Noi … XXI

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Rabbrividii quando il mio corpo fu sfiorato da un refolo freddo. Ero ancora nuda, sdraiata sul letto e sola. Anthy non era più al mio fianco. Mi sollevai di scatto a sedere, i palmi appoggiati sul materasso e la schiena dritta. Fuori era ancora buio, non riuscivo a leggere l’ora ma sembrava notte fonda. Presi il telefono dal comodino e lo accesi.
Le tre del mattino.
Dove poteva essere andato?
Scesi dal letto e mi infilai la prima cosa che mi capitò a tiro. La sera precedente Anthy aveva letteralmente lanciato i miei vestiti dentro al trolley e trovare qualcosa che fosse sopravvissuto al massacro non fu semplice. Mi avvicinai alla porta finestra immaginando di trovarlo sul terrazzo, ma non c’era.
Uscii fuori e perlustrai con lo sguardo l’intero spazio del giardino. Ogni dettaglio era illuminato dalla luna piena che come un enorme faro, rischiarava il paesaggio completamente addormentato. Mi strinsi le braccia intorno alla vita guardando in giro e poi lo vidi.
Anthy camminava lungo il viale alberato che conduceva al cancello, la testa bassa, le mani nelle tasche e il passo incerto.
Si fermò un istante e sferrò un calcio a una pietra. La guardò rotolare giù per il declivio della strada e poi riprese a camminare. Qualche passo. Due, tre al massimo e si voltò. Stava tornando indietro e io non riuscivo a smettere di fissarlo. Era ancora lontano e sebbene non riuscissi a distinguere la sua espressione, era ovvio che fosse turbato. L’incontro con suo padre lo aveva destabilizzato, aveva riacceso il suo bisogno di estraniarsi dal resto del mondo e forse, anche da me.
Gli avrei lasciato il tempo di riflettere, di assorbire il colpo e andare avanti. Non potevo biasimarlo per la sua reazione, in fin dei conti, la verità che gli era appena stata propinata era completamente diversa dalle certezze con cui aveva convissuto negli ultimi vent’anni. Sua madre lo aveva sempre messo in guardia contro quel padre, che a suo dire, li aveva lasciati senza voltarsi mai indietro e lui si era costruito una posizione, una facciata di tutto rispetto sulle fondamenta di un grave abbandono.
Superare la rabbia incamerata nel tempo non era affatto facile. Lo capivo e mi si spezzava il cuore a immaginare il mio uomo nelle sembianze di un bambino problematico dagli occhioni scuri e silenziosi. Lui aveva sofferto a causa di quell’uomo e qualsiasi spiegazione, per quanto vera, non sarebbe riuscita a fargli dimenticare tutto ciò che aveva passato.
Camminava. Anthy camminava e io lo guardavo. Vedevo la sua essenza, vedevo l’uomo che era diventato e vedevo le ferite, quelle che facevano male, quelle non ancora rimarginate. Osservavo la tristezza annidata nel profondo emergere, nonostante gli sforzi per nasconderla dietro a un sorriso impudente.
Io lo vedevo. Lo vedevo in tutte le sue debolezze, ma anche nella sua immensa forza.
Sollevò il capo e i nostri occhi si incrociarono. Continuò a camminare e l’espressione corrucciata del viso si distese a ogni passo verso di me. Non feci nessun gesto, non pronunciai nessun suono, continuai semplicemente a fissare i suoi occhi in lontananza, finché non raggiunse l’ingresso. Solo allora rientrai nella stanza e mi rimisi a letto. Quasi subito riconobbi il rumore della serratura della porta che scattava. Pochi passi. Si sfilò le scarpe, i vestiti e poco dopo, si sdraiò dietro di me incastrandosi contro la mia schiena.
Mi strinse. Un braccio intorno alla vita e l’altro sotto alle spalle. Nessuno di noi parlò, ci limitammo a respirare, a respirare uno contro l’altro per tutto il resto della notte.

