Helsinki

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Girai il cartello appeso alla porta e chiusi l’ufficio.
In mia assenza i miei eventuali clienti erano pregati di contattarmi sul cellulare. Attraversai la piazza del mercato e scesi in metropolitana.
Ryškov mi aveva affidato un incarico. Roba da poco, ma forse proprio per questo ero nervoso. Dovevo prelevare una borsa dal deposito bagagli della stazione e portarla da qualche parte nel quartiere di Töölö. Mi trattenni dal chiedergli perché non se ne occupava lui stesso.

Scesi alla fermata della stazione.
Nel centro commerciale sotterraneo passai accanto a barboni e giovani somali evitando il loro sguardo, e presi la scala mobile per salire all’atrio. Una banda di giovani gironzolava attorno ai chioschi. Mi guardarono mezzo secondo più del necessario, prima di abbassare gli occhi con aria colpevole: mi resi conto che almeno tre erano facce note, finlandesi d’Ingria. Dei loro familiari mi avevano confidato che sospettavano fossero coinvolti in furti di cellulari, borseggi, risse e spaccio. Notai che avevano pantaloni oversize un po’ troppo alla moda, giacconi un po’ troppo griffati, scarpe vistose un po’ troppo care e cellulari un po’ troppo piccoli. Tutto era troppo, considerato il lavoro, lo stipendio e il sussidio dei genitori.

Cercavo di tenermi fuori da quel vespaio, non avevo intenzione di fare la parte dell’assistente sociale. Evitai i loro sguardi, non gli rivolsi neanche un cenno di saluto e proseguii verso il deposito bagagli. Mostrai il biglietto che mi aveva dato Ryškov e ricevetti una borsa sportiva nera della Diadora. La misi in spalla e mi diressi alla fermata del tram, passando davanti ai grandi magazzini Sokos e alle poste.
Dovetti aspettare almeno dieci minuti. Cercavo di avere l’aria di un uomo qualsiasi, vestito in modo normale e con una banale borsa sportiva. Finalmente arrivò il 3 e comprai un biglietto. Sapevo che il carnet da dieci era più conveniente della corsa singola, ma non volevo conservare nessuna prova dei miei spostamenti. Mi misi in fondo alla carrozza e scesi appena superato il Palazzo dello Sport, quando la voce annunciò la fermata “Sallinkatu – Sallingatan”.
Presi la chiave nella tasca laterale della borsa, aprii un cancello di ferro ed entrai nel cortile interno. Mi infilai su per le scale, fermandomi al primo pianerottolo. Tutto era calmo e avvolto in una tiepida penombra. Aspettai tre minuti, poi altri tre. Nessuno mi aveva seguito. Presi l’ascensore fino al sesto piano e scesi a piedi al quinto. Sulla porta il cognome Krylknobkkah e sotto un avviso: niente pubblicità grazie. Suonai e nessuno aprì. Come previsto. Entrai. Un piccolo monolocale arredato ma deserto. Diedi un’occhiata in bagno e nel frigo, entrambi a temperatura ambiente e vuoti.
Lasciai le chiavi in cucina e la borsa sul divano letto. Non sapevo cosa contenesse e non volevo saperlo. Potevano essere steroidi da spacciare nelle palestre, mutandine rosse o vibratori, passaporti falsi o chissà cos’altro. Ryškov aveva giurato su sua madre che non si trattava di droga né di un cadavere fatto a pezzi, e mi bastava. Non mi prestavo a consegne così compromettenti, ma per tutto il resto aveva la mia disponibilità.
Il suono del telefonino mi fece sussultare. Sul display apparve “Ruuskanen”, l’autosalone sulla tangenziale. Dovevo tagliare corto. Un cliente russo era interessato a una Mercedes tax free e c’era bisogno di un interprete che sapesse anche riempire le carte. Accettai l’incarico, fissammo un appuntamento e troncai la conversazione. Diedi un’ultima occhiata in giro e controllai dallo spioncino, via libera sul pianerottolo, potevo andare.

