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Voci.
C’erano delle voci in lontananza ma non vedevo di chi fossero. Non riuscivo a muovermi e facevo fatica anche a respirare, c’era molta polvere, fumo, un ripugnante odore di gomme bruciate, olio e… sangue.
Di chi era quel sangue?
Aprii le palpebre lentamente. Tutti gli airbag erano esplosi e pendevano dai supporti ormai inermi.
Richiusi gli occhi. Era uno sforzo disumano tenerli aperti. Rimasi così per un po’, non ero in grado di quantificare con precisione quanto, probabilmente avevo perso i sensi per alcuni minuti.
“Oddio mio! Ma che cazzo è successo?”
Una voce mi riscosse dal torpore.
“C’è stato un incidente”.
Passi. Passi pesanti tra la vegetazione. Ramoscelli che si spezzavano e un brusio di imprecazioni, sospiri e lamenti che si avvicinavano. Qualcuno stava venendo quaggiù.
“Cristo Santissimo. Sono loro…”
Lo scalpiccio si fece sempre più rapido, più ravvicinato. Colpi. Una serie di colpi sul metallo a cui era appoggiata la mia testa che pulsava incessantemente.
“Anthy, mi senti? Anthy!”
Avevo gli occhi pesanti e il cranio che scoppiava dal dolore.
“Anthy, cazzo, rispondimi! Non è possibile! Tutto questo è…”
Quella voce… ora riconoscevo perfettamente quella voce, era lui… mio fratello.
“Ci sono”, biascicai a fatica mentre il cervello riprendeva possesso del mio corpo addolorato. Mi sfiorai la fronte con le dita e sentii qualcosa di umido e appiccicoso impiastricciarmi la pelle. Allora era da lì che proveniva quell’odore, ero io a sanguinare.
“Dio ti ringrazio. Ce la fai a parlare?”
Annuii ancora totalmente frastornato. Provai a riaprire gli occhi ma la luce era dannatamente dolorosa. Mi faceva male la testa. Un male assurdo.
“Anthy, adesso ascoltami. La vedi? Riesci a vedere Susan?”
Susan…
Non appena realizzai che anche lei era intrappolata in tutto quel casino fui sopraffatto dal panico.
Susan…
Mi voltai a fatica e dischiusi le palpebre.
Quello fu il momento più orrendo della mia vita.
Lei era immobile. Riversa da una parte coi capelli che le ricadevano addosso. Il viso era una maschera cremisi da cui continuavano a sgorgare rivoli rosso vivo, gocciolavano sulle spalle, strisciavano sul collo, serpeggiavano sulle braccia.
Dio mio…
La donna che amavo più della mia stessa vita era esanime e ferita. Tremavo. Stavo tremando dallo shock, dalla paura e dal rimorso. Era stata colpa mia. Solo colpa mia.
“Susan…” mormorai a fatica cercando di scuoterla appena. “Amore, ti prego rispondimi!”
Non rispondeva. Lei non rispondeva e per quello che ne sapevo poteva essere anche… oddio non ci potevo pensare.
“Anthy, ti prego ascoltami, come sta lei?”
“Non si muove”, risposi con la voce sopraffatta dal terrore. “Non si muove”, ripetei mentre sentivo il cuore spaccarsi nel mezzo. “Aiutala, ti prego!”
“Sta tranquillo, hanno già chiamato i soccorsi, cerca solo di rimanere lucido e continua a parlarmi, okay?”
Parlare. Di che dovevo parlare? Della mia vita che era appena stata distrutta in quello schianto?
“Amore”, singhiozzai stringendole la mano, “ti prego, amore… apri gli occhi. Guardami!”
Non mi sentiva. Lei non mi sentiva. Non reagiva alle mie parole, non reagiva al mio contatto. La morsa che mi attanagliava lo stomaco si fece sempre più stretta, più dolorosa.
Non potevo perderla. Non potevo.
Intrecciai le mie dita alle sue per un tempo che sembrò non finire mai. Un minuto può sembrare un’eternità quando sei intrappolato in un ammasso di lamiere contorte e l’odore ferruginoso del sangue permea l’aria.
