Noi … XXIII

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“Bene, Susan, ora segua il movimento del mio dito”.
Il giovane medico, che mi stava visitando, mi osservava con grande concentrazione mentre spostava l’indice da destra a sinistra e da sopra a sotto.
“Continui a seguirmi”, disse avvicinandomi il dito alla punta del naso.
“Benissimo, la motilità oculare sembra essere nella norma”.
Tirò fuori dal taschino una specie di penna e la fece ruotare proiettando, a terra, una minuscola lucina.
“Adesso apra bene gli occhi e stia ferma”.
Sollevò quel minuscolo oggetto luminoso indirizzandolo prima nell’occhio destro, poi in quello sinistro. Annuì soddisfatto e con un movimento rapido, spense la luce e la rimise al suo posto.
“Bene, Susan, adesso le toccherò il viso, mi dica esattamente cosa sente e se la sensibilità è la stessa da entrambe le parti, va bene?”
Piegai leggermente la testa in avanti in segno di assenso e il medico iniziò a sfiorarmi prima una tempia e poi l’altra scendendo sempre più verso il collo.
“Sembra tutto a posto”, mi disse dopo aver eseguito un’altra serie infinita di test, “adesso aspettiamo solo i risultati delle analisi e delle radiografie, nel frattempo però, cerchi di riposare”.
Abbassai lo sguardo, senza ribattere e posai gli occhi sul braccio dolorante, era completamente gonfio e violaceo. Provai a sollevare le dita muovendole ritmicamente, ma il dolore che si irradiava dal polso, era insopportabile. L’ematoma, poco prima appena visibile, che si stava scurendo sempre di più, aveva invaso a poco a poco anche la mano che era diventata quasi irriconoscibile.
Fu in quel momento che me ne accorsi.
Il mio cuore si fermò per un istante e io impallidii.
“Susan, si sente bene?”
“Dov’è?” domandai sempre più agitata.
“Dov’è cosa?”
“Dov’è finito il mio anello?”

L’espressione preoccupata del dottore si tramutò ben presto in qualcos’altro. “Di quale anello sta parlando?”
“Del mio anello? Ero sicura di averlo prima… prima dell’incidente”.
Il medico si guardò intorno cercando di trovare supporto in qualcuna delle infermiere presenti nella stanza, ma entrambe alzarono le spalle come se non sapessero di cosa stessi parlando.
“Non può essere sparito, io…”
“Adesso si calmi per favore, non le fa bene agitarsi in questa maniera”.
Calmarmi? Come potevo calmarmi?
“No, guardi, lei non si rende conto, io… io non posso averlo perso”. Sentii gli occhi riempirsi improvvisamente di lacrime, erano pesanti, urticanti e mi rendevano difficile anche vedere nitidamente. Stavo per esplodere in un pianto dirompente. Ero terribilmente scossa. L’incidente, il fatto di non aver ancora visto Anthy e poi… questo.
Non potevo aver perso l’anello che lui mi aveva regalato.
“Susan, per favore, cerchi di respirare lentamente e la smetta di agitarsi”, ruotò le iridi verso l’infermiera alla mia destra e riprese a parlare. “Ora la signorina Maria, si informerà se le è stato tolto al pronto soccorso”.
Bastò un’occhiata da sotto gli occhiali squadrati per far balzare sull’attenti la ragazza al mio fianco. “Certo, dottore, vado subito a chiedere di sotto” proclamò e con passo spedito si precipitò nel corridoio richiudendosi la porta alle spalle.
“Io non credo che me lo abbiano tolto”, sospirai, “me ne sarei ricordata altrimenti”, strinsi il lenzuolo in una mano e iniziai a tremare. “L’ho perso!”
I singhiozzi divennero sempre più implacabili, mi scuotevano il petto che si sollevava e si riabbassava continuamente.
Il dottore si sedette sul letto al mio fianco e mi prese il mento tra le dita. Mi guardò dritto negli occhi. Avevo lacrime ovunque, scivolavano sul viso, si raggrumavano sulle ciglia e cadevano una dietro l’altra sul minuscolo camice che mi copriva appena.
“Si rende conto di quanto siete stati fortunati a uscire indenni da un incidente del genere?” domandò dolcemente. “Anche se avesse perso questo famoso anello, sarebbe niente rispetto a quello che avrebbe potuto perdere questa mattina”.
Aveva ragione. Lui aveva perfettamente ragione, avevamo rischiato la vita entrambi e… sarebbe potuta andare molto peggio.
Mi calmai immediatamente. Le ciglia si mossero un paio di volte liberandosi dalle lacrime che vi erano rimaste ancorate; mi strofinai le guance con la mano sana e tirai su col naso. In quel momento la porta si aprì e un’altra infermiera dall’aspetto preoccupato entrò nella stanza.
“Dottore, posso parlarle un istante?” domandò rimanendo immobile a due passi circa dalla porta.

