Noi … XX

Attenzione: Contenuti espliciti.

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“Hai finito?”
Lui annuì come un bambino esitante che rifugge lo sguardo dei genitori.
“Allora esci di qui!”
Non mi importava niente, assolutamente niente di quell’uomo. Dovevo evitare di lasciarmi coinvolgere, di farmi condizionare dalla sua espressione ferita, dai suoi occhi affranti in cui mi rispecchiavo continuamente.
Quello non era mio padre.
Continuava a negare, a riversare la colpa di tutto su mia madre come se potessi credere a lui. A lui che per quasi vent’anni non si era fatto sentire, che ci aveva mentito, che aveva preferito scappare piuttosto che combattere per noi.
Non meritava il perdono, questo era certo. Ero infastidito dalla sua presenza ingombrante, dal suo non voler capire che per me il discorso era chiuso. Lui era morto. Sepolto.
“Allora? Te ne vai o no?”
Ero sprezzante e ogni mia parola sembrava arrivargli addosso come una sferzata. Finalmente si decise a uscire chino sotto al peso del mio rifiuto, la testa incassata nelle spalle e lo sguardo di chi è appena stato umiliato.
Ero furioso. Incazzato nero. Lo ero con lui perché aveva deciso di fare quest’incursione nella mia vita, con mia sorella perché mi aveva ingannato e soprattutto, lo ero con me stesso, perché nonostante mi stessi sforzando di ignorarlo, sentivo qualcosa mordermi alla bocca dello stomaco.
Osservai ogni suo passo. Ogni suo fottutissimo passo. Il piede che appoggiava incerto sul pavimento, l’altro che lo seguiva lento. Era uno stillicidio e a ogni scricchiolio della suola sulle piastrelle qualcosa dentro di me si aggrovigliava su se stesso, si stringeva fino quasi a farmi soffocare.
Quando finalmente sentii lo scatto sordo della serratura riuscii a spostare lo sguardo. Bassi. I miei occhi erano incollati al suolo. Incapaci di sollevarsi e di incontrare quelli di colei che aveva assistito a quella carneficina. Dovevo sfuggire a quegli specchi azzurri, perché sapevo perfettamente che cosa vi avrei trovato dentro: rammarico, disapprovazione.
Non avrei potuto tollerare anche il suo giudizio in quel momento, dovevo già fare i conti con qualcos’altro, con quello strano sentimento che mi mordeva le viscere.
Mi avviai verso la finestra, gli occhi piantati a terra e le mani sprofondate nelle tasche. Avevo bisogno d’aria. Aria e silenzio. Un fruscio. Un leggero fruscio alle mie spalle e poi percepii la sua presenza.

La mia schiena percorsa dal suo sguardo rabbrividì. Tutto il corpo si contrasse non appena mi sfiorò le spalle. La sentivo. Sentivo il suo petto premuto contro, le mani che scivolavano fino a cingermi la vita e la fronte appoggiata alla base del collo.
“Non giudicarmi, Susan”.
Le mie parole erano dure, fredde, molto più di quanto avrei voluto.
“Io non ti giudico”, sussurrò.
Mi beai per qualche istante di quell’abbraccio e poi mi voltai verso di lei. “Io non posso. Non posso perdonarlo. Non posso credergli, quello che ci ha fatto…”
Abbassai le pupille seguendo le sue mani che avevano iniziato a percorrermi l’addome. Erano minute, delicate mentre mi sfioravano. Si perdevano nell’ampiezza del mio torace e mi toccavano. Mi facevano sentire meglio. Lei era l’unica al mondo in grado di suturare ogni ferita, anche quelle profonde, anche quelle mai rimarginate.
Lei era la mia cura e in quel momento ne avevo bisogno, dannatamente bisogno. Volevo perdermi, dimenticare ogni cosa, mettere a tacere il fragore che lui aveva provocato.
Le percorsi la schiena con entrambi i palmi, prima delicatamente e poi prepotentemente. Sollevò il viso verso il mio e mi fissò. Vibranti. Fervidi. I suoi occhi erano una tavolozza di colori accesi. La strinsi a me come se volessi farla penetrare in profondità, assorbirla e non lasciarla più andare via. Le presi il viso in una mano e mi appropriai della sua bocca. Aria. La sua bocca era aria, lei era aria. Lei era l’ossigeno che alimentava ogni mio respiro. Lei e le sue labbra. Lei e la sua lingua che lambiva la mia.
“Ho bisogno di te…” soffocai tra i denti quella supplica mentre continuavo a invaderla, a prendermi quello che era diventata una disperata necessità.
“Io”, dissi abbrancandole il sedere. “Ho bisogno di te”. Il mio bacino premeva contro di lei. Si strofinava contro la sua morbida carne facendole sentire tutto quello che stavo provando.
“Prendimi allora”. Due parole, due semplici parole sussurrate tra un gemito e l’altro e qualcosa dentro di me prese il sopravvento. La sollevai da terra afferrandola per le cosce e l’appoggiai sulla cassettiera.
Non sarei più riuscito a fermarmi. Non allora. Non in quel momento.
Le sfilai la canottiera dalla testa con un movimento rapido e la strinsi in un pugno. Le sue mani mi cercavano, mi scalavano la schiena risalendo per poi sprofondare verso il basso. La baciavo. La baciavo e non ne avevo mai abbastanza. Aria. Ne volevo ancora. Ancora aria.
Quel bacio era disperazione. Era abbandono. Era acido che scioglieva ogni grumo di dolore. Le sue dita penetrarono sotto la maglietta sfiorandomi la pelle. Il mio sesso pulsava e io non capivo più niente. Ero alla deriva. Ero allo sbaraglio ma nulla avrebbe potuto toccarmi finché ero vicino a lei.
Mi sollevò la T-shirt, la sfilò dalle braccia e la lanciò a terra.
Pelle. Pelle sopra alla pelle. Battiti. Pulsazioni che si diffondevano ovunque e tutti i nodi, tutti i grovigli che avevo dentro iniziarono a dissolversi.

