.
.
Poggiai la nuca contro i cuscini che mi sollevavano la testa. Ero stanca, tanto, troppo. L’unica cosa che volevo in quel momento era sentirlo vicino. Pelle contro pelle.
Si accostò a me con entrambe le mani nelle tasche e i pollici che strofinavano impercettibilmente la cintura. Le pieghe della maglietta assecondavano le forme del suo corpo, tracciando la sagoma degli addominali bassi e della V che si tuffava imperiosa nei jeans.
Era possibile innamorarsi dello stesso uomo in continuazione? Ebbene sì, non solo era possibile, era un dato di fatto.
Inclinò la testa di lato e strinse gli occhi osservandomi attentamente, due fessure adorne di ciglia mi scrutavano stringendosi sempre di più. “Come ti senti?”
“Un po’ scombussolata”.
“Posso?” chiese avvicinandosi al letto. Mi spostai di lato facendogli spazio e lui si sdraiò al mio fianco. Intrecciò le mani dietro alla testa e chiuse gli occhi regalandomi la possibilità di osservarlo attentamente. Il profilo sembrava disegnato, la mascella era ricoperta dal solito strato di barba che amavo e la sua gola guizzava ogni volta che deglutiva. Anthy riaprì le palpebre fissando il soffitto. “Allora… cosa c’è che ti preoccupa?”
“In che senso?”
“Perché hai voluto che uscissi? C’è qualcosa che non vuoi che io sappia?”
La sua voce era un rumoroso respiro, un afflato sonoro che celava un interrogativo importante. Anthy voleva sapere ciò che mi passasse per la testa, ma quello non era affatto il momento più indicato per parlarne. La sua capacità di autocontrollarsi era stata messa duramente alla prova nelle ultime ore e non volevo aggiungere altri argomenti alla lista delle preoccupazioni.
“Ho anch’io diritto alla mia privacy”.
“Privacy?” si sollevò spostando il peso sul gomito. “Credi che mi beva questa scusa?”
“Nessuna scusa, ognuno di noi ha degli argomenti di cui preferisce non parlare. Anche tu ne hai”.
“Questo non è vero, io…”
Lo interruppi poggiandogli l’indice sulle labbra. “Se davvero pensi di non averne, allora raccontami la storia di tuo padre. Perché sei esploso in quella maniera prima?”
Si irrigidì di colpo e si ritrasse all’indietro. “Credo che Gemma ti abbia già detto abbastanza o sbaglio?”
“Io voglio sapere la tua versione dei fatti, Anthy, voglio capire cosa provi tu di fronte a tutto questo”.
Si alzò in piedi iniziando a camminare nervosamente per la stanza. “Tu non capisci!” disse infilandosi le mani nei capelli. “Io non volevo prendermela con te, non volevo urlarti addosso, ma quell’uomo tira fuori il peggio di me”. Raddrizzò la schiena e si avvicinò alla finestra dandomi le spalle. “Mi dispiace…”
Scivolai lentamente fuori dal letto e lo seguii. Ero dietro di lui, il seno che gli sfiorava il dorso e una mano appoggiata sulla sua spalla.
“Stai cercando di evitare il discorso?”
“Io non sto evitando proprio niente” sibilò tra i denti. “Non c’è nient’altro da dire”.
“Anthy…”
Si girò di scatto afferrandomi il polso. “Non c’è niente da dire”, tuonò lasciandomi di colpo. “Niente. Sono stato chiaro?”
Lo guardai. Era completamente fuori controllo, lui che di solito gestiva ogni emozione, che non si lasciava prevaricare dagli stati d’animo, in quel frangente sembrava annientato. La cosa più drammatica era che continuava a negare l’evidenza, continuava a negare il dolore che potevo scorgere chiaramente nei suoi occhi.
“Perché ti rifiuti di parlarne? Io non so quello che senti, ma so quello che vedo. E in questo momento davanti a me c’è un uomo spaventato, sopraffatto da un dolore che non ha mai superato”.
Gli presi il viso fra le mani e lo fissai dritto negli occhi rimanendo in silenzio per qualche istante. Lo sentivo respirare, annaspare alla ricerca d’ossigeno, mentre il suo sguardo era ancorato al mio. Presi fiato. Un grosso quantitativo d’aria e continuai.
“Quando ho perso i miei genitori, avevo deciso di evitare per sempre quel discorso, parlarne mi faceva troppo male, era come gettare acqua salata su una ferita ancora aperta, bruciava. Bruciava sulla pelle, sotto la pelle e perfino in fondo al cuore”.
