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Era tesa. L’avevo convinta a salire in auto ma lei continuava a guardarsi intorno e a puntare i piedi contro i tappetini a ogni curva. Le accarezzai un ginocchio sfiorandole la punta delle dita che stropicciavano il tessuto del vestito.
“Come va?”
“Bene”, mormorò. Cincischiava il bordo della gonna fingendo una tranquillità che in realtà era ben lontana dall’avere. Continuai a guidare cambiando più volte stazione musicale, musica rock, qualche strano motivo datato e poi mi fermai. Ed Sheeran modulava la voce attraverso gli altoparlanti e lei sembrò rilassarsi. Abbandonò la testa reclinandola contro il sedile lasciando il collo flessuoso in bella mostra. Socchiuse leggermente gli occhi e inspirò. Con quell’afflato sembrò esiliare tutta la tensione che le attanagliava i muscoli.
Dio, era bellissima. La sua pelle baciata dal sole sembrava risplendere di luce propria.
Sollevai il piede dall’acceleratore e affondai sulla frizione, la mia mano si muoveva con sicurezza, cambiando marcia senza nemmeno pensarci. Gli occhi fissi sul cordone d’asfalto trafficato e lo stomaco in subbuglio.
Avevo percorso quel tratto di strada così tante volte negli ultimi quattro giorni che non badavo più nemmeno ai nomi incisi sulle lastre di travertino; ogni vicolo o traversa erano impressi nella mia mente, e il mio senso dell’orientamento procedeva in modo automatico, come se sapesse perfettamente quando girare, quando accelerare e quando fermarsi.
Quando fermarsi…
Susan si guardava intorno, attenta e vigile. Avevamo da poco oltrepassato la strada che portava a Trinità dei Monti e lei si voltò rapidamente. Prima, quasi casualmente e poi con maggior convinzione, la mano aggrappata al bracciolo centrale dell’auto e una meravigliosa ruga al centro della fronte. Fissò l’incrocio appena oltrepassato e sollevò il sopracciglio destro. “Non dovevamo svoltare in quella strada?”
Non le risposi. Continuai a guidare le mani fisse sul volante alle dieci e dieci e le labbra fra i denti.
“Anthy, sei sicuro che non dovevamo andare da quella parte? Credo che tu abbia sbagliato strada”.
“No, tranquilla, non ho sbagliato”.
“Dove mi stai portando, allora?”
Cambiai marcia rallentando l’andatura prima di imboccare una strada laterale. “È una sorpresa”.
“Ti piace proprio questa storia delle sorprese è? Di cosa si tratta, me lo puoi dire?”
“Una sorpresa è una sorpresa proprio perché non si sa che cos’è, e comunque sì, mi piace da matti organizzare delle sorprese per te”.
Susan afferrò il maniglione dello sportello e sprofondò con la schiena sul sedile continuando a fissare la strada.
“Anthy?”
“Sì?”
“Io voglio saperlo…”
“E io non voglio dirtelo”.
Mi accomodai i Ray-Ban con l’indice lasciandomi scappare un sorriso storto. Susan sbuffò. Sbuffò, e poi sbuffò ancora regalandomi un’altra delle sue smorfie adorabili.
Tutta la sua attenzione era stata catalizzata da questa faccenda, potevo quasi sentire il rumore degli ingranaggi che ruotavano nella sua testa. Era curiosa, curiosa come solo lei sapeva essere, ma per lo meno, aveva smesso di preoccuparsi del viaggio in macchina.
Mi fermai.
L’imponente palazzo ottocentesco torreggiava in fondo alla strada come un gigante. Susan guardò fuori dal finestrino, era basita, impressionata. Sì, era decisamente impressionata.
“Dove siamo?” domandò indicando la costruzione maestosa tutta stucchi e intonachi pregiati. “È qui la sorpresa?”
Sollevò lo sguardo in alto passando in rassegna la successione dei piani che si elevavano verso il cielo e le pareti pallide, su cui si affacciavano come ferite aperte finestre a timpano sormontate da altre a edicola.
“Forse…” sussurrai prendendole la mano e iniziando a camminare.
Seguì il mio sguardo e la sua attenzione fu catturata dall’ampio terrazzo all’ultimo piano. Cascate d’edera e rampicanti fioriti ne ricoprivano interamente le pareti e la vista che si preannunciava da lassù era da togliere il fiato.