Le stringevo la mano. Minuscola, pallida e terribilmente fragile. Se lei mi avesse lasciato per sempre io…
Scossi la testa e il cervello iniziò a pulsare offuscandomi la vista per un istante. Stavo cercando di trattenermi ma non ci riuscii. Singhiozzi. Singhiozzi dolorosi e strazianti iniziarono a formarsi nel petto. Sentivo le lacrime scorrermi sul viso una dietro l’altra. Una sopra all’altra.
Non avevo più pianto da… anni, solo lei era riuscita a toccarmi così profondamente da restituirmi il dolore e quello che provavo in quel momento, andava ben oltre qualsiasi cosa avessi mai sperimentato in vita mia. Era lacerante. Straziante.
“Andrà tutto bene, okay? Vi prometto che andrà tutto bene”.
Quei due occhi azzurri così diversi dai miei e pure così simili, mi guardavano seri oltre la barriera dei vetri infranti. Annuii aggrappandomi a lei, alla sua mano. Quella donna era l’altra parte del mio cuore e non potevo perderla. Chiusi le palpebre per un istante assecondando la stanchezza che si faceva sempre più pressante.
La testa pulsava e il dolore sembrava propagarsi ovunque, cerchi concentrici che si allontanavano uno dall’altro, uno sull’altro. Era devastante.
Mi sforzai di rimanere lucido, di non soccombere al desiderio di lasciarmi andare. Dovevo resistere, dovevo restare vicino a lei.
A fatica sollevai ancora le palpebre. Mio fratello era un’immagine distorta, lo vedevo attraverso la sequela di pezzi che componevano ancora a stento il parabrezza. Si passava le mani tra i capelli girando su se stesso nervosamente. Camminava avanti e indietro, la T-shirt chiara era macchiata dall’olio dei rottami e aveva un’espressione assolutamente sconvolta.
Mi voltai verso di lei. Era ancora incosciente. Pallida. Immobile. Il sangue iniziava a rapprendersi sulla spalla e sul collo. Ascoltai il suo respiro lento e quasi impercettibile per un’infinità di tempo. Troppo tempo.
“Ti prometto che ci tireranno fuori di qui, amore”, mormorai con un filo di voce. “Te lo prometto, ma non lasciarmi. Devi resistere, okay? Devi farlo per me, per noi”.
Le toccai il polso con la punta delle dita. I miei movimenti erano limitati, non avevo molto margine di manovra ma riuscii comunque a sentire il sangue che pulsava attraverso la sua pelle candida. Batteva. Il suo cuore batteva lento, quasi stanco.
“Ti prego, non lasciarmi”, singhiozzai ancora. “Ti prego, amore mio”.
Non potevo aver distrutto tutto quanto, non potevo averla quasi uccisa. Immagini dei giorni precedenti iniziarono a scorrermi davanti come un film proiettato solo per me. Lei che sorrideva, che mi guardava con quegli occhi che mi avevano letteralmente travolto. Mi sembrava quasi di toccarla. Provavo ancora la sensazione della sua pelle contro la mia, sentivo il sapore della sua bocca.
“Sono quaggiù! Venite, presto!”
La voce di Lorenzo rimbombò come una deflagrazione e in un attimo il silenzio fu sopraffatto dal rumore. Le sirene risuonavano tutt’intorno e la luce bluastra che si proiettava dai lampeggianti rifletteva sui vetri infranti illuminandole il viso ritmicamente. Accesa, spenta. Accesa, spenta.
Saremmo usciti vivi da quell’inferno. Doveva essere così. Lassù qualcuno doveva per forza lasciarla vivere. Io non esistevo senza di lei.
“Hai sentito, amore?” le dissi accarezzandole delicatamente la mano. “Stanno arrivando i soccorsi. Ci tireranno fuori, te lo prometto”, sospirai.
In un attimo eravamo circondati. C’erano almeno dieci uomini che armeggiavano intorno a quello che rimaneva dell’auto.
“Lui è cosciente, lei no”. Lorenzo parlava con il vigile del fuoco alla sua sinistra.
“Mi sente, signore?”