“Mi dica, Lucia, c’è qualche problema?”
“Si tratta del ragazzo”, rispose guardandomi con la coda dell’occhio.
Parlava di Anthy, ne ero certa.
“Che cosa è successo?” domandai agitata. “Come sta il mio fidanzato?”
L’infermiera sollevò gli occhi al cielo e il medico si voltò nuovamente verso di me.
“Il suo fidanzato sta benissimo, non si preoccupi”, mi rassicurò immediatamente, “e lei, Lucia, venga fuori con me, per favore”.
Le poggiò una mano sulla spalla e la fece uscire in corridoio. L’infermiera bionda, che era ancora alla mia sinistra, mi sorrise dolcemente mentre i miei occhi vagavano circospetti osservando il labiale ora del medico, ora della donna, al di là della porta aperta. Lei parlava in tono concitato e lui si sfiorava il mento accarezzandosi il pizzetto. Annuì un paio di volte e poi smisero di confabulare tra di loro. Il dottore rientrò nella stanza mentre Lucia si dileguava nello stesso modo in cui era venuta.
“Allora, Susan, dove eravamo rimasti?”
“Dottore, mi deve dire di cosa si tratta”, lo interruppi, “mi avete detto che Anthy sta bene, ma allora perché non me lo fate vedere? Se è successo qualcosa voglio saperlo”.
“Glielo ripeto, non c’è nulla di cui si debba preoccupare” mi rassicurò, “a parte il fatto che il suo fidanzato sta facendo il diavolo a quattro pur di venire qui da lei”.
Scosse la testa divertito. “Sta facendo impazzire tutte le infermiere”.
Sorrisi immaginando quanto potesse essere intrattabile in quella situazione.
“Se la sente di ricevere visite?”
La mia bocca si mosse da sola allargandosi in un enorme sorriso. Annuii freneticamente nonostante il mal di testa che mi mordeva le tempie. Avevo bisogno di vederlo. Subito.
“Bene, allora, se mi promette di non affaticarsi troppo e di convincerlo a stare un po’ più tranquillo, acconsentirò a farlo spostare nella sua stanza”.
“Grazie, dottore, sarebbe magnifico”.
Lui sorrise, fece un cenno del capo alla ragazza alle mie spalle e si avviò verso la porta. Afferrò la maniglia, fece scattare la serratura e poi si voltò ancora verso di me. “Appena avremo le risposte dei suoi esami tornerò a farle visita”.
“Va bene, grazie”.

Piegò la testa in segno di saluto e uscì seguito dall’infermiera bionda di cui ignoravo ancora il nome.
Erano passati diversi minuti. Un tempo interminabile per chi, come me, era bloccato in un letto ad aspettare. Osservai le lancette dell’orologio appeso alla parete fare più e più volte il loro percorso all’interno del quadrante. La felicità lasciò il posto all’impazienza dopo il decimo giro e l’impazienza, si tramutò ben presto in frustrazione. Avevo perso il conto di quante volte i miei occhi si erano sollevati a controllare l’ora.
Sbuffai contro una ciocca che mi ricadeva sulla fronte e poi lo sentii. Un borbottio. Un vociare maschile attraverso il corridoio.
Il mio cuore accelerò i battiti da zero a cento in pochi istanti. Era lui. Lo avvertivo sull’attaccatura dei capelli che sembravano sollevarsi, sulla pelle che formicolava e nello stomaco, in cui era appena esploso il nodo d’ansia che cercavo di tenere a bada.
Quando la porta si aprì, ero già pervasa da scariche elettriche e la tensione che avevo accumulato riesplose non appena lo vidi. Era seduto su una sedia a rotelle, la fronte ricoperta da una benda bianca e le mani che si stringevano saldamente ai braccioli. Mi guardò senza dire nemmeno una parola, sembrava che il fiato avesse abbandonato completamente il suo corpo. Mi osservava attento, dalla cima della testa fino alla punta dei piedi. I suoi occhi scuri sembravano un ecoscandaglio, erano silenziosi, ma su di me generavano un enorme rumore.
Vidi il suo viso contrarsi non appena notò il mio braccio tumefatto e lo ritrassi immediatamente, nascondendolo alla sua vista per paura che si accorgesse dell’anello.
“Spero che adesso la smetterà di agitarsi”.
La voce dell’infermiera Lucia ruppe il silenzio nella stanza e solo allora, mi resi conto che non eravamo soli. Fu con mio grande stupore che notai Lorenzo alle spalle di Anthy, mi sorrideva mostrando la dentatura perfetta, spinse la sedia a rotelle più vicino al mio letto e gli afferrò una spalla. Anthy non parlava. Sollevò un braccio e poggiò il palmo sopra la mano di suo fratello stringendola. Quello a cui stavo assistendo era qualcosa di veramente incredibile.
“Ora mi credi?” domandò Lorenzo piegandosi verso di lui. “Eccola qua, tutta intera come ti avevo promesso”.
Sollevò gli occhi verso di me rimanendo a un soffio dal suo viso. La somiglianza era innegabile. Ora che li vedevo così vicini non potei fare a meno di notare la forma delle labbra, il colore dei capelli, dettagli, tanti piccoli dettagli che rendevano evidente la realtà. Erano fratelli e forse, in quella triste circostanza, si erano finalmente ritrovati.

