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“Torna da me…”
Quelle parole mi risuonavano nelle orecchie come un’eco lontano. Fluttuavo come se il mio corpo fosse immerso nell’acqua e qualcuno mi stesse chiamando.
“Torna da me…”
Sentivo la sua voce, sentivo le sue mani che mi stringevano, che mi scuotevano ma non riuscivo ad aprire gli occhi. Non riuscivo a comunicare. Le mie pupille vagavano in un’oscurità puntinata da bagliori luminosi.
“Anthy…” provai a chiamarlo, ma il mio corpo non assecondava i miei movimenti.
“Lasciala respirare!”
Quelle voci erano sempre meno distanti. Più forti e concitate.
“Amore, ti prego… svegliati e torna da me…”
Il mio corpo provò finalmente a reagire. Dovevo sforzarmi di aprire gli occhi, dovevo tornare da lui.
Tremavano. Le palpebre tremavano cercando lentamente di aprirsi.
“Si sta muovendo”.
“Susan… Susan, apri gli occhi, amore…”
Mi accarezzò la fronte con la mano e finalmente riuscii a farlo, riuscii a tornare da lui. Due laghi scuri increspati dalle lacrime mi fissavano terrorizzati.
“Oddio mio”, sospirò stringendomi contro di sé. “Mi hai fatto morire dallo spavento. Come ti senti? Ce la fai a parlare?”
“Be…ne…” farfugliai continuando a osservarlo a rallentatore.
“Anthy, credo sia meglio portarla in casa”. Bianca gli poggiò una mano sulla spalla e lui annuì.
Gemma mi sfiorò mentre suo fratello mi sollevava tra le braccia. “Susan… mi dispiace… mi dispiace tanto”.
“Ne discuteremo più tardi”, la zittì lui rivolgendole un’occhiata furente, “ora ho altro a cui pensare”.
Mi teneva stretta come un pugno di sabbia tra le dita, come se avesse paura di perdermi da un momento all’altro. Chinò la testa a guardarmi un’ultima volta e si diresse all’interno della casa seguendo Bianca in silenzio. Lei ci fece strada spalancando le porte mentre lui le camminava dietro. Quando finalmente arrivammo nella nostra stanza, mi adagiò delicatamente sul letto continuando a fissarmi.
Leggevo il terrore nelle sue iridi scure, vedevo l’angoscia, la paura di aver rischiato troppo.
Bianca si sedette vicino a me e mi passò una mano sulla fronte come avrebbe fatto una madre amorevole. “Tesoro, come ti senti?”
“Io… io non lo sapevo”, bofonchiai cercando di spiegare che non avevo intenzione di ingannarlo. Non sapevo nulla sul serio. Non immaginavo che in quel posto ci saremmo trovati di fronte al suo incubo peggiore.
“Shh. Adesso riposati, okay? Stai tranquilla”.
Bianca mi spostava i capelli dal viso con delicatezza, continuando a sorridere dolcemente. Quella donna aveva due occhi che avrebbero placato anche un mare in tempesta, erano così azzurri, calmi, infondevano un profondo senso di tranquillità. Girai la testa di lato. Lui era voltato di spalle, gli occhi rivolti alla finestra e una mano appoggiata contro il muro.
Rigida. Tesa. La sua schiena era un ammasso di muscoli contratti celati dal cotone chiaro della maglietta.
“Anthy…” lo implorai.
Bianca si sollevò dal letto e si avviò verso la porta intuendo il nostro bisogno di rimanere da soli.
“Ho chiamato il medico, sarà qui tra poco, nel frattempo posso fare qualcosa? Vuoi un po’ d’acqua?”
Scossi il capo in segno di diniego e lei increspò ancora una volta gli angoli degli occhi con un sorriso gentile. “Allora, vi lascio”.
Fece un passo verso il corridoio e si richiuse la porta dietro di sé.