“Allora, si può sapere dove mi hai portato?” insistette con gli occhi fissi al pigro ondeggiare delle fronde smosse dal vento.
“A casa”.
“A casa di chi?”
“A casa nostra”.
Un’enorme O di sorpresa prese possesso delle sue labbra perfette. Sgranò gli occhi, arricciò le sopracciglia e le sue spalle si sollevarono assecondando il gonfiarsi dei polmoni. “Hai comprato una casa?”
“Ti dispiace?”
“Mi… mi dispiace?” esalò a bocca aperta di fronte al massiccio portone scuro. “Tu sei pazzo!”
“Forse”, sussurrai ancora soffiandole sul collo. Le scansai i capelli dietro la spalla e posai la bocca su quel morbido lembo di pelle nascosto dietro all’orecchio. Susan rabbrividì a quel contatto inaspettato e nonostante fossi dietro di lei, sapevo che stava sorridendo; lo vedevo dalle pieghe degli occhi, dalle fossette che si erano materializzate ai lati delle guance e dal senso di pace che mi invadeva ogni volta che era felice.
“Allora, signorina, vogliamo salire o preferisci rimanere qui fuori?”
“Salire”, bofonchiò, “voglio salire”.
“Vieni”.
Intrecciai le dita nelle sue e ci avviammo verso l’ingresso. Estrassi la chiave dalla tasca dei pantaloni e la infilai nella serratura. Il vecchio portone dall’aria massiccia si aprì con uno scatto fulmineo, sembrava molto più pesante di quanto fosse in realtà, merito del restauro che aveva lasciato intatte le parti originali dotandole tuttavia dei migliori ritrovati moderni. Le feci strada attraverso l’ampio ingresso, un androne dalle alte pareti sbiancate e dai soffitti decorati.
Sì, pensai, il restauro conservativo aveva fatto dei veri e propri miracoli. Quel posto era una vera chicca, un guscio antico che conteneva le più moderne e lussuose comodità, ero stato molto fortunato a trovarlo.
Susan si guardava intorno, la testa sollevata in aria e il corpo che girava su sé stesso.
“Tu sei completamente pazzo!” confermò con un enorme sorriso.
Le poggiai una mano alla base della schiena e ci avvicinammo alla circonvoluzione delle scale fermandoci proprio di fronte alla porta d’acciaio dell’elevatore. Premetti il pulsante e lei si voltò a guardarmi. “Fammi indovinare, stiamo salendo nell’attico”.
Sollevai le spalle senza rispondere e lei scosse la testa. “Pazzo! Completamente pazzo!” mormorò mentre lo scampanellio preannunciò l’arrivo dell’ascensore.
La feci entrare per prima e la seguii immediatamente. Susan si voltò verso di me appoggiando le mani al maniglione d’ottone attaccato alle pareti. Uno specchio percorreva l’intera cabina, lei scrutò i nostri riflessi da destra a sinistra e sembrò quasi arrossire.
La osservavo con le labbra leggermente increspate da un sorriso.
“Che c’è, ti è venuto in mente qualcosa di interessante, signorina?”
Avvampò immediatamente serrando le labbra tra i denti e mi colpì il braccio con la mano. “Smettila!”
“Di fare cosa?”
“Smettila di fare qualsiasi cosa tu stia facendo!”
“Ma io non sto facendo niente”.
Sollevò gli occhi in aria mentre un’esplosione di colore le attraversava le guance e il collo. Stavo giocando con lei ed era un’iniezione di soddisfazione vedere come le mie provocazioni la scuotessero ancora tanto.
Il segnale acustico piombò improvviso seguito dal rollio delle porte che si spalancavano.
“Ci siamo”.
Susan fece un passo nell’ampio ingresso di marmo tirato a lucido e iniziò a camminare. Il rumore dei suoi tacchi sul pavimento mi sembrò il suono più seducente che avessi mai sentito.
La guardai muoversi in quello spazio elegante. La sua figura sinuosa si stagliava come una macchia di colore sulle pareti, era illuminata a giorno dalle ampie finestre a bovindo e quel suo modo di muoversi…
Cristo Santissimo! Quell’ondeggiare dondolante mi faceva diventare i piedi di cemento. Mi faceva sentire… soggiogato. Ero catturato da lei, dipendente, assoggettato.