La sua mano mi stringeva la spalla come per infondermi sicurezza, probabilmente aveva capito che in quel momento avrei potuto cedere.
Mi mancava l’aria.
Susan era immobile, semi sdraiata sul letto e mi guardava. Quei due enormi occhi azzurri erano cerchiati di viola, aveva il viso livido e i capelli erano una massa informe e vischiosa. Non l’avevo mai vista in un simile stato e il pensiero che la colpa di tutto ciò fosse la mia mi impediva di respirare, figuriamoci di parlare.
Strinsi la mano di mio fratello appoggiandola sopra alla sua, avevo bisogno di conforto e in quel momento, lui era l’unico a cui potessi aggrapparmi. È strano come un legame che sembra inesistente esploda all’improvviso in tutta la sua forza. L’avevo odiato, ignorato e adesso…
Non lo sapevo nemmeno io cosa provassi per lui adesso, forse era solo gratitudine o forse…
“Allora, vuoi deciderti a dirle qualcosa?”
Lorenzo mi parlò quasi all’orecchio, mi stava provocando ma sapevo bene qual era il suo obiettivo, voleva che tornassi in me, che superassi lo shock di averla trovata in quelle condizioni.
Le parole stentarono a uscire finché non farfugliai un “come ti senti?”
Quella fu l’unica frase che fui in grado di pronunciare e lei rispose con un sorriso abbozzato.
Dieci minuti prima avrei spaccato il mondo pur di vederla, avevo urlato, insultato e vociato per tutto il tempo ma adesso, adesso non riuscivo nemmeno a guardarla negli occhi.
La osservai attentamente, dall’alto in basso. Le gambe nude sembravano l’unica cosa rimasta integra mentre il resto… era impressionante. Un braccio era completamente pesto, non c’era un solo millimetro di pelle che non avesse assunto una qualche sfumatura di colore, virava dal giallognolo al viola fino a diventare bluastro in alcuni punti. Lei cercava di nasconderlo al mio sguardo ma era impossibile, i miei occhi sembravano incatenati su quella devastazione. Era qualcosa di involontario, come quando ci si ritrova a fissare un punto fisso mentre la mente si perde in congetture tutte sue.
“Finalmente abbiamo trovato il modo per farlo stare zitto”. La voce dell’infermiera si levò con un accenno di soddisfazione. “Se avessi saputo che bastava così poco per farlo ammutolire, l’avrei portato qui molto prima”.
Susan abbassò lo sguardo e io mi voltai verso quella donna. Le scagliai addosso un’occhiataccia ma, con grande sorpresa, mi accorsi che non c’era scherno nella sua espressione, in quei pozzi scuri che mi fissavano c’erano solo solidarietà e compassione. Forse aveva intuito anche lei che il mio silenzio era figlio del senso di colpa.
“Sarà meglio che torni a lavoro”, disse lisciandosi il camice immacolato. “Si sdrai”, indicò un pallido giaciglio posto in un lato in ombra della stanza.
“No grazie, preferisco starmene seduto qui”.
“Ovviamente è inutile provare a farla ragionare, giusto?”
“Giusto”.
“Bene”.

