Noi … XXXI

ATTENZIONE: DIALOGHI ESPLICITI!.

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Cristo! Va tutto bene, tutto bene.
Continuavo a ripetermi quella cantilena tranquillizzante mentre una fobia folle impastata all’ansia mi ribaltava lo stomaco.
Era un incendio. Lei era un dannato incendio e io inalavo a pieni polmoni un fumo caustico che mi avrebbe ucciso. Ma forse era già accaduto, piegato fra le sue braccia, abbandonato sulla sua pelle ero finito. Suo.
Susan aveva un sapore così buono, un odore unico, era un accelerante per il sangue che continuava a correre senza sosta, senza freni, sbandando come un’auto lanciata su un circuito.
Va tutto bene, andrà tutto bene.
Le sue mani mi circondarono il collo.
Cazzo. Le dita erano così tese che quasi tremavano, era panico infondato ma… dannazione, l’avevo quasi uccisa nell’incidente e di sicuro non volevo far del male a nostro figlio.
Da quando quel pensiero sparato come un proiettile calibro nove aveva fatto breccia nella mia mente, avevo smesso di toccarla. Un vetro infranto, questo era il mio cervello, un foro strinato circondato da crepe, talmente fragile da potersi polverizzare da un momento all’altro. Avevo paura. Paura, cazzo. Una paura irrazionale, imponderabile ma nello stesso tempo paralizzante.
E se in qualche modo avessi fatto qualcosa di sbagliato? C’era mio figlio dentro di lei, mio figlio, dannazione!
“Anthy, che… che succede?”
Spostai lo sguardo dal tappeto Mahal al pavimento, la fronte corrucciata e quasi spartita in due dall’ansia.
“Ehi…”
Ero chino al suo cospetto, sopraffatto. Sollevai la testa e fu come sprofondare, affogare nella dolcezza dei suoi occhi cristallini.
Dio, quanto l’amavo.

Amavo lei e amavo la vita che stava crescendo proprio nel suo ventre.
Poggiai la fronte sul suo addome levigato e ascoltai. Ascoltai in silenzio, in adorante abnegazione sperando forse, di risentire ancora quel battito che mi aveva imbrigliato il cuore in una morsa.
La baciai. La ricoprii di baci, una pioggia di labbra silenziose che scesero a lambirle l’addome, i fianchi e l’ombelico. Era devastante, una pulsione selvatica da tenere a freno, viscere e sangue che si scontravano con mente e raziocinio.
Volevo ma non potevo. E se…
“Credi…” mi schiarii la voce deglutendo, come se un foglio di carta vetrata fosse sceso a strofinarmi le corde vocali. “Credi che ci potrebbero essere problemi se noi…”
Susan si sollevò a sedere facendo leva sulle braccia, la testa china in avanti e gli occhi puntati su di me come due frecce scagliate a distanza. Sorrise. Lei sorrise e mi accarezzò la nuca con la mano.
“La dottoressa ha detto che possiamo farlo, il bambino sta bene”.
“Ma…”
“Ma cosa?”
“Hai avuto un incidente, sei appena uscita dall’ospedale, forse sarebbe meglio aspettare”.
Potevo trattenermi ancora qualche giorno, potevo attendere. Sì, avrei aspettato la prossima visita, atteso il responso, dovevo essere sicuro prima di…
“Sto bene. Stiamo bene”. La sua mano calò istintivamente a strofinare l’addome con un’innata delicatezza.
“Sì, ma…”
“Shh, adesso guardami”.
Una carezza. Una carezza delicata mi circondò il viso traghettando i miei occhi direttamente dentro ai suoi.
“Ho bisogno che tu mi tocchi, Anthy, che tu lo faccia come hai sempre fatto, ho bisogno di sentirti. Ho bisogno di te”.