“Susan, non riesco a controllarmi”.
“E allora non farlo”, ansimò.
Determinazione. In quelle pozze cangianti c’era solo quello. Determinazione e desiderio. Le infilai una mano sotto al tessuto del reggiseno sollevandolo completamente. Le stringevo i seni tra le dita godendo della reazione del suo corpo. Turgidi. Scuri. I suoi capezzoli si erano risvegliati immediatamente. Erano perfetti, invitanti e mi ci avventai come un disperato.
Non ero delicato. Non ero gentile. Ero un uomo senza speranza che aveva di fronte a sé la sua unica possibilità di salvezza.
Assaporai la sua pelle avidamente, la mordevo e poi lenivo il suo dolore passandoci sopra la lingua. Lei ansimava. Gemeva mentre mi teneva imprigionato tra le gambe. Le abbassai i leggings lungo i fianchi e si appoggiò sulle mani inarcando la schiena. Non appena sfiorai il pizzo dell’intimo arpionai anche quello tirandolo verso il basso. Ero impaziente, brusco e lei sollevò il sedere venendomi incontro.
Le feci scorrere il tessuto elasticizzato lungo le gambe strattonando la stoffa fino a quasi strappargliela di dosso. Non ero mai stato un uomo paziente, ma in quella circostanza, ero tutto fuorché quello.
Gettai in un angolo i suoi vestiti e mi girai a guardarla. Era nuda. Bellissima. Seduta sulla cassettiera, i capelli ancora legati in una coda che le ricadeva sulla spalla e lo sguardo perso sui miei addominali.
Iniziai a slacciarmi la cintura, liberai l’ardiglione dal cuoio in cui era conficcato e la sfilai dai passanti. Mi riposizionai tra le sue gambe e l’attirai verso di me. La sua nudità contro i miei jeans che stavano per scoppiare. Le appoggiai il palmo della mano al centro del petto e iniziai a toccarla. Un movimento irregolare, prepotente, che le attraversò tutto il torace. Susan chiuse gli occhi e inclinò la testa all’indietro. I capelli sfioravano il piano di legno e il suo collo pulsava. Mi avventai su quel punto, proprio al centro della gola, dove si formava ogni suo arrochito gemito di piacere.
La feci sdraiare e mi chinai su di lei. Iniziai ad assaggiare avidamente ogni centimetro della sua gamba destra, dalla caviglia fino alla coscia. La sentivo tremare. I muscoli contratti per la tensione e il desiderio.
Mi inginocchiai tra le sue cosce e me le portai sulle spalle. Era sdraiata davanti a me. Indifesa. Travolta dalla cupidigia di ogni mio gesto.
“Guardami!”
Spalancò le palpebre con un movimento che sembrava quasi faticoso. Due lame azzurre riemersero piano piano dall’abbandono in cui erano sprofondate e mi guardò. Ero così vicino che potevo quasi avvertire il calore del suo corpo sulla mia bocca. Non l’avevo ancora sfiorata e già la sentivo fremere. Si poggiò sui gomiti sollevando il busto, il collo reclinato in avanti per osservare ogni mio movimento e il petto che si alzava e si abbassava ritmicamente.
“Mi vuoi?” domandai.
Annuì.
La coda di cavallo le ondeggiava lungo la schiena e Cristo Santissimo. Era la cosa più eccitante che avessi mai visto.