Annuii e lui provò a forzare lo sportello senza risultati.
“Stia calmo, va bene? Adesso vi faremo uscire”. Fece un gesto sollevando lo sguardo verso la strada da cui eravamo precipitati e tutti iniziarono a muoversi.
“Come si chiama?”
“Anthy”.
“Bene, Anthy, io sono Leonardo, sono un vigile del fuoco e sono qui per aiutarvi, okay?”
“Okay”, risposi trattenendo il fiato.
“Riesce a muovere le gambe e le braccia?”
“Sì”.
“È ferito da qualche parte?”
“Sì, credo di sì”.
“Sa dirmi dove?”
“Alla testa”.
“Si ricorda che cosa è successo?”
“Abbiamo avuto un incidente, una macchina…” mormorai stringendo i denti dal dolore. “Una macchina ha invaso la nostra corsia e siamo andati fuori strada”.
I passi intorno a noi si fecero sempre più frenetici. C’era gente che urlava a qualcuno di prendere qualcosa. Altri che cercavano di avvicinarsi all’altro lato dell’auto ma senza successo.
“Anthy, rimanga con me! Come si chiama la sua fidanzata?”
“Susan… si chiama Susan”, sospirai girandomi a fatica verso di lei.
“Ora ci serve il suo aiuto per capire come sta Susan, va bene?”
Annuii.
Riesce a vedere se respira liberamente o se c’è qualcosa che le impedisce di farlo?”
“Respira”, ansimai, “respira ancora”.
“Bene, adesso stia tranquillo, tra pochissimo sarete fuori di lì”.
Un rumore assordante partì di colpo. Sembrava un motore o qualcosa di molto simile.
“Allora, Anthy, le spiego quello che abbiamo intenzione di fare, con queste cesoie cercheremo di aprire un varco fra le lamiere, va bene? Lei deve rimanere immobile. Ce la fa?”
“Sì”.
“Bene, allora, tra pochi minuti sarà fuori, glielo prometto”.
Il rumore aumentava, e piano piano, quello che rimaneva della macchina veniva tagliato via un brandello alla volta.
“Fermi! Fermi ho detto!” gridò Leonardo. “Fate venire i paramedici, stiamo per estrarlo”.
Lo sportello venne divelto con un colpo secco e io fui finalmente libero di muovermi. Lorenzo mi fissava atterrito. Le mani tra i capelli e il viso completamente cinereo.
“Ora la tiriamo fuori, rimanga fermo, okay?”
Sentii delle mani che mi abbrancavano e mi adagiavano delicatamente su una barella. Una ragazza dalla tuta rossa mi sosteneva la testa con le dita mentre un altro uomo mi posizionò un collare intorno al collo. Quella ragazza parlava, mi faceva una serie di domande, ma l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che io ero fuori mentre lei era ancora lì dentro. Quando mi sollevarono da terra potei vedere lo scempio, o meglio, ciò che restava della mia auto. Niente. Non ne era rimasto praticamente niente.
Mi chiesi come avessimo fatto a non morire in uno schianto del genere e poi… lei. Le sue immagini mi affollavano la mente. Susan mi sorrideva e giaceva senza vita riversa nell’auto. Mi parlava e poi smetteva di respirare.
“Tiratela fuori”, pronunciai a fatica.
“Non si preoccupi, i vigili del fuoco stanno facendo il possibile, vedrà che andrà tutto bene”.
Lorenzo camminava al mio fianco senza dire nemmeno una parola. Sembrava incapace di riconnettere il cervello. Girai gli occhi verso di lui, nero e azzurro che si riconoscevano per la prima volta.
“Vai da lei”, lo pregai.
Lorenzo annuì e qualcosa in quel momento si ruppe per sempre. Sparirono i preconcetti, la gelosia, la rabbia. Tutto il risentimento che avevo provato contro di lui si frantumò, perché in quel momento, gli avevo affidato la cosa più preziosa della mia vita.
Gli avevo affidato lei.
“Lei come sta? L’hanno già tirata fuori? Dovete dirmi come sta!” intimai alla ragazza con la tuta rossa.
“Stia calmo, vedrà che andrà tutto bene”.