Susan parlava ma io non riuscivo a distinguere il senso delle sue parole, ero troppo occupato a invilupparmi nei miei pensieri.
“Va tutto bene, dico sul serio”.
“Me lo diresti se dovessi farti male in qualche modo?”
“Certo che te lo direi”.
Forse aveva ragione lei, forse mi ero fatto prendere troppo la mano dalla paura ma…
“Susan io…”
Avvinto. Ero totalmente avvinto fra le sue braccia che mi attraevano a sé, che mi stringevano come a reclamare il possesso del mio corpo.
“Baciami, adesso”.
E io la baciai. La baciai con un’intensità che non credevo di poter provare in quel momento.
La mia carne indurita palpitava per le stoccate delle sue mani che mi arpionavano la schiena. Ero sul punto di crollare, di lasciarmi andare, di prendere quello che volevo disperatamente prendere.
“Andrà tutto bene, amore, ti fidi di me?”
Mi fidavo di lei? Sì, dannazione, mi fidavo di lei più che di me stesso. Annuii passandole la mano fra una morbida ciocca di capelli.
“Allora portami in camera da letto”.
Obbedii senza fiatare, schiavo dei suoi occhi, suddito della sua bocca. La presi tra le braccia, una mano sotto alle cosce e l’altra dietro alla schiena. Strinsi al petto quel carico prezioso e leggero e mi avviai verso la nostra stanza.
Intonaco e vetro. Intonaco e vetro si rincorrevano sulla parete sinistra del corridoio mentre io camminavo. Camminavo e assaporavo a ogni passo il sapore delle sue labbra sulle mie.
La porta della stanza era già aperta, dimenticata da qualcuno o in attesa di noi, questo non lo avremmo mai scoperto.

La luce del tardo pomeriggio filtrava tiepida attraverso le finestre a malapena oscurate. Era giorno eppure, lì dentro sembrava l’imbrunire.
La depositai sul letto delicatamente, le braccia allacciate intorno al collo e lo sguardo raggiante.
“Io ti amo”, sussurrai arrampicandomi sul letto. Il materasso cedette sotto al mio peso incurvandosi verso il basso. Mi fissò. Mi osservava sorridente come una visione angelica.
“Vieni qui”, disse indicando il suo fianco, “sdraiati vicino a me”.
Ritagli di soffitto illuminati dal sole, e noi ce ne stavamo lì, sdraiati uno accanto all’altra a contemplare i movimenti voluttuosi della luce sull’intonaco zigrinato. Le sue dita procedettero caute, pochi centimetri alla volta erodendo la distanza fra i nostri corpi. Piccoli movimenti, fruscii impalpabili fra le lenzuola e il contatto fra le nostre mani divenne concreto, solido, indissolubile.
Susan rotolò sul fianco, il gomito conficcato nel cuscino e lo sguardo puntato su di me. Con la punta dell’indice disegnò intricati drappeggi sulla mia pelle, linee tortuose e sinuose che si inerpicavano sui pettorali fino a scendere sugli addominali cesellati. Era una sensazione piacevole, dolce e sensuale al contempo.
“E se adesso mi avvicinassi di più?” sussurrò.
“Non ho nessuna intenzione di muovermi”.
“Quindi, ipoteticamente… potrei salire sopra di te e tu non diresti niente, giusto?”
“Niente, assolutamente niente”.
“Non opporresti nessuna resistenza, giusto?”
“No, nessuna”.
“Bene”.
Si avvicinò con la stessa grazia di un felino pronto a ghermire la preda, movimenti lenti e letali, cauti e a malapena percepibili.
Dio mio. Dentro di me la tensione cresceva, piacevole come una sferzata d’energia che si diffondeva attraverso i muscoli rilassati. Pulsava il sangue nelle vene dall’alto al basso, ma soprattutto in basso.
Me la ritrovai sopra, le cosce aperte a sormontarmi il bacino e i palmi ancorati al torace. Sollevò le braccia tuffandosele dietro alla schiena. Un rapido movimento e il gancetto del reggiseno cedette come fuscello spezzato. Fece scivolare le bretelline lungo le braccia, una alla volta, lentamente, scoprendosi il seno.
Dio Santissimo. Era un’apparizione, una bellezza eterea e peccaminosa allo stesso tempo. Si sollevò i capelli dalle spalle e li lasciò precipitare sul petto. Una cascata di serici fili bruniti che le scivolavano addosso. La bocca si dischiuse e la lingua ne percorse i contorni.
Il mio corpo reagì immediatamente, la desiderava come si può agognare il ristoro dopo la fatica. Torrido. Granitico. Il mio sesso palpitava come un cuore tormentato da una passione incontenibile.