Anthy mi ascoltava in silenzio, non si muoveva ma la sua espressione sembrava essersi addolcita. “Un giorno però, Ollie mi ha messo con le spalle al muro. Mi ha fatto capire che fingere che qualcosa non fosse mai accaduta non significava superarla. Fingere che andasse tutto bene non voleva dire stare meglio, anzi. Ci sarà un momento in cui dovrai fare i conti con tutto quello da cui continui a scappare e a quel punto, non potrai più far finta che non sia mai successo. Dovrai affrontare i fantasmi del tuo passato”.
Le sue palpebre scivolarono lentamente verso il basso fino a ricoprigli le iridi scure e il petto si gonfiò.
“Parlami, Anthy…”
Vagava. Il suo sguardo vagava nel vuoto. Scorreva lungo la parete bianca alle mie spalle senza trovare un punto a cui ancorarsi.
“Avevo solo undici anni, ero poco più di un bambino”, esalò dopo un lungo momento di silenzio. “Tu non hai idea di quello che ho passato. Non hai idea di quanto abbia sofferto a causa sua. Lui ci ha abbandonati, Susan, ci ha lasciati per un’altra famiglia, per una nuova vita”.
Aveva ripreso a camminare senza meta. Avanti e indietro. Avanti e indietro. “Sai qual era la cosa che mi faceva più male?”
Scossi la testa.
“Era sapere che noi, che io, non fossimo abbastanza per renderlo felice”.
Sembrava sconfitto. Un bambino deluso dall’uomo più importante della sua vita.
“Sai quante volte mi sono chiesto perché? Troppe, Susan, troppe volte. Mi sono sforzato di essere il più bravo, il più forte, il più determinato, ho sempre cercato di compiacerlo ma lui non era interessato a me, lui aveva trovato chi lo rendeva soddisfatto e quello non ero io.
Non. Ero. Io.
Si strofinò con stizza le mani lungo le cosce e tornò a guardarmi. “Perché dovrei parlare con lui adesso? Che cosa potrebbe dirmi di così illuminante da cancellare tutto quanto? Cosa potrebbe mai giustificare un’assenza durata vent’anni?”
Scosse la testa abbozzando un sorriso che nascondeva lacrime amare. “Non c’è niente che potrebbe cambiare le cose, Susan, assolutamente niente”.
“Ma se invece lui avesse qualcosa da dire? Se ci fosse un motivo?”
“No. Nessun motivo, lui ha fatto la sua scelta e io la mia. Fine dei discorsi”.
“È tuo padre, Anthy, non puoi metterci una pietra sopra e seppellirlo per sempre, il destino ti ha dato la possibilità di rincontrarlo, perché non provi a fare un passo indietro, ad ascoltarlo? Magari potrebbe farti cambiare idea”.
“Come sei ingenua, amore, tu sei così limpida da non capire quanto marcio ci possa essere intorno a te e lui fidati, è marcio fino al midollo, quell’uomo ha avuto il coraggio di vivere due vite parallele per anni, Susan. Ci ha ingannati, ha ingannato me, mia madre e mia sorella. Ci ha fatto credere che lavorasse senza tregua per noi, per assicurarci un avvenire, ma in realtà, le sue assenze erano soltanto una fuga da quella realtà che non sopportava. Aveva bisogno di rifugiarsi nel suo mondo perfetto, con la famiglia perfetta che si era scelto”.
Anthy aveva eretto dei muri così alti da essere indistruttibili, aveva innalzato delle barriere talmente spesse che nemmeno un ariete avrebbe potuto farle cadere. La sua infanzia era stata segnata dall’assenza e dall’abbandono e tutto questo, lo aveva reso l’uomo che io avevo conosciuto, un uomo solo che non si fidava di nessuno e non voleva lasciarsi avvicinare. Un bambino ferito che cercava di difendersi dal dolore impostando regole e schemi ricorrenti. Con me aveva fatto un passo indietro, si era fidato e affidato ma stavolta, non ero sicura di riuscire a convincerlo.
“Vieni qui”, spalancai le braccia e lui si voltò a guardarmi.
Fermo. Immobile, mi fissava. Soppesava la situazione. Poi la sua gamba fece un passo seguito da un altro e da un altro ancora, finché non mi ritrovai stretta tra le sue braccia.
“Ci sono io adesso”, ripetei più volte accarezzandogli la nuca. “Ci sono io…”
”Ci sono io…”
Susan non si rendeva nemmeno conto di quanto significassero quelle parole per me. Non riusciva a capire quanto fossero importanti e forse, fino a quel momento non lo avevo capito nemmeno io.