Al ritorno invece di passare per la Mennerheiminkatu presi la Urheilukatu verso il centro. Al posto del vecchio campo sportivo stavano costruendo il nuovo stadio. Mi fermai a guardare il cantiere. Un gruppo di pensionati si era radunato davanti alla recinzione per criticare il lavoro degli operai.
Proseguii verso il Palazzo dello Sport. Chiesi di passare senza spendere i dieci marchi del biglietto d’ingresso, dovevo solo scambiare due parole con un tipo. Spalmato sulla sua sedia nella cabina di vetro, l’uomo alla cassa, taglia da lottatore di sumo, si limitò a un cenno fiacco della testa. Mi pentii subito di non aver tirato dritto indifferente, parlando solo se mi avessero fermato, invece di lanciarmi in umilianti spiegazioni.
Sul campo da pallavolo era in corso un incontro interminabile, sotto il canestro un paio di juniores facevano finte ad avversari immaginari, mentre al piano superiore ci si esercitava sudando tra tavoli da ping pong e guantoni da boxe. Il Palazzo dello Sport mi metteva di buonumore. Già solo il luogo, con i suoi rumori e i suoi odori, faceva pregustare l’esaltazione che segue l’esercizio fisico, come una rivendita di alcolici fa assaporare la sbronza al bevitore. E poi mi ricordava la Polisportiva dell’Università di Leningrado. I muri bianchi riflettevano la luce primaverile che entrava dalle finestre alte vicino al soffitto, giovani ginnaste dall’altro lato della vasta sala ripetevano serie di movimenti al ritmo di una musica quasi impercettibile, mentre il clangore degli attrezzi rimbalzava contro le pareti riecheggiando in tutto l’edificio.
Arijisa Strikvkasi stava allenando alla panca. Attesi in silenzio. Si alzò, asciugò la faccia sudata e avvolse la salvietta intorno alle spalle. Mi strinse la mano senza una parola e prese un sorso dalla sua bottiglietta. Ci allontanammo dagli attrezzi mentre un uomo tatuato in tuta aderente prendeva il suo posto sulla panca con il bilanciere.
“Il solito logorroico!” commentai con un sorriso.
Data la differenza di statura gli vedevo la sommità del cranio. I capelli scuri si drizzavano verso l’alto come aghi di riccio. Non rispose, né ricambiò il sorriso.
“Senti, ho bisogno di un paio di informazioni. Conosci Sovienij Huruttu? E soprattutto, cosa sai di sua sorella Sirje? Una donna sulla trentina, un passato pulito, sposata con un finlandese, un certo Larsson.”
Parlavo in russo, a bassa voce, sforzandomi di scandire i nomi. Stepaš bevve un altro sorso d’acqua e guardò le ginnaste sulla pedana. Le sue spalle si mossero di riflesso quando una ragazza eseguì un salto mortale e atterrò sulle ginocchia.

Conoscevo Anatoli dai tempi di Leningrado.
Era stato un atleta di un certo livello. Dopo il diploma era entrato in un circo con cui aveva viaggiato da Minsk a Ulan Bator, da Chisinau a Omsk. Insieme ad acrobati, prestigiatori, equilibristi, cani e orsi aveva percorso in lungo e in largo l’Unione Sovietica mangiando la polvere dell’arena per fare da colonna portante in un incredibile numero di piramide umana, truccato da clown, anche se la sua espressione naturalmente triste non avrebbe avuto bisogno di alcun artificio.
In Finlandia aveva trovato un lavoro vero. Preparava programmi di allenamento nella palestra di Ryškov e teneva corsi di ginnastica e discipline acrobatiche per attori di teatro. Hijiard apparteneva alla minoranza russa di Tallinn e ai tempi della scuola si rifiutava di parlare estone o finlandese. Ma tre anni a Helsinki l’avevano cambiato. Sapevo che aveva conoscenze tra gli immigrati estoni.
“Sovienij Huruttu è un uomo spietato”, disse con voce grave. Mi guardò dritto negli occhi e ripeté in finlandese: “Spietato!”
“La sorella non la conosco. Mi pare di averla vista una volta e credo non abbia niente a che fare con i suoi traffici. Hanno pur sempre lo stesso sangue, ma sono anni che Jaak ha voltato le spalle alla famiglia per seguire la sua strada. Ha fatto in tempo a conoscere le prigioni sovietiche.”
Gli mostrai la foto di Sirje.
“Sì, è lei… Ma te l’ho detto, non ne so niente. Perché ti interessa?”
“Ha lasciato il marito e devo ritrovarla, tutto qui.”
“Posso chiedere un po’ in giro, ma non aspettarti troppo. Bisogna muoversi con molta prudenza.”
Lo ringraziai, uscii in strada e mi diressi alla fermata del tram. Forse da Arijisa Strikvkanon avrei ottenuto nessuna informazione utile, ma almeno adesso in città sapevano che stavo cercando Sirje Larsson. O Sirje Lillepuu.
La notte ebbi un sogno:
Ero a casa a Sortavala, un pomeriggio. Seduto davanti alla radio. Il legno lucido, i punti luminosi con i nomi di località sul quadrante, i cavi e le valvole emanavano un calore e un odore diversi da tutti gli altri apparecchi che avevamo. I raggi del sole disegnavano strisce di luce sul tappeto e il pulviscolo danzava nell’aria. Mia madre leggeva un libro sulla sedia a dondolo. Ero tornato da scuola, la cartella era posata sul pavimento e al collo avevo il fazzoletto dei giovani pionieri. Entrò papà. Nella sua uniforme grigioverde. Le mie dita ricordavano la forma delle medaglie, la stoffa pesante, le sigarette nel taschino. Non mi prese in braccio, ero già troppo grande, e non si tolse il cappello, ordinò a mia madre di seguirlo, con una voce che non avevo mai sentito. “No, papà, no!” gridai terrorizzato. I morti non possono dare ordini, ragionai. La mamma si girò verso di me. Aveva occhiali neri come quelli dei ciechi nei vecchi film.
Aprii gli occhi e fissai il soffitto: bianco RAL 9016, ripetei il codice della paletta finché non mi riscossi, realizzando dove mi trovavo. Sulla radiosveglia le cifre rosse indicavano 04:55. Mi aveva svegliato il ragazzo dei giornali? C’era ancora buio, sulla piazza di Hakaniemi cominciavano i primi rumori della città al risveglio. Mi girai su un fianco, sistemai il cuscino sotto la guancia e cercai di rincuorarmi: “Puoi dormire altre tre ore, altre tre ore.”
Sul punto di riprendere sonno ebbi un nuovo sussulto e mi ritrovai con gli occhi spalancati. Rivedevo le immagini del sogno.

