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Mi risvegliai col fiatone e il cuore che pulsava freneticamente. Ero fatta di tremiti e respiri accelerati, di paura e sentimenti disarmanti. Il velo che aveva protetto i miei ricordi era stato inesorabilmente squarciato. Le immagini cominciavano a riemergere e a riaffiorare nella mente come un gas rilasciato nelle profondità oceaniche. Piano piano, una bollicina dietro l’altra fino ad arrivare in superficie per espandersi ovunque.
Avevo sognato l’incidente. Lo avevo rivissuto ed era stato… era stato spaventoso.
Facevo fatica a prendere fiato. Continuavo a vedere quell’auto avvicinarsi e la consapevolezza che di lì a poco ci saremmo schiantati da qualche parte, diventava sempre più pressante. Era una certezza terribile, inevitabile.
Aria. Avevo bisogno d’aria. Lo urlavano i polmoni e con loro, tutto il mio corpo scosso da brividi incontrollabili.
“Che succede, amore?”
Anthy era ancora al mio fianco, gli occhi ridotti a due fessure per il sonno. “Stai bene?”
Mi guardai intorno, un pallido sole rischiarava il cielo preannunciando un’altra giornata di caldo e temperature elevate, non sapevo dire quanto con precisione, ma avevo dormito di sicuro per un sacco di tempo.
Lo fissavo inebetita, incapace di pronunciare anche solo una parola. “Susan, per favore, parlami! Ti senti male?”
Respiravo. Fagocitavo ossigeno come se fossi appena riemersa da un tuffo in apnea. Ancora. Ne volevo ancora. Mi bruciava la gola, il petto. Ogni muscolo teso implorava aiuto.
“Vuoi che chiami qualcuno?”
Scossi la testa aggrappandomi a lui con la mano sana. Gli arpionai il braccio come se fosse l’unica cosa in grado di farmi stare meglio. Mi accarezzava. Mi accarezzava lentamente i capelli sussurrandomi qualcosa sul collo. Rimanemmo così, abbracciati uno all’altro per un’eternità finché lentamente, l’attacco di panico finì.
Erano anni che non provavo più una cosa del genere, l’ultima volta era successo quando avevo perso i miei genitori. Ollie in quel periodo mi aveva aiutato tantissimo, era la mia migliore amica oltre che una psicologa specializzata nei disturbi post-traumatici da stress.
Ollie… dovevo chiamarla, sarebbe impazzita se qualcuno le avesse detto dell’incidente e non fosse riuscita a contattarmi.
“Ho bisogno di un telefono, devo chiamare a casa”, mormorai. “Devo parlare con Ollie, con mio fratello e…”
“Shh, stai calma adesso. Gemma e Cora hanno già avvisato tutti, stanno venendo qui, in questo momento probabilmente sono già in aeroporto”.
“Stanno venendo qui?”
Annuì. “Gemma e Morris si sono occupati di tutto, stai tranquilla, stasera al massimo potrai parlarci di persona”.
Ollie e Alex erano l’unica famiglia che mi era rimasta e il fatto che si stessero precipitando da me mi fece stringere il cuore.
“Grazie”, mormorai accarezzandogli ripetutamente il braccio. “Non so cosa farei senza di te”.
Mi prese il mento fra le mani e mi sfiorò dolcemente le labbra con un bacio. “Non devi dirlo neanche per scherzo, amore, tu non resterai senza di me, come io non resterò mai senza di te. Non potrei vivere altrimenti”. Mi risalì la guancia con l’indice. “Voglio darti tutto. Tutto quello che è umanamente possibile e anche di più”.
Increspai leggermente le labbra abbozzando un sorriso. “Lo sai che ti amo?”
“E tu lo sai che io non posso più fare a meno di te, signorina? Io ti vivo”.
“Mi vivi?”
“Sì, ti vivo. Non so come altro potrei definirlo. Tu mi fai formicolare la pelle anche a distanza. Riesco a sentire la tua presenza anche tra miliardi di persone. Sei l’unica, l’unica donna che è riuscita a far correre il mio cuore come un forsennato e a fermarlo con un solo sguardo. Tu mi riempi la mente, riempi la mia vita e se la mia vita sei tu… allora sì, io ti vivo”.