“Vieni”, le poggiai una mano sul fianco deglutendo e la feci avanzare verso la porta principale. Infilai le chiavi e lasciai scattare la serratura chiudendo fuori tutto il resto.
“Oh. Mio. Dio.” esclamò. “Ti ho già detto che sei completamente pazzo!?”
“Mi sembra di sì”, la dileggiai, “almeno un paio di volte”.
Susan camminava producendo quel suono ritmico ed eccitante, quel ticchettio femminile che mi arrivava fino alle viscere.
“Oddio…” sospirò girandosi su se stessa ancora e ancora.
I suoi occhi si spostarono avidi su ogni superficie, sul pavimento levigato, sulle vetrate che percorrevano l’intero perimetro e la sua bocca… la sua bocca si spalancava un po’ di più a ogni passo.
“Questo posto è magnifico!”
“Sono contento che ti piaccia”, annuii, gli occhi fissi sulla sua schiena e le mani saldamente conficcate nelle tasche dei pantaloni. Mi appoggiai con la spalla a una colonna smaltata e la osservai saccheggiare con lo sguardo gli scorci di Roma, l’orgia dei tetti che si sfioravano, i campanili delle chiese, le cupole e i palazzi maestosi.
Si voltò verso di me in preda a un misto di euforia ed eccitazione. “Ma quando? Voglio dire… quando lo hai comprato?”
“Tecnicamente, non l’ho comprato. Non ancora, almeno”.
Mi staccai dalla colonna e con un paio di passi le fui così vicino da sfiorarle una guancia. Le circondai la vita con le braccia rimanendo alle sue spalle e lei si abbandonò contro il mio torace.
“Non è escluso che lo faccia, però, abbiamo bisogno di un posto in cui stare, non possiamo rimanere in albergo, giusto?”
Susan mi fissò. Gli occhi le brillavano e solo per quello, avrei firmato immediatamente l’atto d’acquisto, volevo vederla sorridere sempre in quel modo.
“Questo vuol dire che rimarrai qui? Rimarrai a Roma con me?”
“Fammici pensare…” le strofinai le labbra con le dita e le sorrisi. “Credo proprio di sì”, mormorai prima di affondare le labbra contro le sue.
Felice. Lei sorrideva ed era felice sul serio. Mi gettò le braccia al collo stringendo forte come se stesse cercando di arrampicarmisi addosso.
“Tu sei completamente folle, ma è anche per questo, che ti amo da morire”.
“Quindi mi ami da morire, è?”
“Sissignore!”
Lo abbrancai saltandogli in braccio. Nelle mie intenzioni non c’era né un gesto lascivo, né concupiscente, ma quello che doveva essere un moto istintivo e giocoso, si trasformò ben presto in altro.
Le nostre labbra si cercarono, si assaggiarono, si premettero smaniose e febbricitanti. Incapaci di porre fine a quella vertigine che aveva preso possesso dei nostri corpi.
Continuammo a baciarci rotolando contro le pareti, appoggiandoci alle colonne del soggiorno e incespicando senza fiato.
“Volevo farti fare il giro della casa”, mugugnò senz’aria, “ma… adesso non credo più che sia una buona idea”.
“No… non è una buona idea”, ansimai tormentandogli la schiena. Gli sfilai la t-shirt dalle spalle facendogli sollevare le braccia verso l’alto. E… Dio! Non mi sarei mai abituata a tutto quello. Ai suoi bicipiti torniti, alla cascata di muscoli che si contorcevano sull’addome per poi tuffarsi nella cintura dei pantaloni, al suo…
Oh mio Dio!
Era eccitato. Molto eccitato. Lo sentivo a ogni affondo contro la parete, a ogni frizione del suo inguine contro le mie cosce.
“Cristo!” ansimò sprofondando sulle mie labbra prima di scendere a leccarmi il collo. “Cazzo, quanto mi è mancato…”
“Shh!” lo ammonii continuando a strofinarmi contro la sua erezione ancora imprigionata nei pantaloni.