Tutto bene.
Continuava a ripetermi la stessa cosa ma non andava tutto bene, non andava bene per niente. Era passata un’eternità da quando mi avevano caricato sulla barella e nessuno voleva dirmi niente. L’autoambulanza sfrecciava a tutta velocità con le sirene spiegate mentre la ragazza con la tuta rossa continuava a parlarmi gentilmente.
“Siamo quasi arrivati, stia tranquillo”.
“E Susan? La porteranno nello stesso ospedale?”
“Dipende”.
“Dipende da cosa?”
“Dalle sue condizioni”, intervenne il medico alla mia destra. “Non si agiti per favore, le dobbiamo misurare la pressione”.
Stare calmo? Come facevo a stare calmo. Non sapevo cosa le sarebbe successo, non sapevo come stesse. Era impossibile anche solo pensare che potessi calmarmi.
Dopo alcuni minuti l’ambulanza si fermò di colpo. Le sirene continuavano a suonare incessantemente e il portellone si riaprì. La ragazza con la tuta rossa aiutata da altri paramedici fece scendere la barella che iniziò a muoversi. Mi ritrovai all’interno del pronto soccorso accerchiato da dottori e infermieri. I miei occhi erano inchiodati al soffitto mentre mi muovevo sospinto da due paia di mani piazzate ai lati della barella. Continuavo a fissare il susseguirsi dei neon appesi a una distanza abbastanza ravvicinata. Luce e bianco. Luce e bianco. Le mie pupille si muovevano freneticamente per assecondare quegli impulsi luminosi mentre i medici continuavano a parlarmi.
Domande, esami, controlli, e ancora domande. Rispondevo meccanicamente, facevo quello che mi chiedevano, ma dentro di me, stavo per esplodere. Non mancava più molto anche perché, nessuno rispondeva alle mie di domande. Nessuno voleva dirmi nulla.
“Le ho detto che sto bene!” sbottai all’improvviso contro il dottore che mi stava visitando.
“Questo lo lasci giudicare a noi”, rispose lapidario.
“Allora lei non capisce, l’unica cosa di cui ho bisogno in questo momento è sapere come sta la mia fidanzata e andare da lei”.
“Adesso si calmi per favore”, il dottore mi guardava serio dietro agli occhiali squadrati. “Lei non può muoversi di qui, almeno finché non avremo la certezza che sia tutto a posto”.
Sbuffai esasperato, “ditemi almeno dove si trova”.
Una sirena. Una sirena che si avvicinava e si faceva sempre più intensa. I medici e le infermiere si guardarono fra di loro e iniziarono a muoversi rapidamente. Stava accadendo qualcosa.
“Che succede?” domandai alla donna che mi stava sistemando la flebo.
“È arrivato un altro ferito”, rispose evasiva.
“È lei?” la incalzai. “Mi deve dire se si tratta della mia fidanzata”.
I bip del monitor a cui ero attaccato iniziarono a farsi sempre più ravvicinati e le piccate sempre più irregolari.
“Non lo so, adesso provo a domandare a qualcuno va bene?”
I suoi occhi scappavano in ogni direzione, mi evitavano. Era lei. Ero sicuro che fosse qui a pochi metri da me. Me lo sentivo.
L’infermiera annotò qualcosa su un foglio e si infilò la penna nel taschino. Mi sorrise in modo sfuggente e sparì dietro alla porta laccata lasciandomi in un mare di angoscia. Non potevo starmene lì immobile, senza sapere che cosa stesse succedendo. Provai a mettermi seduto ma la testa mi scoppiava.
Strinsi gli occhi per contenere il dolore e appoggiai lentamente i piedi sul pavimento. Tutto divenne improvvisamente nero. Stavo per svenire.
“Dove crede di andare, lei?”
L’infermiera appena rientrata mi afferrò per una spalla, giusto in tempo per evitarmi di cadere a terra.
“Le avevo detto di stare tranquillo”.
Mi fece distendere nuovamente mentre il mondo cominciava a riprendere un po’ di colore.
“Non può alzarsi, lo capisce questo? Ha riportato una commozione cerebrale e anche se non ha niente di rotto, deve starsene a riposo”, mi rimproverò.