Strinsi forte le labbra fra di loro mentre continuavano a vibrare incessantemente. Non volevo piangere. Non per essere così immensamente felice.
Mi sorrise. Lui mi sorrise e io lo abbracciai. Lo tenevo stretto infilandogli le dita della mano tra i capelli. Adoravo la sensazione delle sue ciocche morbide che mi sfioravano la pelle.
“Non fare così, Susan, sai che effetto mi fa quando mi tocchi in quel modo”, mi dileggiò. Sorrisi e continuai, incurante dello sguardo divertito che mi puntava addosso.
“Voglio baciarti”.
“E allora fallo, chi ti trattiene?”
Mi adagiò la mano sul collo sorreggendomi la nuca col pollice, iniziò a percorrere lentamente il contorno delle labbra. Sembrava volesse assicurarsi di non farmi male in qualche modo. Quando fu certo di potersi avvicinare, la sua bocca prese il posto del polpastrello. Era un bacio diverso. Delicato. Uno di quelli che si ricordano a lungo. Mi assaggiava senza fretta, continuando a massaggiarmi la nuca con la mano. Labbra. Labbra che si sfioravano e si desideravano senza sosta. Ci prendemmo tutto il tempo prima che la sua lingua raggiungesse la mia. Quel bacio era uno scambio di carezze, una dichiarazione d’amore.
“Ahem…” qualcuno si schiarì la voce alle nostre spalle e ci voltammo entrambi in quella direzione. Il medico che mi aveva visitato il giorno precedente era di fronte a noi. Tratteneva a stento un sorriso mentre l’infermiera Lucia lo affiancava stringendo una cartellina tra le mani. Lei ci guardò scuotendo la testa e avanzò verso i monitor posti di fianco al letto.
“Buongiorno”, disse lui divertito, “vedo che vi sentite meglio stamattina”.
Sentii il viso avvampare ma per fortuna, il mio colorito violaceo non lasciava trapelare nessuna sfumatura rossastra. L’infermiera si avvicinò al letto fulminando Anthy con lo sguardo. “Se non se ne fosse accorto, signor Raineri, in questa stanza ci sono due letti; quindi potreste gentilmente utilizzarne uno ciascuno?”
Lui la scrutò con quel ghigno strafottente che amavo da morire, il sopracciglio sollevato e la bocca piegata in un sorriso assassino.
“La ringrazio per il suggerimento, ma non ci penso proprio. Non ho nessuna intenzione di muovermi di qui”, disse arpionandomi con entrambe le braccia.
Il dottore sollevò repentinamente gli occhi in aria. “Lucia, mi dia i risultati delle analisi per favore”.
L’infermiera gli porse immediatamente la cartellina e lui iniziò a consultarla attentamente. Con la mano destra si sfiorava ripetutamente il pizzetto, dal basso verso l’alto e viceversa.
“Bene”, disse avvicinandosi. “Lei, signor Raineri, credo che potrà essere dimesso in giornata, le sue analisi sono tutte negative e abbiamo escluso qualunque tipo di complicazione”.
Anthy annuì e si voltò verso di me. “E Susan? Lei quando potrà tornare a casa?”
Il dottore si schiarì la voce continuando a sfiorarsi nervosamente il mento. “Non so dirglielo con certezza, vorrei trattenerla in osservazione per qualche altro giorno. La radiografia ci ha confermato che il braccio non è rotto, si tratta solo di una contusione diffusa dovuta all’urto, ma niente che non possa passare con un po’ di riposo e una terapia adeguata. Quello che mi preoccupa invece, è il resto”.
“Ma di cosa sta parlando? C’è qualcosa che non va?” domandò Anthy allarmato.
“Questo non posso escluderlo a priori”.
“Come sarebbe a dire? Ci sarà un modo per stabilire se sia tutto a posto, no?”
“In effetti…” si sfiorò ancora il pizzetto arricciando il labbro superiore, “dovremmo fare un tac o una risonanza, ma vista la situazione, non vorremmo muoverci in tal senso se non fosse assolutamente necessario”.
“Ma quale situazione?”
Eravamo entrambi confusi. Anthy raddrizzò la schiena con un’espressione contrariata.