L’abbracciai più forte che potei fino quasi a soffocarla. Sentivo il suo corpo premere contro il mio e il cuore pulsare. Inspirai il suo profumo, le sfiorai la pelle nuda delle spalle e finalmente, mi sentii come se avessi trovato la mia dimensione. Il mio mondo perfetto fatto di lei. Solo di lei.
Eravamo stretti nel nostro incantesimo, avvinghiati in una bolla in cui nessuno avrebbe potuto entrare o almeno, così credevo.
Un paio di colpi alla porta e la bolla scoppiò, lasciandoci immobili e titubanti. Susan indietreggiò sciogliendosi dal mio abbraccio. “Vado a vedere chi è”.
“No”, l’arrestai. “Non ho nessuna intenzione di parlare con mia sorella o con chiunque altro sia”.
“Anthy, per favore”, mi rimproverò avviandosi scalza in direzione della porta. Sbuffai esasperato mentre lei imperterrita faceva scattare la serratura. Notai la sua schiena irrigidirsi. Era rimasta ferma, la mano aggrappata alla maniglia e il corpo paralizzato.
“Posso entrare?”
Una coltellata. Quella voce fu una coltellata dritta in mezzo al petto. Non c’era bisogno di guardarlo in faccia per capire chi fosse, non c’era bisogno di nient’altro per rivoltarmi lo stomaco. Avrei riconosciuto quella voce anche in mezzo al rumore di uno scoppio. Per troppe notti, nella mia mente di bambino, avevo cercato di ricordare che suono avesse, avevo cercato di immaginare quella voce che mi parlava ancora dolcemente, che mi diceva qualcosa. Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di quel silenzio assurdo.
“P-prego…” balbettò lei lasciandolo entrare.
Non andava bene, non andava assolutamente bene, cazzo!
Quell’uomo non doveva rientrare nella mia vita, non glielo avrei permesso. Aveva scelto di andarsene, quindi che accidenti voleva adesso da me? Perché? Non poteva starsene nel suo dannato mondo fantastico e lasciarmi in pace?
Pulsava.
Tutto il mio corpo stava pulsando. La testa mi scoppiava, schiacciata dalla pressione del sangue che vi affluiva rapido. La prima cosa che vidi fu la sua gamba che oltrepassava il confine immaginario che avevo creato. Si stava insinuando di nuovo nella mia vita senza nemmeno avermi chiesto il permesso.
Porca puttana!
Io non ce lo volevo, non doveva stare qui.
“Come si sente?”
Le prese la mano e l’accarezzò dolcemente mentre i suoi occhi scuri la sondavano dalla testa ai piedi. Avvertii un moto d’ira attraversarmi il corpo, sconvolgermi la mente e distruggere ogni parvenza di autocontrollo mi fossi imposto.
“Non ti azzardare a toccarla!” ringhiai frapponendomi tra di loro. “Tutto quello che tocchi va in rovina e lei è l’unica cosa buona che ho, quindi fuori di qui!”
Stavo urlando come un folle, era bastato un nonnulla per farmi esplodere ma forse, quella era solo l’ultima goccia di un vaso che si era riempito fino a tracimare negli ultimi vent’anni.
“Ho detto fuori di qui!”
“No”, rispose lasciandole la mano. “Non vado da nessuna parte. Non prima di aver parlato con te”.
Parlare? Di che cazzo voleva parlare? Della magica fattoria coi cavalli e i vigneti? Della donna perfetta che si era risposato o del figlio tanto amato che aveva con lei? Sì, cazzo, un figlio, un altro fottutissimo figlio. Era per lui in fondo che mi aveva lasciato, che ci aveva lasciati.
“Fuori di qui, cazzo! Fuori. Di. Qui. Non farmelo ripetere un’altra volta!”
“Ho detto di no”.
Stavamo digrignando i denti come due lupi pronti a sbranarsi.
“Okay, adesso calmiamoci per favore”.
Susan si era mesa in mezzo cercando di quietare gli animi ma non si rendeva conto di quanto fosse inutile quel tentativo. Avrei potuto prenderlo a pugni, levargli quel sorriso strafottente dalla faccia e rompergli il culo. Almeno questa volta avremmo avuto uno scontro ad armi pari, non sarei più stato un bambino incapace di reagire e costretto a subire gli eventi. Questa volta ero un uomo e potevo decidere della mia vita.