Le arpionai i fianchi con le mani facendola scivolare più in basso fino a cozzare con la prepotente erezione che aveva appena scatenato.
Sorrise. Lei sorrise e iniziò a muoversi. Separati da pochi strati di tessuto i nostri sessi si sfiorarono, sfregarono, boccheggiarono come naufraghi travolti dai marosi. Più la spingevo a dondolare sui miei lombi più la pressione fra le gambe cresceva. Cresceva e reclamava un sollievo che non tardò ad arrivare.
Susan indietreggiò strisciando sui miei quadricipiti con la stessa maestosità di un cobra reale. Ipnotica e pericolosa mi fissava, saggiando la durezza del mio sesso con la mano fino a liberarlo dalla stoffa dei boxer.
Li fece scorrere lungo le cosce muscolose sfilandomeli di dosso, continuò ad arretrare attraverso il materasso e si alzò in piedi ripetendo la stessa procedura con le sue mutandine di pizzo. Dimenò appena le anche e quel ritaglio di trine cadde a terra inghiottito dal pavimento.
Come se fosse animato di vita propria il membro si risollevò all’istante ricadendo sull’addome e ondeggiando a ogni movimento dei fianchi.
La volevo. Disperato. Drogato. Senza speranze.
Susan risalì a bordo del letto gattonando come una pantera, nuda e bellissima. Abbassai le mani per afferrare la mia carne pulsante dalla base, feci scorrere il palmo lungo tutta la lunghezza continuando ad ammirare la sua avanzata felina. Lei si chinò su di me, sostituendo la sua mano alla mia. Si fletteva lenta, indolente, assecondando quel movimento controllato e ripetitivo con tutto il corpo. La mia eccitazione crebbe a dismisura per quello che sembrava voler fare. Respiri. Ampi respiri che mi spandevano il torace proiettandolo all’esterno.
“Sei bellissima”.
Sorrise seducente e si incuneò sopra di me. Una nevicata di ciocche brunite mi sfiorò l’inguine nascondendola alla vista. Sentii la sua bocca che si appropriava avida della mia carne prima ancora di riuscire a vederla. Ero scosso da scariche elettriche che mi attraversavano l’addome e il torace. Dio che sensazione meravigliosa. Calda. Avvolgente. La sua bocca era il peccato, un caldo tormento per le mie membra.
“Continua, continua così”, ansimai.
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Chiusi gli occhi e gettai la testa all’indietro, abdicando e lasciando il potere nelle sue mani.
Passarono secondi, minuti o forse ore intere. Il tempo in quel momento non aveva nessuno spessore. Fremevo. Gemevo e aspettavo. Aspettavo il momento in cui sarei esploso completamente. Non mancava molto, non abbastanza, purtroppo.
“Fermati”, la implorai. Ma lei non si fermò, continuò a scivolare con la mano su e giù, ancora e ancora. Suoni rochi e disarticolati mi ingombrarono la gola mentre la fronte si imperlava di umide stille roventi. Ero al limite, ma non volevo che finisse.
“Fermati o non riuscirei più a trattenermi. Voglio venire dentro di te, subito.” l’urgenza nella mia voce era qualcosa di assolutamente tangibile.
“Vuoi venire dentro di me?”
“Sì, cazzo”.
Sorrise e si risollevò. Gli occhi che brillavano, le labbra lucide e tumide e i capelli che le spiovevano sulle spalle. Torreggiava sopra di me e nonostante quel corpo esile e armonioso, riusciva comunque a detenere un potere assoluto sul mio.
Si fece strada avanzando verso i miei fianchi, trattenne il mio sesso turgido in una mano e scese verso il basso.
Un ringhio ruvido e gutturale mi uscì dalla bocca. Un ruggito animale, mentre lei mi possedeva. Quella donna mi possedeva in ogni maniera possibile. La mia carne penetrava nella sua con lenti affondi. Roteai gli occhi, le palpebre abbassate e le sclere che si intravedevano fra le ciglia.
A ogni suo movimento il mio petto si sollevava e si riabbassava convulsamente. Le lasciai dettare il suo ritmo, sincronizzarsi sul suo piacere e quando la sentii gemere abbandonandosi all’orgasmo i miei lombi si rianimarono. Spasmodici. Frenetici si agitavano sotto di lei rincorrendo quell’appagamento più volte sfiorato e non ancora raggiunto.
La vista si appannò, il cuore pulsava come un disperato e io esplosi continuando a sollevare i fianchi. Su e giù, ancora e ancora.
“Cazzo…”
Quando si accasciò su di me, tremante e soddisfatta, le sfiorai la schiena con la mano stringendola contro il mio petto. Il martellamento incessante nelle vene durò ancora a lungo, ma avvinghiati uno sull’altro fummo avvolti da un intenso senso di benessere che ci fece sprofondare in un sonno profondo.