Accostai la bocca al suo sesso continuando ad accarezzarle il resto del corpo. Aveva i muscoli totalmente contratti, tesi per l’aspettativa di quello che sarebbe successo.
“Mi vuoi?” domandai di nuovo e lei annuì con ancora più determinazione.
“Voglio sentirtelo dire. Voglio che tu me lo chieda e lo voglio adesso!”
“Anthy”, ansimò mentre il suo cuore aumentava il ritmo sotto alla mia mano.
“Chiedimelo, Susan”, le ordinai. “Chiedimi di assaggiarti, di leccarti fino a farti urlare, fino a farti dimenticare anche il tuo nome”.
Doveva dirmelo, cazzo, volevo sentire quelle parole uscire dalla sua bocca perfetta, volevo vederla trasformarsi in quell’essere dissoluto che di tanto in tanto emergeva dalle profondità in cui lo teneva rinchiuso.
Prese fiato un paio di volte mentre il mio respiro le solleticava la pelle eccitata e umida. Inclinò la testa all’indietro, riabbassò le palpebre e tremò quando con il pollice le sfiorai la parte più sensibile del suo corpo.
“Allora?” la stuzzicai.
“Fallo, Anthy”.
“Cosa? Cosa vuoi?”
“Prendimi, leccami, fammi urlare…”
Non doveva ripeterlo un’altra volta perché sentirglielo dire aveva aumentato le pulsazioni laggiù in basso. Mi avventai su di lei e la feci gemere. Rantolava mentre le mie dita la penetravano sempre più a fondo e la mia bocca la divorava. Denti, labbra e lingua si avvicendavano per darle piacere, per portarla al limite della sopportazione. Capii che c’era quasi quando le sue cosce si strinsero sulle mie spalle come una morsa.
“Sei pronta a urlare?” dissi prima di afferrare la sua carne tra i denti. Non rispose. Non ripose per molto tempo.
L’unica cosa che fuoriusciva da quelle labbra piene, erano una sequela di suoni disarticolati e dannatamente sexy che accompagnavano le vibrazioni convulse del suo corpo.
Affondai le dita ancora e ancora, mentre lei si dibatteva. Si contorceva, serrando le labbra tra gli incisivi aspettando quello che di lì a poco sarebbe arrivato.
“Oddio”, strillò e io lo sentii. Sentii l’orgasmo attraversarle la carne, serrarsi intorno alle mie dita, propagarsi in tutto il corpo e trascinarla via. Trasportarla in un mondo fatto di oblio, di piacere assoluto.
Non c’era più bisogno di aspettare. Volevo raggiungerla in quel luogo dove mi sarei perso completamente. Mi abbassai i pantaloni e i boxer liberando la mia dolorosa erezione. Le infilai le mani sotto al sedere e la trascinai fino al bordo del mobile. Era perfetta con le gambe spalancate alla mia altezza. La guardai. Persa. Ancora smarrita nel piacere che stava provando e completamente esposta. La sfiorai con la punta del pollice e lei sobbalzò mugugnando.
Era sensibile. Dannatamente sensibile.
Infilai due dita dentro di lei e poi le ritrassi. Mi accarezzai un paio di volte lubrificandomi coi suoi umori e poi entrai dentro di lei. Ruggivo come un animale.
“Cristo!”
Mi mossi lentamente. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Lei aveva ripreso ad ansimare e a ogni suo sospiro seguiva un mio affondo. La tenevo saldamente sollevata per i fianchi e spingevo. Spingevo fino a sentire il rumore dei nostri corpi che si scontravano, che si colpivano, che si fondevano a un ritmo sempre più frenetico.
Trattenevo il respiro e precipitavo. Ansimavo e affondavo. Stringevo la sua carne tra le mani e non riuscivo a smettere di muovermi. Sempre più forte. Sempre più veloce, finché venni anch’io sporcandole l’addome prima di crollarle sopra.
“Cazzo”, farfugliai continuando a respirarle addosso. Il suo petto schiacciato dal mio e il suo sapore ancora sulle labbra. Il cuore mi era scivolato fino allo stomaco e batteva come se non ci fosse un domani. Sentivo scorrere l’appagamento attraverso le vene, diffondersi ovunque, arrivare al petto e da lì ripartire.
In quel momento raggiunsi la consapevolezza che l’assenza di chi amiamo può uccidere. Può spegnere una parte della nostra anima rendendola oscura, danneggiata.
“Non lasciarmi mai”, le sussurrai sulla pelle accaldata della spalla. Sentii le sue mani accarezzarmi la testa, infilarsi tra i miei capelli e la sua voce sfiorarmi il cuore.
“Mai. Io non ti lascerò mai”.