“Sei sicuro di volertene andare così?”
Anthy stava finendo di vestirsi mentre io lo osservavo seduta a gambe incrociate sul letto. “Dovresti almeno parlare con Gemma e chiarirvi”.
“Gemma non è esattamente in cima alla lista delle persone con cui ho voglia di parlare in questo momento”.
Chiuse la zip dei jeans e iniziò a rinfilare la cintura nei passanti. “Capisco che sei arrabbiato con lei, ma sono convinta che abbia organizzato tutto questo a fin di bene”.
“A fin di bene?” sorrise sarcastico, “il bene di chi? Non del mio, questo è poco ma sicuro!”
“Anthy, se solo tu…”
“Basta per favore, non ho intenzione di riaffrontare ancora l’argomento, ne abbiamo già parlato, ti ho raccontato delle cose che non conosce nessuno e di cui non vado affatto fiero, perciò ora basta. L’unica cosa che voglio è andarmene di qui il prima possibile!”
“Va bene”.
Non potevo aggiungere altro o sapevo bene che saremmo inciampati in una discussione. Non ero affatto convinta che scappare fosse la soluzione migliore, ma dovevo rispettare la sua volontà.
“Finisci di prepararti, io intanto porto fuori le valigie”.
“Okay”.
Gattonai fino al bordo del letto e mi avviai verso il bagno per darmi una sistemata. Aprii la porta ed entrai, ma prima che potesse chiudersi del tutto mi riaffacciai nella stanza.
“Anthy?”
“Sì?”

”Lo sai che ti amo, vero?”
Sorrise. Un lampo luminoso gli attraversò il viso e tutti i lineamenti si distesero. Riappoggiò i trolleys a terra liberandosi le mani e venne verso di me. Un passo dietro l’altro divorando la distanza in un secondo. Senza aggiungere una sola parola mi prese il mento tra le mani e mi baciò. Sembrava un bacio dolce, delicato, ma non appena la sua lingua si insinuò tra le mie labbra la solita passione che sfrigolava tra di noi prese il sopravvento. Quel bacio inizialmente innocente, si trasformò nel preludio di qualcosa di molto meno casto. Dopo avermi letteralmente divorato la bocca si allontanò appena per riprendere fiato, mi scostò un ricciolo ribelle dal viso e sospirò.
“Come farei?”
“A fare cosa?”
“A vivere senza di te”.
“Ma infatti non dovrai mai farlo”, gli accarezzai la guancia con la mano. “Io non vado proprio da nessuna parte”.
“Ne sei sicura?”
“Sicurissima”.
“Questo è esattamente quello che avevo bisogno di sentire”. Mi sfiorò la punta del naso con un dito e mi regalò uno dei suoi sorrisi più luminosi. “Ora vestiti però, non vedo l’ora di andarmene di qui”.
Riafferrò le valigie e uscì nel corridoio.

Dodici passi.
C’erano esattamente dodici passi tra la nostra stanza e la tromba delle scale. Dovevo fare piano, procedere in silenzio, non avevo nessuna intenzione di incontrare qualcuno di loro, così mi mossi con circospezione mentre le lunghe assi di legno del corridoio continuavano a scricchiolare impercettibilmente sotto al mio peso. Volevo andarmene, questa era l’unica cosa che mi interessava sul serio. Dovevo uscire da quella casa e tornare a Roma con Susan. Avevo ancora qualche giorno a disposizione e potevo trascorrerlo in pace, lontano da tutta la merda che era piombata all’improvviso nella mia vita.
Mi avviai per le scale facendo attenzione a non urtare niente. Scesi nell’ingresso e fui avvolto da un odore forte, di caffè appena fatto. C’era qualcuno nella cucina e io mi acquattai contro la parete.
Era assurdo, stavo sgattaiolando fuori come un ladro mentre le uniche persone che avrebbero dovuto vergognarsi erano loro.
Respira, Anthy, respira.
Mi fermai. Incanalai tutti i sentimenti che mi rivoltavano lo stomaco in un solo profondo afflato. Sarei uscito da quella casa. Subito.
Abbassai lo sguardo verso il pavimento ricoperto da un enorme tappeto persiano, le scarpe affondavano nel tessuto e le dita delle mani erano strette intorno ai manici dei trolleys. Ero finalmente di fronte al portone principale, la mano sulla maniglia pronta a farmi uscire quando sentii delle voci discutere animatamente. Una era di mia sorella, l’avrei riconosciuta tra mille. Le altre due, erano di mio padre e di Bianca, ma la quarta… la quarta non la distinguevo bene, mi sembrava di averla già sentita anche se non ero in grado di associarla a un volto.
Appoggiai i bagagli a terra e ruotai la maniglia intenzionato ad andarmene.
“Che cazzo credevi di fare, Gemma, portandolo qui?” tuonò la quarta voce. “Davvero ti aspettavi che la prendesse bene e che si risolvesse tutto così? E voi due, mi meraviglio che abbiate assecondato questa stronzata, ti facevo più intelligente, mamma!”
Mamma…
A quella parola il mio sangue smise di circolare e si arrestò di colpo precipitando fino alle piante dei piedi. Pulsava. Il mio cuore pulsava all’impazzata. Quella voce era la sua, del mio fratellastro, del bambino che aveva distrutto la mia famiglia e che era stato scelto al posto mio.
Rimasi immobile, rigido. La maniglia nella mano e il braccio che non accennava a muoversi.
“Tu sei proprio come lui!” sbottò Gemma. “Siete due teste calde, reagite sempre in maniera sbagliata, avete lo stesso caratteraccio!”
“Ma davvero? Quindi adesso sarebbe colpa nostra? Saremmo noi a reagire male?”