Era incredibile. Incredibile come ogni mio senso fosse più acuito, ogni sensazione più forte, ogni percezione amplificata. Forse erano gli ormoni in subbuglio per via della gravidanza, ma ero certa che se non avessi fatto immediatamente l’amore con lui sarei impazzita.
Lo toccavo. Affondavo le dita nelle sue reni trattenendolo contro di me, facendolo sfregare lì, dove si agitava un mare percosso dalla tempesta.
Era passato… quanto?
Giorni, settimane, dall’ultima volta che eravamo stati così vicini e io lo volevo. Lo volevo disperatamente. Lo volevo come se fossi soggiogata dai morsi della fame, come una drogata in crisi d’astinenza. Il mio corpo lo reclamava, lo bramava incessantemente.
Gli passai le dita sull’ampia distesa del torace, sulle pieghe dei pettorali fino a scendere sempre più in basso. Osservavo cupidamente i miei palmi sollevarsi assecondando il movimento della sua cassa toracica. Si espandeva e si ritraeva a intervalli regolari, incessantemente.
Ero quasi ipnotizzata da quel movimento e dal suono soffuso che gli percorreva la gola.
Scesi ancora di più con la mano fino a slacciargli la cintura e con un movimento fluido e sicuro la sfilai dai passanti gettandola sul pavimento. Il rumore del metallo che colpiva la terra si mescolò ai respiri affannosi profusi delle nostre bocche.
Indietreggiai. Barcollai aggrappata alle sue spalle con un braccio, mentre con l’altra mano risalii i suoi muscoli fino a saggiare la tempra dei bicipiti ingrossati.
Le mie dita si muovevano lente, circospette, percorrendo sentieri che conoscevano perfettamente ma che ogni volta, apparivano quasi inesplorati. Avanzavo. Accarezzavo. Sfioravo il suo corpo con letale delicatezza facendolo ronfare come un gatto intento a fare le fusa.
Quell’esplorazione terminò arrivata alla nuca e ai capelli. Erano così morbidi, di una consistenza quasi irreale, gli conficcai le dita fra le seriche ciocche corvine e ansimai. Le sue mani si muovevano sulle mie cosce sollevandomi il vestito. In alto. Sempre più in alto fino a ridurlo a una cintura sgualcita intorno alla vita. Anthy mi stringeva a sé, i muscoli contratti per la presa e il viso affondato sulla mia spalla.
“Alza le braccia”, ordinò artigliando la stoffa mentre continuava a perlustrare il mio corpo con le mani. Smisi di abbracciarlo e sollevai gli arti superiori. Il vestito sgusciò via come la pelle di un serpente finendo rovinosamente a terra in una pozza di stampe floreali.
“Dio, sei… sei bellissima”.
Rovente. Il suo sguardo era esattamente così, una corrente caustica che mi cauterizzava la pelle.
“Seguimi”.
Mi prese per il polso facendomi adagiare sul candido divano al centro del soggiorno. Mi guardava. Mi studiava con un’accuratezza chirurgica. Il suo sguardo si muoveva con attenzione dell’alto verso il basso, si soffermò sul seno e poi scese. Lo sentivo addosso. Sentivo quella corrente elettrica infiammarmi le terminazioni nervose e le viscere. Ferma, semisdraiata sul divano assaporavo quello che avrei provato da lì a poco. L’ansia da anticipazione. Era quello a rendere la mia pelle un ricettacolo di formicolii diffusi e stilettate laceranti.
Dio quanto lo volevo.
Le sue dita si mossero rapide slacciando uno dopo l’altro i bottoni dei jeans, lasciarono intravedere dapprima l’elastico griffato e poco dopo il tessuto scuro. Con una calma micidiale fece scivolare quell’intrico di trame lungo i quadricipiti mettendo in evidenza la compattezza di ogni singolo fascio muscolare.
Aria. Avevo bisogno d’aria mentre un palpitante tormento continuava a irrorare di sangue bollente le mie terminazioni. Pulsavano. Pulsavano le mani, le punte delle dita, perfino la base del collo era pervasa da quel martellare incessante.
Fece un passo indietro scansando di lato i pantaloni ormai inermi. Serrai i denti intorno al labbro inferiore spostando lo sguardo dai jeans al suo corpo.
Mio.