Il soffitto non era affatto bianco, una qualche tonalità di crema o di zinco forse, ma non bianco. Fissai incerta quel colore indefinibile mentre il mio corpo si riprendeva dall’intorpidimento.
Anthy giaceva accanto a me, nudo e maestoso, un gomito sotto al cuscino e la gamba sopra alla mia.
Potevamo aver dormito ore per quel che ne sapevo. Non c’erano più bagliori luminosi che piroettavano sul muro, l’aria era immota, silenziosa, l’unico rumore era il suo respiro lento e regolare.
Mi portai la mano sull’addome e lo accarezzai lentamente. Fra quelle quattro pareti, tra vetri, intonaco e pesanti tendaggi era racchiuso tutto il mio mondo, la mia vita presente e futura.
Lo guardavo. Ne osservai la curva perfetta della mascella, il leggero filo di barba che gli ombreggiava il viso e la bocca. La sua bocca era perfetta, rilassata e morbida, sembrava attendesse di essere sfiorata.
“Sento i tuoi occhi addosso”.
Sobbalzai per l’improvviso movimento delle labbra che stavo fissando. Con le palpebre ancora abbassate inspirò a fondo, un lungo momento di pausa e quegli occhi color petrolio si catapultarono dentro ai miei.
“È tanto che mi stai spiando?”
“Non molto”, sospirai.
“Come ti senti?”
“Bene, sto bene, sul serio”.
Mi sollevai sul letto.
“Che ore saranno?”
“Non ne ho la più pallida idea” rispose. Si strofinò il viso con le mani e si sedette, i piedi scalzi sul pavimento e i gomiti poggiati alle ginocchia. Mi infilai una sua t-shirt che giaceva inerme sulla sedia in fondo al letto e mi alzai.
“Dove stai andando?” mi bloccò per un polso non appena poggiai i piedi al suolo.
“Voglio che tu stia qui con me”, mormorò baciandomi l’interno dell’avambraccio e tirandomi a sedere sulle sue gambe. “Sopra di me, sotto di me, in qualsiasi posizione, ma ti voglio vicina”.