Quella stanza era piombata nel silenzio assoluto. Lui non fiatava e io… io non avevo il coraggio di dire niente. Sapevo benissimo che quell’incontro lo aveva spiazzato. Rivedere suo padre dopo tanto tempo aveva annientato il suo autocontrollo ed era esploso. Era esploso contro di me senza darmi nemmeno modo di difendermi.
Al solo pensiero del suo sguardo furente mi sentii rabbrividire.
“Guardami, per favore…” lo supplicai. Si girò. Non ero preparata a quello che vidi. Gli occhi di solito limpidi e intensi, erano arrossati e velati da un’ombra scura, le lunghe ciglia ricurve trattenevano ancora alcune lacrime in bilico. Si passò il dorso della mano sul viso e si avvicinò.
Un passo dopo l’altro.
Un respiro dopo l’altro.
Si accoccolò sul letto a un soffio dal mio corpo, mi avvolse in una stretta intrisa di paura e rimorso e respirò insieme a me, modulando quel moto costante sulla stessa frequenza del mio.
“Sono stato uno stronzo là fuori”, sussurrò tra i miei capelli senza allentare la presa che mi cingeva. “Ho avuto così tanta paura quando sei svenuta…”
Gli passai il dorso della mano sulla linea della mascella e scosse la testa trattenendo a stento un singhiozzo. “Eri a terra, non mi rispondevi, non mi sentivi”.
“Io ti sentivo”. Si allontanò appena, concedendomi giusto lo spazio per guardarlo negli occhi. “Ho sentito la tua voce, ho sentito le tue mani. Ti ho sentito, Anthy. Io ti sento sempre”.
Sopraffatto. Lui era esattamente così, sopraffatto da tutta quella situazione e mi fissava senza parlare. La sua mano si mosse lenta, accarezzandomi una guancia. Ripose delicatamente una ciocca di capelli dietro alla spalla e abbozzò un pallido sorriso.
“Anche io ti sento”. Inspirò profondamente sgretolando a poco a poco, la distanza tra le nostre bocche. “Ti sento ovunque”.
Mi sfiorarono. Lente. Titubanti. Le sue labbra si adagiarono sulle mie come un soffio leggero, come un alito di vento che accarezza la pelle. Quell’attimo preannunciava l’ebbrezza, lo stordimento che sarebbe sopraggiunto implacabile e travolgente prima dalla confusione e dalla perdita di controllo. Tra di noi era così. Bastava un bacio per saturare l’aria, per cambiare la tonalità dei colori, l’intensità dei suoni.
Bastava un bacio… per perderci completamente.
“Io non lo sapevo”, mormorai non appena l’aria tornò a circolare nel mio corpo. “Ti giuro che non sapevo niente”.
“Non è importante. L’ho capito nell’istante in cui ti ho vista cadere, non mi importa di nient’altro, l’unica cosa che conta, l’unica cosa a cui non voglio e non posso rinunciare siamo noi. Solo io e te”.
Ancora labbra che mi ubriacavano l’anima. Ancora baci che facevano vacillare ogni forma di autocontrollo.
“Io ti amo” sussurrò mentre la sua lingua si impossessava della mia. Le sue mani mi cinsero il viso e il cuore iniziò a pompare all’impazzata. Non esisteva nessuno che mi facesse sentire in quel modo. Nessuno prima di lui e nessuno dopo di lui. Era il primo e l’ultimo anello di una solida catena fatta di momenti condivisi e attimi indimenticabili.
Lui era il mio domani. Era tutto quello di cui avevo bisogno. Era la mia vita.
Cosa c’è di più spaventoso di perdere ciò che ti rende felice?
Lei era esattamente quello, era l’unica cosa che riuscisse a farlo. Lei e le sue smorfie strampalate. Lei e i suoi sorrisi luminosi. Lei e quei due occhi che brillavano perfino nel buio. La stringevo tra le mie braccia e non avrei mai voluto lasciarla andare.