“Susan è qui vero? Mi dica come sta, la prego”.
Cercai di indagare nella sua espressione, di trovare una conferma nei suoi gesti. “Lo devo sapere”.
Annuì. Quella donna annuì e il mio cuore smise di battere.
“Sta bene?” la incalzai battendo ritmicamente le palpebre.
“Questo non posso dirglielo, devono ancora farle degli accertamenti, ma le posso garantire che è in buone mani”.
Scossi la testa serrando le labbra che iniziarono a tremare. “Io devo vederla”.
“Non se ne parla proprio. Lei non può muoversi”, decretò, “non appena avrò qualche notizia verrò a informarla personalmente, okay?”
“Okay”, ribattei contrariato. “Senta, potrebbe far entrare il ragazzo che è arrivato insieme alla mia fidanzata? Dovrebbe essere qui fuori da qualche parte”.
“Non potrei lasciar entrare nessuno”.
“La prego”.
Sospirò in preda all’esasperazione. “E va bene, come si chiama?”
“Lorenzo”.
“Vedo quello che posso fare ma non le garantisco niente”, scosse la testa e se ne andò. Rimasi fermo per diverso tempo a fissare una porta chiusa.
Dove diavolo era finita quell’infermiera? Perché ci metteva tanto?
Quando vidi la maniglia abbassarsi il mio battito cardiaco accelerò di colpo. La porta rimase immobile per qualche istante e poi lentamente si aprì.
Lui era in piedi davanti a me, con lo sguardo basso mi scandagliava dalla punta dei piedi fino alle spalle.
“Come ti senti?”
“Bene. Io sto bene, ma non ti ho fatto chiamare per parlare di me, voglio sapere come sta lei, dimmi qualcosa per favore, perché qui non mi dicono niente”.
Sollevò la fronte e mi guardò dritto negli occhi abbozzando un pallido sorriso.
“Da quello che so, le stanno facendo dei controlli”.
“Ma tu l’hai vista?”
“Non ancora, i medici non fanno entrare nessuno finché non finiscono di visitarla”.
In quel momento la porta si aprì e l’infermiera di prima riapparve davanti a noi. “Ho appena parlato con il dottore che ha visitato la sua fidanzata”.
“Quindi?”
“Sa che non potrei darle questo genere di informazioni, vero?” disse corrugando la fronte.
“Ovviamente”.
“Bene, allora saprà anche che la nostra conversazione deve ritenersi assolutamente confidenziale”. Si voltò verso Lorenzo e lo scrutò attentamente.
“Può starne certa, e adesso mi dica, come sta?”
Si schiarì la voce e si aggiustò gli occhiali sul naso. “Al momento è vigile, ha ripreso conoscenza, risponde alle domande anche se non si ricorda niente dell’incidente. Ha qualche lesione superficiale, forse un braccio rotto, ma niente di apparentemente grave”.
“Quindi sta bene?!”
“Dai primi accertamenti sembrerebbe di sì, siete stati entrambi molto fortunati”.
“Posso vederla?”
“Per ora non è possibile, cerchi di riposare e vedrà che tra poco il dottore la ragguaglierà sulle sue condizioni”.
Riposare? Ma come potevano anche solo pensare che potessi starmene lì sdraiato senza fare niente.
“Non se ne parla, io voglio vederla!”
“Signor Raineri, ho già fatto fin troppe eccezioni con lei, veda di non approfittarne. E lei”, disse rivolgendosi a Lorenzo, “è il fratello giusto? Allora cerchi di farlo ragionare, è uno dei pazienti più indisciplinati che abbia mai visto!”
“Come fa a sapere che siamo fratelli?” le domandò.
Lei alzò le spalle e ci osservò attentamente, prima lui, poi me, destra, sinistra. “Vi assomigliate, non ci vuole molto a capirlo”.
Ci guardammo per un istante senza aggiungere altro.
“Ora devo tornare al mio lavoro, tra un po’ tornerò a vederla”.
“Va bene”.
Si voltò su sé stessa e uscì dalla mia stanza.
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