“Credo sia il caso di parlarne in privato”, disse rivolgendosi direttamente a me. L’intreccio di muscoli che gli attraversavano le spalle si irrigidirono improvvisamente.
A quel punto, era molto più che contrariato era arrabbiato.
“Qualsiasi cosa debba dirmi, dottore, può farlo tranquillamente davanti al mio fidanzato, non ci sono segreti fra di noi”.
“Bene allora”, si schiarì ancora la voce come se dovesse emettere una sentenza e proseguì, “si ricorda che il medico del pronto soccorso prima di farle le radiografie le ha chiesto se ci poteva essere il rischio di una gravidanza?”
Lo guardai stralunata scuotendo la testa. Non rammentavo niente di quei primi momenti.
“Non si ricorda niente?”
“No”.
Lui annuì ancora. “La sua risposta era abbastanza confusa, quindi a scanso di equivoci abbiamo eseguito un esame del sangue”. Mi guardò cauto, come se non sapesse quale potesse essere la mia reazione.
“Le analisi ci hanno confermato i suoi sospetti, lei è incinta, Susan, potrebbe essere di circa cinque settimane, ma questo non posso affermarlo con certezza senza un’ecografia”.
Lui continuava a parlare ma io avevo smesso di ascoltarlo. Tutte le parole che pronunciò dopo quella rivelazione risultarono confuse e indistinguibili.
Ero incinta.
Io ero incinta.
“Per tanto, come le dicevo, non abbiamo potuto eseguire una Tac, per evitare di esporre l’embrione a rischi di cui al momento, non possiamo prevedere la portata, le prime settimane sono le più delicate, quelle in cui si formano gli organi principali”.
Ero incinta.
Lasciai immediatamente il lenzuolo che tenevo stretto nella mano e mi sfiorai l’addome. C’era un esserino lì dentro, un minuscolo esserino creato da noi.
“Ma come è possibile?” Anthy si sollevò a sedere con le gambe che penzolavano dal letto.
Il dottore aggrottò la fronte. “Non credo che ci sia bisogno che le spieghi come si faccia un bambino…”
“Ovviamente no, ma voglio dire… abbiamo fatto il test, era negativo”.
“I test possono non essere attendibili, soprattutto se fatti troppo presto e viste le poche settimane, potrebbe essere stato un falso negativo”.
“Ma noi ne abbiamo fatti due. La farmacista… la farmacista mi ha assicurato che erano attendibili al novantanove per cento”.
“Evidentemente voi siete il famoso un per cento che fa l’eccezione”.
“Cristo Santissimo!” esclamò alzandosi in piedi di colpo. Era sconvolto. Anthy era letteralmente sconvolto e io… io stavo iniziando a temere che non avesse preso bene quella notizia.
Era incinta.
Era tutto vero, cazzo. Era scritto nero su bianco su quei fogli incomprensibili che il dottore ci aveva sbandierato davanti agli occhi. Lei era incinta di mio figlio e io li avevo quasi uccisi entrambi.
“Cristo Santissimo!” esplosi alzandomi di scatto, avevo sfiorato una tragedia e non riuscivo ancora a capacitarmene.
Era incinta.
Camminai verso la porta con le mani tra i capelli e tornai indietro. Arrivato in fondo al letto sollevai lo sguardo. Susan mi fissava. Un’espressione sconvolta che le contraeva il viso già sfigurato dagli ematomi. I suoi occhi erano carichi di preoccupazione e si teneva la pancia come se avesse voluto proteggerla da qualcosa o da qualcuno.
Come se temesse… me.
Avanzai verso di lei e le presi il viso tra le mani. Occhi negli occhi. Un respiro dentro l’altro.
“Dio, quanto ti amo”.
La baciai con foga, non c’erano più parole da aggiungere, non c’era nulla, assolutamente nulla, che potesse esprimere cosa provassi in quel momento.
Qualcuno si schiarì la voce e mi resi conto che avevamo ancora degli spettatori nella stanza. Mi ritrassi e mi voltai verso di loro.
“Scusatemi”, sospirai, “è solo che… non immaginavo che…”
L’infermiera si girò rapidamente verso i carrelli distogliendo lo sguardo, avrei quasi giurato di scorgere uno strano luccichio nei suoi occhi.