Indietreggiai. Mi avvicinai alla porta rimanendo nascosto vicino alla parete e continuai ad ascoltare lui che inveiva.
“No ma dico, che diavolo avete tutti e tre nella testa?! Secondo te come avrebbe dovuto reagire? Lo porti qui con un sotterfugio, gli organizzi questo rendez-vous dopo vent’anni, e credevi sul serio che la prendesse bene? E poi quella sceneggiata a Roma…”
“Guarda che non è come pensi, e poi, mi sembra che alla fine abbia partecipato anche tu a quella sceneggiata!” lo rimbrottò risentita.
“Sì, hai ragione, sono stato un coglione ad assecondarti, ma sai perché l’ho fatto? Perché è da ventisette anni che so di avere un fratello e non l’avevo mai incontrato prima”.
“Questa è stata una tua scelta, ti ho proposto mille volte di venire a trovarci in California, ti ho mandato centinaia di foto che non hai mai nemmeno aperto!”
“Proprio non ci arrivi”, sospirò esasperato. “Sai perché mi sono sempre rifiutato di vederlo? La realtà è che temevo il confronto, temevo di assomigliargli troppo o troppo poco. Tu non puoi capire cosa si prova, Gemma!” ringhiò. “Non puoi capire che significa crescere con un uomo che continua a ripeterti quanto gli ricordi qualcun altro, che coglie ogni occasione per paragonarti al figlio perduto!”
Un colpo sul tavolo e una sedia che strisciava sul pavimento furono il segnale che si era alzato. Mi avvicinai sempre di più alla parete cercando di rendermi invisibile e continuai ad origliare.
“Quella sera non avrei mai immaginato di trovarmelo davanti, ma la verità è che quando ho capito chi fosse, non sapevo più come comportarmi. Ho pensato di andarmene, ci ho pensato in continuazione, ma alla fine non ce l’ho fatta. La curiosità ha preso il sopravvento sul risentimento e forse…”
“Forse cosa?”
“Forse mi è piaciuto, cazzo! Lo trovi tanto assurdo? Mi è piaciuto trascorrere del tempo con mio fratello, anche se lui non aveva la minima idea di chi diavolo fossi”.
Ma di che cazzo stavano parlando?
“Ma come hai potuto solo pensare una cosa del genere?” sbottò mio padre all’improvviso. “Io non ho mai fatto differenze o creduto che uno di voi fosse migliore dell’altro, per me siete tutti e tre uguali”.
“Ma davvero?” lo interrogò risentito. “Quante volte ti è mancato in questi anni, papà?”