L’infermiera cancellò ogni traccia di sentimentalismo dal viso e a passo marziale, si avviò verso il corridoio. Non appena la porta si chiuse alle sue spalle, un trillo ripetuto invase la stanza. Ci guardammo uno con l’altro finché Lorenzo infilò la mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse il cellulare.
“Scusatemi”, fece un cenno col capo e si affrettò a uscire in corridoio. “Sì Gemma, stanno bene stai tranquilla”, il resto della frase scomparve dietro al laminato bianco che si richiuse dietro di lui.
Ora eravamo davvero soli. Io, lei e un silenzio quasi inquietante.
“Ti fa molto male?” le chiesi accarezzandole piano piano il viso.
“No, non molto”. Sollevò la mano sana adagiandola sulla mia. “E tu? Tu come stai?”
“Non ha importanza”.
L’unica cosa che mi preoccupava davvero era che lei stesse bene e sinceramente, non mi sembrava affatto così. “Sei sicura che non ti faccia male? Sei… il tuo viso… il tuo corpo…”
Cristo santo. Era quasi irriconoscibile.
“Sono un mostro, vero?”
“Ma di cosa stai parlando? Non sei affatto un mostro. Sei stata coinvolta in un incidente, amore, ed è stata colpa mia”. Avevo il cuore che pulsava fino alle tempie e la gola stretta da un enorme nodo spinoso. “Se solo… se solo sapessi…” sospirai ingoiando un nugolo di aculei infuocati.
“Cosa?”
Inspirai. “Questa è stata la giornata peggiore della mia vita. Per la prima volta ho provato cosa significhi perdere il controllo, essere completamente impotente e in balia degli eventi”.
Le mie parole la inondarono come un fiume in piena, avevo bisogno di lasciar defluire tutto ciò che mi stava soffocando da quella mattina. “Tu non mi rispondevi, cazzo, non riaprivi gli occhi e io non potevo fare niente per aiutarti. Ero una fottuta nullità. Una nullità, mentre tu… tu sei tutto”.
“Sto bene”, mi disse accarezzandomi le nocche col pollice. “Va tutto bene, amore, è finita. Stiamo tutti e due bene”.
“È stata colpa mia”.

Piegai la testa di lato e mi lasciai avvolgere il viso dalla sua mano. Era fredda nonostante fuori ci fossero oltre trenta gradi.
“Ero arrabbiato. Guidavo come un pazzo, io… io non ti ho dato ascolto. Dio, se ti fosse successo qualcosa di peggio…”
“Shhh, smettila di colpevolizzarti, Anthy, è stato un incidente”.
La guardai dritta negli occhi, non c’erano più lividi, non c’erano più bende o fasciature, vedevo solo quei due bellissimi cristalli azzurri che mi toccavano l’anima e mi calmavano come null’altro al mondo.
“Vieni qui, vieni vicino a me”, sussurrò. Sfiorò il materasso con la mano e si spostò leggermente per farmi un po’ di spazio.
Non me lo feci ripetere due volte. Mi sollevai facendo leva sui braccioli e mi sedetti sul letto.
“Sdraiati qui”.
Mi sistemai al suo fianco e l’abbracciai facendo attenzione a non farle male. Il suo odore. Il suo odore, misto al disinfettante, mi sembrava lo stesso il più buono del mondo.
“Scusami”, mormorai affondandole il viso sul collo. “Mi dispiace così tanto”.
“Shhh, non dispiacerti e abbracciami. Ho solo bisogno di te, di sentirti”.
Annuii e la feci scivolare ancora più vicino a me. D’ora in poi l’avrei protetta. L’avrei protetta da qualsiasi cosa. Non avrei fatto più niente di così stupido, mai, mai più.