“Non ti lascerò mai”.
Quella non era una promessa, era una certezza. Gli accarezzai la schiena, le spalle, la nuca, rimanendo distesa sotto di lui per diversi minuti. Lo sentii rilassarsi a ogni mio tocco e respirare più lentamente.
Anthy si spostò privandomi del suo peso. Mi sollevai anch’io e avvertii qualcosa di caldo colarmi lungo la pancia e sulle gambe. Lo vidi osservarmi compiaciuto e sorrise.
“Credo sia il caso di darsi una ripulita”.
“Tu credi?”
Inarcò le sopracciglia e mi donò un sorriso pigro. “Sì, direi proprio di sì”.
Mi sollevò da terra avviandosi verso il bagno e mi depositò sul tappeto. “Tu resta ferma qui”, disse passandomi un asciugamano bagnato per pulirmi.
Aprì il rubinetto dell’enorme vasca angolare e ci versò dentro del bagnoschiuma, mentre l’acqua continuava ad aumentare di livello, tornò da me.
“Questi li sciogliamo”.
Tirò via l’elastico che mi legava i capelli e me li fece ricadere sulle spalle. Con l’indice mi percorse la linea della mascella e poi scese lungo il collo e verso il seno.
“Sei pronta per essere coccolata?”
“Prontissima”.
“Vieni allora, l’acqua è perfetta”.
Mi prese per mano e mi fece entrare nella vasca. Era una bellissima sensazione, la schiuma che crepitava e il mio respiro che si rilassava. Reclinai la testa all’indietro e mi immersi completamente. Trattenni il fiato per qualche istante sommersa da quel liquido caldo. I suoni mi arrivavano completamente ovattati, attutiti. Quando riemersi, mi tirai indietro i capelli e mi accorsi che mi stava guardando. Sorrideva e mi fissava. “Pensi di farmi un po’ di spazio?”
“Uhm… ci devo pensare”.

Mi spostai in avanti e lui si posizionò alle mie spalle. Il livello del liquido salì improvvisamente sollevando un nugolo di schiuma. Ondeggiava e tracimava dalla vasca a ogni suo movimento.
Mi appoggiai al suo torace e mi lasciai andare. Inspiravo lentamente mentre lui mi insaponava delicatamente le spalle e il seno. Sentivo il suo cuore pulsare in modo regolare nella cassa toracica e le sue mani accarezzarmi dolcemente.
“Voglio una vasca da bagno come questa”, proclamai solenne all’improvviso.
Anthy sorrise, lo avevo capito dal suono che gli uscì dalle labbra.
“Uhm”, mugugnai quando iniziò a strofinarmi i capelli. “Questo sì che è piacevole!”
Sorrise ancora. “Come vedi sono tremendamente bravo nel darti piacere, signorina”.
“Hai proprio ragione”.
Mi insaponò con estrema cura poi iniziò a sciacquarmi facendomi scorrere l’acqua dalla cima della testa fino alla punta dei capelli. Avrei potuto abituarmi facilmente a quel genere di trattamento. Chiusi gli occhi e mi appoggiai le mani sul ventre.
“Come ti senti?”
“Bene, perché?” risposi con gli occhi ancora socchiusi.
“Oggi è stata una giornata… impegnativa, diciamo”.
“Non la definirei esattamente così, ma hai reso l’idea”.
“Mi dispiace”, sussurrò depositandomi dei baci lungo il collo. “Mi dispiace per tutto quanto”.
“Non devi dispiacerti, non è successo niente di grave”.

Intrecciai le dita alle sue e mi portai la mano sul petto. “Non è vero. Ti ho urlato contro, ti sei sentita male e poi…”
“Shh… Va tutto bene”, dissi accarezzandogli le nocche con la punta delle dita.
“Non ha avuto nemmeno la decenza di lasciarci in pace, mi fa infuriare il fatto che dopo tutto, tu abbia dovuto assistere all’ennesima sceneggiata di quell’uomo”.
Lo sentii irrigidirsi non appena finì di dire quelle parole. Non gli credeva. Anthy era convinto che ogni frase pronunciata da suo padre fosse un’enorme bugia, ma io non la pensavo allo stesso modo. Non lo conoscevo ma i suoi occhi… i suoi occhi erano esattamente come quelli di suo figlio, riuscivo a leggerci dentro. Vi avevo intravisto dolore, sofferenza e rimorso. Tanto rimorso.
“Perché non vuoi provare a dargli una possibilità?”
Emise un verso di disappunto. Era scettico. “Tu non capisci, Susan, io…”
“Puoi parlarne con me, Anthy, prima o poi dovrai liberarti da quello che hai dentro”.
Inspirò così profondamente che il torace si gonfiò. Rimase in silenzio e continuò a percorrermi la pelle con le dita smuovendo l’acqua delicatamente.
“Ti ricordi quando ti ho raccontato che da bambino amavo il silenzio?”
La sua domanda mi lasciò interdetta per un istante ma non lo diedi a vedere, sentivo che stava per rivelarmi qualcosa di importante.
“Mhh mhh”, annuii.
“Può essere sfiancante”.
“Cosa?”
“Rispondere alle domande, difendersi dalle insinuazioni, può essere sfiancante, così avevo smesso di farlo”.