Non rispose.
“Non lo sai eh? Beh allora te lo dico io: sempre. Ti è mancato ogni fottutissimo giorno! Ogni volta che mi parlavi dei suoi strabilianti successi e non vedevi mai i miei. Ogni volta che raccontavi della tua amata compagnia e di come lui fosse stato bravo a mandarla avanti. Lui era perfetto, mentre io non lo ero altrettanto, solo perché non me ne fregava un cazzo delle tue vigne e delle tue stronzate. Credi che io queste cose me le sia dimenticate? Beh, sai che ti dico? No! Non me le sono dimenticate! Ci sono stato male per anni, almeno finché non ho imparato a fregarmene di tutto!”
Inspirai cercando di restare calmo mentre le sue parole mi ronzavano in testa come un rumore dannatamente fastidioso. Era davvero possibile che lui, il figlio prescelto, fosse geloso di me?
In tutti quegli anni avevo odiato il mio fratellastro con tutto il cuore, ero convinto che nostro padre lo avesse preferito a me, che io non fossi abbastanza per lui e invece, a quanto pareva, nessuno di noi due era all’altezza di quell’uomo. Provai quasi un moto di compassione per lui e l’irrefrenabile desiderio di guardarlo in faccia. Volevo vedere che aspetto avesse colui che mi aveva rubato tutto.
Mi scostai dal muro che mi nascondeva ai loro occhi e avanzai verso la porta aperta. Ormai non c’era più niente che celasse la mia presenza. Gemma fu la prima ad accorgersene, spalancò gli occhi e mi venne incontro. Mio padre trasalì e Bianca gli strinse il braccio per calmarlo. Lui invece rimase immobile, girato di spalle per qualche istante prima di voltarsi verso di me.
Ero senza fiato.
Non poteva essere.
Non poteva essere vero. Dunque quello, era mio fratello.
“Da quanto tempo sei qui?” Gemma cercò di toccarmi un braccio ma la scansai bruscamente. “Anthy, ti posso spiegare”.
Non le risposi neanche. I miei occhi saettavano in un unico punto. Non vedevano altro. Nient’altro che lui.
Il silenzio era sceso in quella stanza come una cappa pesante, asfissiante.
Io non parlavo.
Lui non parlava.
Ci limitavamo a studiarci come due animali feriti, che si fissano prima dello scontro.
“Anthy, ascoltami!”

Mia sorella mi implorava con gli occhi umidi di lacrime e il labbro inferiore che tremava visibilmente. “Per favore, lasciami almeno spiegare…”
“Non c’è niente da spiegare!” la interruppi.
“Invece sì. Ti devo fare capire come sono andate realmente le cose, come mai papà ci ha lasciato e…”
“E sentiamo un po’, chi ti avrebbe raccontato queste verità sconvolgenti, lui?” dissi indicando nostro padre che ci guardava amareggiato. “Risparmiati la fatica di ripetermi quella storia, ho già avuto la mia parte!”
“Perché sei così arrabbiato? È mai possibile che tu non sia capace di dare una seconda possibilità a nessuno?”
“Smettila!” sibilai tra i denti. “Smettila di dire stronzate e levati dalle palle, Gemma!”
La fulminai con lo sguardo.
“Non avrei mai creduto di dirlo in vita mia, ma sono così furioso con te, che non sopporto nemmeno la tua presenza! Mi hai ingannato, mi hai costretto a venire qui sapendo a cosa sarei andato incontro e poi hai coinvolto anche lui…” dissi girandomi verso quei due occhi azzurri che mi fissavano seri.
“Lui non sapeva niente, te lo giuro, è appena arrivato”.
Scossi la testa esasperato mentre il resto del mio corpo sembrava essersi pietrificato. I piedi erano conficcati nel pavimento e non riuscivano a spostarsi di un solo millimetro, i pugni erano così serrati da essere perfino dolorosi.
“Amore, sono pronta per andare”.
Un profumo rassicurante sopraggiunse all’improvviso. Susan stava scendendo le scale accompagnata da una scia della sua essenza preferita. Arrivò in fondo e notando la mia espressione livida, si arrestò di colpo.
“Che sta succedendo?”

Avanzò rapidamente fermandosi al mio fianco. Si guardò intorno e sollevò un sopracciglio.
“Ma… che ci fai tu qui? È capitato qualcosa a Cora?”
Lui scosse la testa senza rispondere.
“Allora perché sei venuto fin quaggiù? Cercavi me?”
Tutti tacevano mentre l’espressione di Susan si faceva sempre più turbata.
“No, amore, non cercava te, cercava me”. Il mio tono era così tagliente che avrebbe potuto fare a pezzi tutti i presenti in quella stanza. “Susan, ti presento mio fratello”.
Sconvolta. La sua espressione era a dir poco sconvolta. “Ma… ma Lorenzo è… io non capisco”.
Si voltò verso di me e mi osservò con quel modo tutto suo. Non ci fu bisogno di aggiungere altro, perché aveva già capito che i discorsi si sarebbero chiusi lì.
“Se volete scusarci, noi togliamo il disturbo”, li ammonii. “Vorrei dire che è stato un piacere, ma non lo è stato purtroppo. E tu”, dissi rivolto verso mia sorella, “non provare a chiamarmi o a cercarmi perché adesso non ho nessuna intenzione di parlarti”.
Gemma era a pezzi. Mi resi subito conto di aver esagerato ma ero talmente incazzato, che non riuscivo a dosare le parole. Una stilla le solcò il viso mentre il verde brillante dei suoi occhi veniva risucchiato dalle lacrime.
“Anthy…”
“Continuate pure la vostra riunione familiare senza di me, buon proseguimento!”
Presi Susan per mano e mi incamminai verso la porta. Mi fermai per prendere le valigie e ce ne andammo.
Dovevo uscire. Sparire immediatamente.