“Dici sul serio?”
“Mai stato più serio”.
“Beh, allora dovrai aspettare”. Si accigliò sollevando un sopracciglio. “Devo andare in bagno e poi prendere i miei integratori, rischio di dimenticarmene altrimenti”.
Il labbro superiore si sollevò in uno dei suoi sorrisi storti che tanto amavo. “Questo credo che dovrò accettarlo”.
“Lo credo anch’io”.
Mi avviai per il corridoio dirigendomi nel salone principale.
“Il bagno è la seconda porta a destra”, vociò dalla stanza.
“Okay”.
Oltrepassai il divano e recuperai la mia borsa. Tornai sui miei passi e imboccai la seconda porta come aveva detto. Il bagno era abbastanza ampio, la parete più lunga rivestita a mosaico accoglieva uno specchio rettangolare incastonato fra le tessere dorate. Mi avvicinai ai due lavandini gemelli e vi poggiai sopra le mie cose. Aprii il rubinetto dell’acqua fredda e la lasciai scorrere lungo i polsi e sulle dita in una specie di lavacro ristoratore.
Mi sciacquai il viso e mi guardai allo specchio. Ero felice. Ero davvero felice.
Rovistai nella borsa e tirai fuori il tubetto di pillole da assumere quotidianamente come prescritto dalla dottoressa Briani. Ne ingoiai una seguita da una sorsata d’acqua mentre qualcosa scivolava attraverso i lembi aperti della mia sporta di pelle. Un ticchettio, un fruscio di carta e non potei fare a meno di voltarmi. Mi chinai a vedere di cosa si trattasse e il mio sguardo si arrestò sui suoi piedi che avanzavano nudi sul pavimento del bagno. Risalii i polpacci, le ginocchia e le cosce. Un paio di boxer scuri coprivano a malapena ciò che fino a qualche minuto prima era completamente nudo e alla mercé degli occhi.
La sua mano si allungò rapida, intercettò il pacchetto che era rotolato a terra e lo afferrò prontamente.
“Che cosa abbiamo qui?” disse rimirando fra le mani quella scatolina sigillata. “Dunque questo è il misterioso pacchetto di mio padre?”
“Sì”.
“Beh, credo che sia ora di aprirlo, no?”
Lo agitò fra le mani e si udì di nuovo un ticchettio sordo, qualcosa di piccolo che urtava le pareti ritmicamente.
“Voglio farlo io”.
“Neanche per sogno…”

“Anthy, dammi quel pacchetto!”
“Vienilo a prendere”, mi istigò sollevandolo sopra la testa. In punta di piedi mi arrampicai sul suo corpo statuario ma nonostante tutti gli sforzi non riuscii a sfilarglielo di mano.
“È tutto qui quello che sai fare?”
“Smettila!” Spiccai un salto al pari di una cavalletta. Accanita. Determinata. Volevo raggiungere quell’oggetto che aveva ormai convogliato tutta la mia curiosità.
“Niente da fare, signorina”.
Sbuffai esasperata. Una strategia d’assalto ecco quello che ci voleva. Finsi di mollare la presa e mi voltai verso lo specchio.
“Quindi ti arrendi?!”
Quando la sua mano fu bene in vista scattai rapida, letale e mi riappropriai del mio pacchetto.
“Neanche morta!” risposi mentre stavo già scappando in camera da letto come se avessi il fuoco alle calcagna. Anthy mi inseguì. Raggiunsi la nostra stanza e feci il giro del letto. Ridevo e stringevo saldamente il mio tesoro.
“Non crederai davvero che finisca così!?”
Ondeggiavamo ai lati del letto, uno di fronte all’altra senza che però nessuno dei due si decidesse a fare la mossa decisiva finché…
Lui la fece.
Con un balzo sprofondò con le ginocchia sul materasso e fu dalla mia parte. Mi circondò la vita con le braccia e fui letteralmente travolta dalla sua presa.
“Lasciami!” strillai ridendo. “Lasciami subito!”
“Non ci penso nemmeno”.

Ricademmo entrambi sul letto disfatto e il pacchetto ci sfuggì di mano posizionandosi fra i cuscini.
“Va bene”, dissi, “magari potremmo aprirlo insieme, che ne dici?”
Arricciò le labbra e si strofinò il mento fingendo di rifletterci su. Poi annuì.
Afferrai il pacchetto con la stessa rapidità di un velociraptor e sfilai il nastro che lo teneva sigillato. Levai l’involucro con un crepitio di carta strappata e quello che mi trovai fra le mani, altro non era che un cofanetto di legno intarsiato di quelli che si usano per custodire i monili. Anthy assisteva curioso a tutta l’operazione. Feci scattare il pulsante della chiusura e il coperchio si sollevò.
Alla vista del contenuto sgranai gli occhi. Ma che…
Mi voltai verso di lui e il suo sguardo era come pietrificato. Un’espressione imperscrutabile, inintelligibile.
“Che cos’è?”
Presi fra le dita quello che a tutti gli effetti sembrava un vistoso anello di plastica.
“L’anello della principessa”, rispose mantenendo lo sguardo fisso su quell’oggetto insolito mentre la mente era chiaramente proiettata da un’altra parte.