Passi. Il rumore di suole che toccavano il pavimento e poi, alcuni colpi alla porta. Mi sollevai dal letto e quella poca distanza che ci separava mi sembrò già troppa. Mi alzai per aprire. Bianca era in piedi di fronte a me, seguita da un uomo sulla cinquantina.
“Anthy, lui è il dottor Giovanni Laurenti”.
Lo squadrai dall’alto in basso valutandolo attentamente. Non era molto alto, aveva un viso gentile e paffuto. I tondi occhiali smaltati erano calcati sul naso e ai lati delle tempie, alcune ciocche canute risaltavano in contrasto al castano scuro dei suoi capelli.“Buona sera, dottore, si accomodi”.
Susan si sollevò sui gomiti, fissando quell’uomo dall’aspetto gioviale che avanzava verso il letto.
“È lei la signorina che si è sentita male?” chiese con fare gentile.
“Non è stato niente”, rispose, “si è trattato di un leggero mancamento…”
“Questo lo lasci giudicare a me”, la interruppe. Il dottore appoggiò la borsa di pelle scura sul materasso e l’aprì tirando fuori uno stetoscopio. Le fece sollevare la maglietta e si infilò gli auricolari nelle orecchie.
Osservavo attentamente ogni suo movimento. Le mani che la sfioravano, le espressioni indecifrabili del suo viso e i movimenti goffi mentre armeggiava intorno al letto.
Mi voltai verso Bianca con una domanda scritta a caratteri cubitali sulla fronte e lei sorrise annuendo come se avesse perfettamente capito ciò che volevo chiederle. Si avvicinò alle mie spalle e mi sussurrò all’orecchio per non farsi sentire. “Stai tranquillo, non farti ingannare dalle apparenze, Giovanni sa il fatto suo”.
Piegai il capo verso destra mentre la visita proseguiva. Le aveva già misurato la pressione e il livello di ossigenazione del sangue.
“Dottore, ci può dire qualcosa? Come sta?” domandai.
L’uomo si girò verso di me, si sfilò gli occhiali e si asciugò la fronte con un fazzoletto prima di rinfilarseli di nuovo.
“Direi che non c’è nulla di cui preoccuparsi. I parametri sono tutti nella norma, la pressione è normale. Potrebbe essere stato un malore dovuto al caldo oppure a un forte stress emotivo. Bianca mi ha detto che stavate discutendo quando la signorina è svenuta”.
Non stavamo discutendo, io la stavo facendo a pezzi.
Era stata colpa mia.
Susan si era sentita male per colpa mia.
Lei lo fissava silenziosa, come se volesse dire qualcosa ma si stesse trattenendo.
“Dottore”,
“Mi dica, signorina”, le rivolse un ampio sorriso e iniziò a rimettere i suoi strumenti nella borsa.
“Potrei… potrei parlarle, in privato?”
“Certamente”.
Si voltò verso di noi e si sfilò nuovamente gli occhiali. Prese a pulirli meticolosamente con un fazzolettino e se li rinfilò. “Volete scusarci un’istante?”
Non potevo crederci. Ci stava sbattendo fuori per caso?
Stavo per controbattere quando Bianca mi afferrò per un braccio. “Hai sentito il dottore? Usciamo un attimo, Anthy”.
Non era accettabile, lei non poteva escludermi in quel modo. Lei non poteva, cazzo! Stavo impazzendo, per quale motivo avrebbe dovuto voler parlare in privato con un estraneo?
Camminavo avanti e indietro per il corridoio.
Avevo contato trenta assi di legno. Trenta lunghe assi color noce, che continuavano a scricchiolare sotto ai miei piedi.
Quanto diavolo ci vuole?
Rimuginavo tra me e me mentre Bianca continuava a studiarmi con la schiena appoggiata al muro e le braccia conserte.
“Stai calmo, vedrai che tra poco uscirà”.
Mi fermai di colpo e sollevai lo sguardo verso di lei. Fu in quel momento che una domanda iniziò ad attraversarmi la mente. Chi era lei in realtà? E soprattutto, che cazzo ci faceva mio padre in casa sua?