“Ora dovremmo fare dei controlli. Se lei è d’accordo, Susan, la dottoressa Mancini sarà qui tra qualche minuto per visitarla ed effettuare un’ecografia”.
Lei annuì e io sentii lo stomaco aggrovigliarsi su sé stesso. Ero nervoso come se stessi per assistere a un evento miracoloso, perché in fondo, stavamo parlando proprio di quello. Era un miracolo che fossimo ancora interi, era un miracolo che potessi stringerla ancora tra le mie braccia, ma soprattutto, era un miracolo aver creato qualcosa di così prezioso: un bambino.
Qualche minuto dopo, proprio mentre il dottore si stava congedando una donna sulla trentina entrò nella stanza.
“Buongiorno, io sono la dottoressa Elena Mancini e tra poco vedremo come sta il vostro bambino, siete pronti?”
Susan annuì e io trattenni il fiato per non so quanto tempo. L’infermiera avvicinò un carrello dove era appoggiato un monitor e una serie di arnesi di cui non conoscevo bene il funzionamento, poi abbassò le tapparelle oscurando l’ambiente.
“Ora faremo una prima ecografia per vedere che sia tutto nella norma”.
Il mio cuore aveva subito un’improvvisa accelerazione avrebbe potuto esplodere. Stavo per conoscere mio figlio. Non avevo idea di cosa sarebbe successo esattamente, ma quello che accadde da lì a qualche minuto andò ben oltre le mie fantasie.
La dottoressa mi guardò con un’espressione comprensiva, come se riuscisse a capire il mio stato di shock.
Prese in mano una bottiglietta e uno strano arnese che, scusate la franchezza, assomigliava proprio a un vibratore.
“Questa è una sonda transvaginale”, disse quasi leggendomi nel pensiero. “Devo fare un’ecografia dall’interno per poter vedere bene tutto quanto”.
Ero scioccato. Voleva davvero infilare quel coso dentro di lei?
Il mio sguardo si spostò da Susan alla dottoressa senza che emettessi nemmeno un fiato. Forse però la mia espressione era abbastanza eloquente perché si guardarono tra di loro e scoppiarono a ridere.
“Amore, stai tranquillo, va tutto bene!”
“Va tutto bene”, diceva lei, anche se io non ne ero mica tanto convinto. La dottoressa sembrava completamente a suo agio a rovistare tra le sue gambe ma tutta quella situazione per me era abbastanza surreale. Mai nella mia vita avrei creduto di assistere a una visita ginecologica, eppure con Susan, stavo sperimentando anche quest’esperienza.
“Eccoci!” esclamò, quando il monitor iniziò a trasmettere delle immagini incomprensibili. Era strano da vedere. Un’enorme massa grigia che si muoveva e poi al centro un grosso buco nero. Non era quello che credevo, non c’era nessun bambino, almeno apparentemente.
“Tenete conto che in questo periodo della gravidanza per i genitori non c’è molto da vedere, il bello arriverà più avanti”, disse leggendomi ancora nel pensiero. Continuò a muovere la sonda facendo spostare di nuovo le immagini sul monitor.
“Che cos’è quello?” domandò Susan in allerta.
“Questa cosa nera che vedete è la camera gestazionale e questo”, disse indicando un piccolo corpuscolo più chiaro, “è il sacco vitellino”.
Lo sguardo della dottoressa era concentrato e attento mentre il nostro era assolutamente incredulo.
Spinse a fondo la sonda ed Susan sussultò come se le avesse fatto male.
“Tranquilla, abbiamo quasi finito. Eccolo qui!” esclamò soddisfatta indicando con il cursore un piccolo puntino bianco in movimento. “Vi presento il vostro bambino”.
Ero sconvolto. Continuavo a fissare quel minuscolo puntino che si agitava convulsamente dall’interno e pensavo a quanto tutto ciò fosse straordinario. Susan cercò la mia mano e la intrecciò alla sua. Ci guardammo negli occhi e in quel momento mi sembrò di vivere un’esperienza al confine della realtà.
La stanza, accuratamente oscurata, fu inondata da un suono repentino e convulso.
Un battito.
Il suo battito.
