende qualsiasi parola, che lascio a chi sa scrivere meglio di me.
Grazie Ninni con profonda riconoscenza.
Ciao
Annelise
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Malgrado le politiche di assimilazione, la cultura animista-ecocentrica dei nativi sopravvisse a quella antropocentrica dei colonizzatori.
Perché?
Perché l’uomo bianco sottovalutò la forza del legame tra gli indiani e la loro terra e non comprese, né si sforzò di farlo, quanto fossero radicate in loro tradizioni e religione.
Onore alla memoria
Per la maggior parte degli storici europei dell’epoca, gli indiani furono un ostacolo e una minaccia all’espansione pacifica dell’uomo bianco, nonché provocatori di violenze di frontiera.
In realtà, quell’espansione non fu né pacifica né tanto meno “onesta” se si considerano gli accadimenti
(non ultimo gli assassinii dei capi indiani trucidati a tradimento nel contesto delle trattative di pace, come il grande Mangus-Colorado, Apache, al quale fu staccata la testa).
Chi ha reso giustizia alla memoria dei nativi?
Di certo non il cinema politically correct.
E’ stato con la beat generation degli anni ’50 e il flower power degli anni ’60 che si è avuta una revisione della loro storia.
Da non dimenticare, inoltre, il ruolo che hanno svolto i fumetti.
Oggi, però, sciolgo un plauso verso l’unico che si è palesato in difesa di quei diritti umani, calpestati da tutti, nei confronti degli indiani d’america.
Lei, chiarissimo dott. Raimondi.
E questo lo riconosco in pieno.
Buona serata
Amedeo
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Una denuncia aperta, chiara e pulita.
Una denuncia che fa male, soltanto, ai potenti.
Buongiorno uomini di valore.
Imparate …
Ciao Milord
Manu
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