La risposta era sempre più scontata, ma mi rifiutavo di credere che quella donna così dolce e gentile, fosse la stronza che aveva distrutto la mia famiglia, la stessa che lo aveva irretito e convinto a lasciarci.
Mi appoggiai alla parete proprio davanti a lei. La esaminai dall’alto verso il basso. I capelli scuri, quegli occhi così chiari da sembrare irreali, la bocca sempre distesa in un sorriso, e il suo corpo assolutamente perfetto nonostante l’età.
Si rese subito conto che avevo iniziato a guardarla in modo differente, perché cominciò a muoversi nervosamente e a infilarsi i capelli dietro l’orecchio. Seguii il movimento della sua mano e non potei far a meno di notare la leggera sfumatura che le colorava il viso.
Cazzo! Più la guardavo più quella donna mi ricordava lei. Bianca mi ricordava Susan. E adesso che avevo di fronte l’innominabile, adesso che potevo guardarla negli occhi e gridarle quanto la odiassi, mi stavo rendendo conto che forse, mio padre non era impazzito del tutto, era stato stregato da lei come Susan aveva annientato ogni mia difesa.
“Perché?” le chiesi.
La risposta a quella domanda era difficile da trovare, erano vent’anni che io ci provavo e non c’ero ancora riuscito.
Perché lei e non noi?
Perché proprio adesso?
E perché, nonostante in tutto questo tempo l’avessi odiata in maniera viscerale, ora che ce l’avevo davanti agli occhi non riuscivo più a farlo? Non riuscivo più a trovare il marciume, la degradazione che mi ero immaginato.
Stavo impazzendo, cazzo!
“Anthy, so che quello che provi per tuo padre ti sta logorando, però credo sia giunto il momento che voi due chiariate la situazione, serve a te e serve a lui”.
“Non c’è nulla da chiarire! È tutto abbastanza ovvio, mi pare, lui vive qui con te e io non lo vedo da parecchi anni, mi sembra evidente che abbia preferito voi a noi!”
“Questo non è vero… se solo tu lo ascoltassi, potresti capire che…”
“Smettila!”
La mia voce risuonò attraverso i soffitti del corridoio come un colpo di frusta. “Io. Non ho. Niente. Da dirgli!” scandii ogni singola parola per chiarire la mia posizione una volta per tutte. “L’unica cosa che voglio è prendere la mia fidanzata e tornarmene a Roma, è chiaro?”
“Io non credo che…”
Sollevai una mano bloccandola, prima che finisse di parlare. “Non intendo ascoltare altre stronzate, ti ringrazio per la tua ospitalità, ma chiamerò qualcuno e ci farò venire a prendere”.
“Aspetta almeno fino a domani, Susan è debole, lasciala riposare. Domattina potrete andarvene, ti giuro che nessuno ha intenzione di obbligarti a restare se non vuoi, ma fallo almeno per lei, era così scossa, povera ragazza”.
Si stava giocando bene le sue carte, Susan era l’unico punto debole a cui avrebbe potuto appigliarsi e in fondo, aveva ragione. Dopo quello che le avevo fatto passare quel pomeriggio, non potevo pretendere che mi seguisse fino a Roma in piena notte.
“Okay” sibilai, “ma non voglio rivederlo”.
“Va bene, come vuoi”.
Bianca abbassò gli occhi verso il pavimento e in quell’ istante, la porta si aprì.
“Mi raccomando le analisi che le ho prescritto, signorina, e si riposi”.
Il dottor Laurenti fece scattare la serratura e si fermò un’istante a guardarci. La tensione aleggiava in quello spazio angusto ed era un qualcosa di assolutamente palpabile.
“Io qui avrei finito, se vuole rientrare, la sua fidanzata la sta aspettando”.
“La ringrazio, dottore”.
Afferrai la maniglia tra le dita e con un profondo respiro fui nuovamente nella nostra stanza.