Trattenni il labbro superiore tra i denti e gli occhi furono invasi da lacrime che faticavo a tenere a bada. Guardai verso l’alto, respirai profondamente ma l’emozione che provavo era qualcosa di inimmaginabile. Lei mi stringeva la mano e singhiozzava sommessamente.
“È… è incredibile” sussurrò con un filo di voce.
La dottoressa continuò a controllare parametri e misure senza mai voltarsi. Ci lasciò assaporare quella nuova sensazione con calma, nell’intimità di un abbraccio che in quel momento rappresentava tutto il mio mondo, il mio per sempre, la mia vita.
“Bene, direi che qui abbiamo finito”, disse rimettendo a posto la sonda e riaccendendo la luce. “Ora può rivestirsi, Susan, e lei…” disse rivolgendosi a me, “può riprendere tranquillamente a respirare”.
Annuii aggrappandomi allo schienale della sedia. Avevo bisogno di sedermi, di un bicchiere d’acqua e di una sana boccata d’ossigeno.
Susan si accarezzò la pancia e io pensai che quell’immagine sarebbe rimasta scolpita nella mia mente per i secoli a venire.
La porta si aprì e il dottore di prima rientrò nella stanza.
“Oh Alessandro, sei tu? Vieni, vieni, così ti aggiorno sulla situazione della paziente”.
Lui avanzò con fare tranquillo, gli zoccoli verdi percorsero i pochi metri che lo separavano dalla dottoressa Mancini e iniziò a discutere con lei di misure e parametri come se stessero parlando un’altra lingua, una lingua del tutto inaccessibile a noi comuni mortali.
“Grazie, Elena, per esserti precipitata qui con così poco preavviso”, le poggiò una mano sulla spalla e l’accompagnò alla porta.
“Ma figurati, è il mio lavoro”, rispose lei sorridendogli. Poggiò la mano sulla maniglia e scomparve poco dopo richiudendosi la porta dietro di sé. Il dottore si avvicinò al letto e si sedette sull’altra sedia ancora libera. Poggiò entrambe le braccia sulle ginocchia e si chinò verso Susan.
“La gravidanza sta procedendo senza problemi a quanto mi ha riferito la dottoressa Mancini”.
“Abbiamo ascoltato il battito del bambino”, sussurrò Susan con la voce alterata dall’emozione. Lui annuì sorridendo come se capisse perfettamente quello che avevamo appena vissuto. “Sono felice per voi”.
“Grazie”, rispondemmo entrambi in sincrono.
La sua espressione si incupì di colpo e una sensazione oscura mi strisciò su per la pelle, i problemi non erano affatto finiti.
“Allora, Susan, purtroppo sono qui per darle una brutta notizia”.
Lei impallidì e io sentii il sangue raggelarsi nelle vene.
“Che… che succede, dottore?”
Lui si strofinò il pizzetto come se cercasse le parole più adatte. Quel gesto del tutto involontario stava iniziando a infastidirmi, ogni volta che lo faceva arrivava sempre qualche batosta.
“Ho parlato sia con il medico che l’ha ricoverata nel pronto soccorso, sia con i paramedici, ma nessuno di loro ha visto il suo anello, mi dispiace ma credo che sia andato perduto mentre la estraevano dal veicolo”.
Susan assunse un aspetto terreo. Abbassò lo sguardo sulla sua mano deturpata e poi lo risollevò verso di me. Tracimava tristezza.
“Mi dispiace tanto”, sospirò prima che la sua voce fosse spezzata da un singhiozzo, “ho perso l’anello che mi hai regalato”.
L’aria tornò a riempirmi i polmoni e il sangue a circolare. L’anello. Era questo il problema. Scoppiai a ridere stringendola tra le mie braccia. “E io che stavo immaginando che fosse successo qualcosa di drammatico!”
Susan mi guardò con la fronte corrugata e un’espressione confusa. “Non sei arrabbiato?”
“Arrabbiato? Ma cosa vuoi che mi importi di un anello?! Tu, anzi, voi state bene, questa è l’unica cosa veramente importante”.
“Ma io… io ci tenevo a quell’anello”.
Scossi la testa accarezzandole le guance con i pollici. Aveva quell’espressione imbronciata che adoravo e le labbra corrugate che sembravano chiedermi di baciarle. “Non preoccuparti, amore, te ne regalerò un altro, anzi te ne regalerò altri dieci”.