Il carambolare di una voce femminile che rimbombava per il corridoio annunciò mia sorella ancora prima che aprisse la porta.
“Dove sono? Dimmi dove sono”.
In un istante me la trovai davanti, gli occhi arrossati dal pianto e i capelli arruffati. Si avvicinò di corsa e ci fissò senza riuscire a trattenere le lacrime.
“Oddio mio…” esalò guardando Susan in volto.
“Ciao, Gemma”, le rispose lei con un filo di voce.
Fulminai mia sorella con un’occhiata sbieca e da quel momento si trattenne dall’aggiungere qualcos’altro. Strinse il labbro fra i denti e deglutì. Era immobile, le braccia strette intorno al petto e il viso pallido come la morte. Ascanio rimase un istante sull’uscio con la mano appoggiata sullo stipite ma quando la vide impallidire ulteriormente, si precipitò alle sue spalle e la abbracciò.
“Ma come è potuto succedere?” domandò ancora incredula.
Era quello che mi chiedevo anch’io da ore. Mi sembrava di sentire in continuazione la sua voce spaventata che mi implorava di rallentare. Continuavo a rivivere quell’istante ancora e ancora. Fissai un punto indistinto fuori dalla finestra mentre la mia mano scivolava lenta tra i suoi capelli. Mi sembrava che riuscissi a sedare con quel gesto il tumulto che imperversava nel mio stomaco. Susan socchiuse le palpebre come se cercasse di rievocare un ricordo che tardava a palesarsi.
“Un’auto ha invaso la nostra corsia e ci è venuta addosso”, professai cambiando posizione. Mi facerva male tutto quando mi muovevo, ma cercai comunque di trattenere una smorfia di dolore che inevitabilmente mi deformò il viso. Gemma si avvicinò al letto e si chinò su di lei. Le scostò i capelli dalla faccia e abbozzò un pallido sorriso.
“Come ti senti, tesoro?”
“Sono stata meglio, ma a quanto pare siamo vivi, questo è ciò che importa”.
Gemma si voltò verso di me e mi guardò con uno sguardo implorante. “Se non ti avessi spinto a venire qui, tutto questo non sarebbe mai successo”.
Era a pezzi e si sentiva in colpa forse quanto me.
“È solo che… speravo… io speravo davvero che avrei potuto risolvere le cose, riunire la nostra famiglia”. Indietreggiò di qualche passo e si rifugiò singhiozzando contro il petto di Ascanio. Lui la stringeva lasciandola sfogare mentre le accarezzava la schiena con la mano.
“Non è stata colpa di nessuno”. Susan intrecciò le dita con le mie. “Né sua, né tua”, disse infine fissandomi negli occhi.

Mia sorella aveva un plotone di lacrime pronte a riversarsi ovunque e il labbro inferiore che tremava nonostante la stretta serrata fra i denti.
Un colpo. Un altro. Qualcuno stava bussando alla porta e quel rumore attirò la nostra attenzione. Ci voltammo tutti verso il laminato laccato che ci separava dal corridoio e aspettammo che qualcuno entrasse.
Timidamente la porta si aprì e due profondi occhi azzurri fecero cautamente capolino. Bianca si mostrò un po’ alla volta, cercando di capire se la sua presenza fosse sgradita.
“Posso?” domandò sporgendosi un po’ in avanti. Io non risposi, Gemma mi fissò trattenendo il fiato e Susan ruppe il ghiaccio invitandola a entrare.
Lei lasciò la maniglia della porta a cui era saldamente aggrappata e iniziò a muovere alcuni passi. Si strofinava nervosamente i palmi sul vestito come se avesse le mani completamente sudate. Ci osservò per un istante, non sapeva se avvicinarsi ancora o rimanere a distanza e mi guardava negli occhi con un’espressione contrita e preoccupata.
Era una situazione strana.
Quella donna non era l’arpia che avevo sempre immaginato, anzi, fino a quando non avevo scoperto chi fosse, ero convinto che si trattasse di una specie di angelo. Feci un cenno con la testa per invitarla ad avvicinarsi e lei lo fece all’istante. Due, tre rapidi passi e fu di fianco a me.
“Eravamo così in pensiero”, mormorò scostandomi i capelli dalla fronte. Quel gesto mi congelò all’istante. Era qualcosa di familiare, di intimo, nemmeno mia madre aveva mai avuto dei modi così affettuosi verso di me. Mi irrigidii di colpo e lei smise di toccarmi. Ritrasse la mano e sorrise dolcemente. Sfiorò il braccio di Susan e si chinò verso di lei. “C’è qualcosa che possiamo fare, tesoro? Vuoi che ti porti qualcosa?”
“No grazie, va bene così, sono solo un po’ stanca”.
Mi voltai a guardarla, era pallida, nonostante il viso tumefatto si notava chiaramente il colorito cinereo dell’incarnato.
“Vuoi riposarti?” le domandai premuroso, “faccio uscire tutti se vuoi”.
Lei sorrise appena, ma si vedeva che faceva fatica a rimanere vigile.
“Non ti preoccupare, tesoro, tu riposati, noi saremo qui fuori”. Bianca ci sorrise dolcemente e fece un cenno a Gemma affinché sia lei che Ascanio la seguissero in corridoio.
Eravamo di nuovo soli.
Il suo respiro iniziò piano piano a cambiare e lei sprofondò nel sonno rimanendo avvinghiata al mio fianco.
Continuai ad accarezzarle i capelli per un po’, gli occhi chiusi e la tensione che scivolava via lentamente finché alla fine, non mi addormentai anch’io.