La BMW che Anthy aveva noleggiato qualche settimana prima era parcheggiata davanti alla tenuta. Si avvicinò a passo svelto e fece scattare il portabagagli. Vi infilò dentro i nostri trolleys e lo richiuse con un colpo sordo.
“Ma quest’auto non l’avevamo lasciata a Roma?” domandai avvicinandomi.
“Sì”, rispose secco. “Me la sono fatta portare qui stamattina presto”.
Annuii senza aggiungere altro, il suo umore era precipitato in un baratro oscuro, talmente oscuro da ammutolire anche me.
“Sali!” mi ordinò scivolando all’interno dell’abitacolo e sbattendo lo sportello. Mi sedetti al suo fianco chiudendo la portiera giusto in tempo, prima che Anthy partisse sgommando.
Il viale alberato che conduceva alla strada principale, era ricoperto di ghiaia, che crepitava fastidiosamente sotto alle ruote. Uno sciame, di pietrisco e polvere, si sollevò da terra schizzando in ogni direzione al nostro passaggio. Aveva fretta di allontanarsi e questo, gli faceva aumentare la pressione sull’acceleratore.
Arrivati in fondo al sentiero svoltò a sinistra e si immise sulla statale.
Non dissi niente, mi limitai a osservarlo mentre guidava in religioso silenzio. Le mani serrate intorno al volante, le nocche bianche e la mascella che scivolava avanti e indietro.
Era furioso, non lo avevo mai visto così.
“Anthy…”
“Non adesso per favore. Non. Adesso”, tuonò.
Abbassai lo sguardo sulla moquette antracite che ricopriva il fondo dell’auto e rimasi in silenzio. Minuti. Lunghissimi minuti di silenzio.
Sentivo crescere la distanza fra di noi mentre la sua furia prendeva il sopravvento. Era così fuori di sé che sembrava essersi dimenticato perfino che io fossi lì.
Alberi, campi e case. Alberi, campi e ancora case scorrevano in sequenza attraverso il finestrino mentre la mia preoccupazione cresceva. Non ero mai stata un’amante della velocità, soprattutto dopo che i miei genitori erano morti uscendo di strada in un tragico incidente.

A ogni curva sentivo la tensione aumentare e tutti i muscoli irrigidirsi. Mi aggrappai con la mano al supporto sullo sportello mentre lui continuava a sfrecciare a più di cento all’ora. Quelle stradine erano sì, poco trafficate, ma estremamente strette e più il contachilometri aumentava, più la visuale sembrava restringersi.
“Potresti rallentare, per favore?” lo supplicai con un filo di voce quasi temendo la sua reazione.
Non rispose. Afferrò il cambio con la mano scalando la marcia e affondò ancora di più sull’acceleratore.
“Anthy, mi stai facendo spaventare, rallenta!”
Sbuffò. Sollevò il piede dal pedale e si voltò a guardarmi.
“Così va bene?” domandò caustico.
“Sì, così va bene”, inspirai sollevata, ma non appena spostai gli occhi verso la strada il mio cuore si fermò di colpo.
È strano come in alcuni momenti, il mondo sembra fermarsi. Come tutto ciò che ci circonda, inizi improvvisamente a scorrere a rallentatore.
Qualche istante.
Avvenne tutto in una manciata di secondi.
Il sangue si ghiacciò nelle vene, i polmoni bruciarono e il cuore saltò un battito.
Non avremmo evitato quell’auto.
Non a quella velocità.
Ci saremmo scontrati, questo era quello che stava per succedere. Non feci in tempo a fare niente, nemmeno a gridare.
Lo schianto fu l’ultima cosa che il mio cervello fu in grado di ricordare. Il rumore delle lamiere che si contorcevano, la deflagrazione degli airbag e il mondo che iniziava a girare. Sotto e poi sopra. Sotto e poi sopra.
Ancora e ancora.
Polvere.
Un dolore lancinante e il sapore metallico che mi riempiva la bocca.
Guardai un’ultima volta la luce del sole attraverso i vetri infranti e poi… si fece tutto buio.

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