Mi fissò poco convinta, come un’incredula donna di poca fede che avrebbe fatto bene a ravvedersi, perché nella mia mente stava già prendendo forma qualcosa di assolutamente grandioso.
Quel pomeriggio, Anthy fu dimesso dall’ospedale e nonostante la sua ostinata riluttanza, lo avevo convinto a farsi accompagnare da Lorenzo in albergo. Aveva bisogno di abiti puliti, di una doccia e di riposare per qualche ora.
“Sei sicura che starai bene?”
“Anthy, per favore, falla finita. Starò benissimo e poi Gemma è qui con me e tra poco arriverà anche Cora”.
Sua sorella ci osservava con attenzione. Era seduta con le gambe accavallate sulla sedia alla mia sinistra. “La smetti di preoccuparti?” sbottò di punto in bianco. “Cosa vuoi che possa succederle? Mi occuperò io di lei!”
“Proprio per questo sono preoccupato”.
“Ah però, vedo che la tua considerazione nei miei confronti, aumenta ogni minuto che passa”. Gemma si irrigidì, depose entrambi i piedi sul pavimento e si alzò avvicinandoglisi minacciosa. Lo afferrò per le spalle e lo spinse verso la porta. Lorenzo che era rimasto in disparte scosse la testa divertito. Si allontanò dal muro a cui era appoggiato con un movimento repentino e raggiunse Anthy.
“Ora vattene”, proseguì Gemma, “noi staremo benissimo da sole”.
“Okay. Okay, me ne vado”, sospirò, “sarò di ritorno tra un’ora al massimo”.
“Non c’è fretta”.
Fece per uscire e poi tornò indietro. Si avvicinò a rapide falcate al mio letto e dopo avermi accarezzato la pancia con la mano baciò prima me e poi il mio addome. “Papà tornerà prestissimo”, sussurrò sul mio ventre piatto come una tavola. Gli occhi di Gemma e Lorenzo ci piombarono addosso in un nanosecondo.
“Oh mio dio!” strillò sua sorella elettrizzata. “Vuoi dire? Oddio! Vuol dire che diventerò zia?!”
Annuii sorridendo e lei iniziò a saltellare per la stanza.
“Zia! Diventerò zia! Oddio mio, non ci posso credere! Pensa a quando lo saprà papà!”
Un’ondata di silenzio raggelò l’ambiente. Anthy si sollevò senza dire nulla ma era chiaro che quelle parole lo avessero infastidito. Mister Raineri senior era stato in sala d’aspetto per tutto il tempo. Si era informato continuamente delle nostre condizioni e aveva monitorato ogni cosa mantenendo una distanza di sicurezza. Non voleva imporre la sua presenza ma nello stesso tempo, non riusciva a starsene lontano. Anthy e suo padre non avevano più parlato dopo l’incidente, ma sapevo che prima o poi le cose si sarebbero appianate. Quei due erano troppo simili e testardi ma dentro, avevano un cuore d’oro.
“Allora vado”, disse sfiorandomi le dita della mano.
“Okay”.
Tre. Quattro. Cinque passi e seguito da Lorenzo sparì dalla mia vista. Gemma esplose non appena la serratura scattò. “Come avete potuto nascondermi una notizia del genere?”
“Non te l’abbiamo nascosto, lo abbiamo appena scoperto”.
“Sarà una bimba me lo sento!” esclamò camminando eccitata per la stanza. “Le comprerò tante di quelle cose!”
“Gemma, non ti sembra di esagerare?”
Si voltò a guardarmi con quei due enormi occhioni verdi e mi fulminò all’istante.
“Stai scherzando?! È di mia nipote che stiamo parlando e poi io adoro i bambini, lo sanno tutti. Quando troverò l’uomo giusto, se lo troverò, ho intenzione di farne almeno quattro”.
“Quattro? Ma dici sul serio?”
“Serissima. Te l’ho detto io adoro i bambini!”
Si accoccolò sul letto vicino a me e mi scostò i capelli dal viso. “Per adesso però, in attesa del principe azzurro, mi accontenterò di spupazzarmi il vostro”.
Sorrisi e mi sollevai a sedere sul letto. La schiena iniziava a non poterne più di quella posizione.