Aggrottai la fronte cercando di capire il significato delle sue parole. “Che vuoi dire?”
“Avevo undici anni quando lui se ne andò”, si mosse leggermente alle mie spalle e io mi voltai per guardarlo. “Non sopportavo quella situazione, non la capivo. Credevo che fosse stata colpa mia, credevo di non essere stato abbastanza per lui”. Appoggiò le braccia sul bordo della vasca e vi si aggrappò come se stesse per cadere.
“Aveva avuto un altro figlio, ti rendi conto di cosa significhi? Cosa voglia dire scoprire che tuo padre, la persona in cui tu ti rispecchi, il tuo esempio, ha preferito qualcun altro a te?”
Gli sfiorai il braccio mentre lui continuava a parlare.
“Non lo accettavo. Non accettavo di dover dare spiegazioni. Non sopportavo i bisbiglii degli altri alle mie spalle. Gemma era ancora troppo piccola per rendersene conto ma io no. Io dovevo fare i conti con la realtà, noi non eravamo abbastanza. Non eravamo stati sufficienti a renderlo felice”.
Il suo cuore aumentò i battiti. Lo sentivo alle mie spalle. Lo avvertivo agitarsi sotto al peso di quella confessione.
“Smisi di parlare”. Prese a tracciare la mia pelle con le dita mentre lo ascoltavo in silenzio. “Mi isolai dal resto del mondo e restai in quel bozzolo per il tempo necessario a superare il suo abbandono. Mia madre era disperata. Non sapeva più come fare con me e alla fine, mi portò in una specie di centro per bambini con problemi di comunicazione”.
Sorrise sarcastico.
“È strano no? Anthy De Sangre Raineri, l’imprenditore di successo, l’uomo che tutti vorrebbero essere, nasconde un passato tormentato da bambino problematico, lo avresti mai detto?”
Ignorai la sua provocazione e lo esortai a continuare. “Che successe poi?”
“Niente”, sospirò, “non può succedere niente se tu non vuoi che accada e io non lo volevo di certo”.
“Mi dispiace…”
“Non devi dispiacerti”, raddrizzò la schiena e mi tirò verso di lui circondandomi il torace con le braccia. “Anche perché, ne sono venuto fuori benissimo, non trovi?”
Sollevai gli angoli della bocca in un pallido sorriso mentre con la mano seguitavo a smuovere il pelo dell’acqua schiumosa. Sapeva di non aver superato quel trauma ma in un modo o nell’altro, si rifiutava di accettarlo. Ignorare l’esistenza di qualcuno non voleva dire averlo dimenticato.

“E poi quel periodo mi ha dato anche qualcosa, è in quel posto che ho conosciuto…”
“Chi?”
“No, lascia stare”. Si ammutolì come se stesse per dire qualcosa di troppo.
“Chi hai conosciuto in quel centro?”
“Nessuno di cui possa o mi vada di parlare adesso”.
Mi prese la mano e se la portò alla bocca baciando un dito alla volta. Osservò i miei polpastrelli raggrinziti e sorrise.
“Credo che sia ora di uscire, signorina, hai le mani consumate dall’acqua”.
“No”, sbuffai, ma lui si era già sollevato in piedi. Uscì dalla vasca e si strofinò addosso un asciugamano di spugna.
“Fuori!” ordinò e io mi alzai del tutto contro voglia. Mi avvolse in un telo e me ne porse un altro per i capelli.
Ero in piedi davanti allo specchio e mi osservavo. Fissavo la mia pelle imperlata da gocce umide e lui che la asciugava con cura.
“Che c’è?” domandò guardando il mio riflesso nel vetro.
Scossi il capo senza rispondere.
“Dimmi che c’è?” insistette ancora.
“C’è che ti amo più di quanto avessi mai potuto immaginare”.

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