Tutto quello che vedevo era mio. Ogni consistente centimetro di pelle mi apparteneva. Era inebriante, una sensazione di possesso e di appartenenza assoluta. Il mio corpo reagiva al suo infiammandosi, agitandosi e umettandosi in modo del tutto incontrollabile.
Un passo e poi si inginocchiò fra le mie cosce. La sua mano aperta come un ventaglio sul mio sterno sembrava bruciare. Mi risalì il collo con le dita fino a circumnavigare la bocca con la punta dell’indice. Avanti e indietro. Dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, prima di penetrare la barriera delle labbra. Sentii il sapore salino della sua pelle sulla lingua e una nuova ondata di elettricità mi attraversò le viscere.
Mi guardava. Chino sopra di me continuava a fissarmi e a respirare. Sentivo quasi la pelle vibrare sotto al tepore del suo fiato. Era eccitato, quello era un dato innegabile, ma nello stesso tempo sembrava si stesse trattenendo, controllando.
Socchiuse gli occhi e li riaprì lentamente quando la sua mano scese ad accarezzarmi il seno. La stanza risuonò di gemiti strozzati. Il mio corpo era così sensibile, come se tutte le terminazioni nervose si fossero concentrate in quei punti strategici, bastava così poco per farmi incuneare la schiena e rabbrividire.
Con i polpastrelli sfregava la turgida pelle rosata stringendola e accarezzandola con movimenti precisi e metodici. Quando alle dita sostituì la bocca, sentii tutti i muscoli tendersi improvvisamente, il bacino sollevarsi e gli occhi serrarsi di colpo.
Passarono minuti interminabili in cui le dita si alternarono alle labbra e la mia smania crebbe. Crebbe a dismisura, alimentata, rinfocolata dalla sua bocca che esplorava l’interno coscia. Leccava, succhiava e soffiava sulla mia torrida carne scatenando reazioni incontrollabili. Quando con le dita si avvicinò pericolosamente alla mia intimità tutti i ricettori insorsero. L’attesa poteva essere dilaniante, devastante, soprattutto quando l’equilibrio ormonale era stato così irrimediabilmente compromesso.
Mi sfiorava appena, con delicatezza come se temesse di farmi male. La mia mente gridava. Urlava quello che voleva disperatamente e che lui sembrava non voler concedere.
“Di più…” ansimai contorcendomi per aumentare la pressione delle sue dita, ma nonostante i miei sforzi non riuscivo a sentire la sollecitazione di cui avevo bisogno.
“Anthy… che… che succede?”
Spostò lo sguardo a terra senza rispondere.
“Ehi…”
Sollevò gli occhi verso i miei e chinò la testa appoggiando la fronte sul mio addome. Era un gesto delicato, accorto.
Depositò una scia di baci intorno all’ombelico e sollevò ancora il capo incatenando quelle onici lucide alle mie pupille dilatate.
“Credi…” si schiarì la voce arrochita continuando a guardarmi con un velo di preoccupazione, “credi che ci potrebbero essere problemi se noi…”
Mi puntellai sui gomiti sollevandomi a sedere e gli accarezzai i capelli con la mano.
“La dottoressa ha detto che possiamo farlo, il bambino sta bene”.
“Ma…”
“Cosa?”
“Hai avuto un incidente, sei appena uscita dall’ospedale, forse sarebbe meglio aspettare”.
“Sto bene. Stiamo bene”, dissi accarezzando la pancia ancora piatta
“Sì ma…”
“Shh, adesso guardami”.
Gli circondai il viso con le mani e l’obbligai ad alzare lo sguardo. “Ho bisogno che tu mi tocchi, Anthy, che tu lo faccia come hai sempre fatto, ho bisogno di sentirti, ho bisogno di te”.
La sua preoccupazione aleggiava come la bruma mattutina in una giornata autunnale.
“Va tutto bene, dico sul serio”.
“Me lo diresti se dovessi farti male in qualche modo?”
“Certo che te lo direi”.
Sembrò tranquillizzarsi. Un limpido raggio di sole trapassò quella barriera impalpabile che era scesa fra di noi. “Susan io…”
Gli circondai il collo con un braccio e lo tirai verso di me.
“Baciami, adesso”.
Le sue labbra trovarono le mie e il mio corpo riprese a vibrare.