“Vuoi una mano?” si precipitò lei.
“No tranquilla, ce la faccio”.
Due colpi risuonarono all’improvviso e ci girammo entrambe verso, la porta. La testa di Ascanio si affacciò con discrezione. “Posso entrare?”
“Certo, entra pure”.
“Allora”, domandò infilandosi le mani nelle tasche. “Come ti senti oggi?”
“Molto meglio grazie”.
“Mi fa piacere”.
Era in imbarazzo, ma non credevo che dipendesse dalla mia presenza. I suoi occhi erano agitati, si muovevano rapidi da me a Gemma come se la cercasse continuamente senza voler incontrare il suo sguardo diretto.
“Sono venuto a vedere come stavi perché purtroppo devo tornare al ristorante, abbiamo un evento molto importante e non posso proprio mancare”.
Ancora quel movimento repentino con la coda dell’occhio. La cercava. La cercava in continuazione ma Gemma era impassibile. Stringeva tra le dita una ciocca di capelli come se stesse cercando con accanimento qualche doppia punta sfuggita al suo integerrimo parrucchiere.
“Allora io vado”, disse più verso di lei che verso di me.
“Grazie della visita, Ascanio”. Lui tentennò per un istante e poi senza aggiungere altro si congedò.
“Che cosa è successo?” domandai a mia cognata non appena mi resi conto di poter parlare liberamente.
“In che senso?”
“Lo sai bene in che senso. Che cosa è successo tra di voi? Fino a qualche giorno fa sembravate così… affiatati, oggi invece…”
“Cosa?”
“Non lo so, dimmelo tu”.
Gemma sbuffò e si appollaiò con grazia sulla sedia lisciandosi la gonna. “Ci siamo baciati”.
“E quindi?”
“E quindi niente, io… non provo quel genere di sentimenti nei suoi confronti, ecco. Siamo solo amici. Lo siamo da anni ma per lui… beh per lui è diverso”.
Quel ragazzo era pazzo di lei, era chiaro, cristallino.
“E lui come l’ha presa?”
“Ci è rimasto male, ho provato a spiegargli il mio punto di vista ma… io… io non volevo che le cose tra di noi cambiassero, io gli voglio bene sul serio, è solo…”
“Solo?”
“Solo che lui non è…”
“Brian?” suggerii.
“Sì”.
“Quindi è questo il motivo?”
Lei annuì e mi guardò spaesata. Fragile. Da quello sguardo emerse tutta l’insicurezza che cercava costantemente di nascondere. “Credi che sia una sciocca, vero?”
“Perché dovrei credere una cosa del genere?” dissi spostandomi leggermente su un fianco.
“Perché Brian non mi vuole, è stato categorico, eppure io non riesco a smettere di pensarci”.
Sul fatto che lui non la volesse avevo dei seri dubbi, ma era meglio non rinfocolare un qualcosa che avrebbe potuto solo peggiorare la situazione.
“Gemma?”
“Sì?”
“Posso permettermi di darti un consiglio?”
“Certo”.
“Abbi pazienza e non disperare. Vedrai che prima o poi le cose si sistemeranno da sole”.
“Con Brian, intendi?”
“Con Brian, con Ascanio e con chiunque altro, vorrà entrare a far parte della tua vita. Tu meriti di essere felice, tesoro, e riuscirai a esserlo, ne sono certa”.
“Grazie, ora capisco perché mio fratello ha perso la testa per te, sei una persona buona, sinceramente buona. Tu non fingi, tu sei. Tu non sorridi anche se sei arrabbiata, non piangi anche se non provi emozioni. Tu sei vera, la persona più vera che io abbia mai conosciuto”.
Sentii un groppo risalirmi la gola e il respiro uscire a spezzoni. Forse erano gli ormoni della gravidanza a rendermi così emotivamente instabile ma le parole di Gemma mi riempirono di gioia.
“Ti dispiacerebbe se facessi entrare papà solo per un istante? Era così preoccupato…”
“Ma certo che puoi farlo entrare, non devi nemmeno chiederlo”.
“Vado subito a chiamarlo, allora”.
Spalancò la bocca in un enorme sorriso e sparì zampettando dietro alla porta laccata.
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