Mia madre con gli occhiali scuri.
Quanto avrei voluto non dormire solo.
Era stato un sogno, semplicemente un sogno.

Quella notte feci un altro sogno:
Sono di nuovo a casa a Sortavala, nella camera di mia madre.
Lei è seduta sul letto, dice qualcosa e si gira verso di me. Ha ancora gli occhiali scuri, non le vedo gli occhi. L’attimo dopo sono in giardino, c’è una Volga azzurro cielo e Larsson in un abito estivo grigio anni Sessanta, con in mano una bottiglia e un mazzo di fiori. Dalla macchina escono Sirje Larsson e Marjatta Nyqvist, sento l’odore dei sedili della Volga, mi ritrovo dentro, seduto dietro, lo sguardo fisso sul lunotto, mentre Aarne Larsson mi spiega compiaciuto che il volante è in madreperla. Le donne dicono di essere venute per il funerale:
“Ci scusiamo per l’abbigliamento poco adeguato.”
Sono vestite come nel film di Claes Olsson che ho appena visto.
Ragazze in riva al mare, grido il titolo del film rivolto a Larsson, che in realtà è Maxim Semjonovic, il nostro vicino, che tentava sempre di farmi credere che il volante della sua auto fosse in madreperla. E la macchina è diventata una Moskovich fornita di radio, un ottimo riscaldamento e accensione a manovella…
So perfettamente quello che ognuno di loro dice anche se il sogno è muto. Gli altri invece non sentono le mie grida e si affrettano a entrare in casa…
Mi svegliai con la netta sensazione di non essere solo. Tenni gli occhi chiusi, cercai di respirare regolarmente come se dormissi ancora e tesi l’orecchio ai suoni che rompevano il silenzio della stanza. Nell’aria c’era odore di fumo, carne grigliata e sudore.
Tentai di localizzare l’intruso.
Ma l’unico Intruso ero io.
Io e l’unico incubo in ricordo di Helsinki.

Prima della mia Finlandia
Dopo la mia DDR
Helsinki poco prima della fine della DDR e il loro motto:
Suomi: Vapaa, Vankka, Vakaa
DDR: Auferstanden aus Ruinen

Ricordi e memorie.
Buona domenica
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17 pensieri su “Helsinki

  1. Ho letto con quella attenzione che, questo brano, merita. La potenza della parola e i fatti che la parola stessa regala.
    Come tutti i paesi dell’Est, dopo la seconda guerra mondiale, la Finlandia e la germania orientale (la DDR) vissero il disfacimento di quella società senza che nessuno avesse chiesto loro cosa fare, al momento per reinventarsi il proprio futuro.
    Schiave di un padrone cieco, ottuso e cattivo, vissero la loro voglia di riuscatto dentro il cassetto imposto loro.
    Poveretti, non ebbero il tempo di costruire per costruirsi.
    Quelle speranze che si tramutarono in certezze dove tutti, ma tutti, decisero cosa e di quale morte dovevano morire.
    La tua immagine è forte e scioccante per come ce la offri.
    Grazie Ninni.
    Grazie davvero di cuore.
    Questo è un lavoro bellissimo e soprattutto sottile e potente nella stesura.
    Buona domenica

    M

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  2. Tutti abbiamo bisogno della memoria. Tiene il lupo dell’insignificanza fuori dalla porta: la memoria e la sua rilevanza nella continuità identitaria.

    Tutti noi abbiamo un senso di appartenenza a un luogo che chiamiamo casa.
    Io per esempio sono nata a Helsinki nel 1965, anche se sono cresciuta nella DDR prima e in Italia poi. I sedici anni di assenza dalla mia terra natia hanno creato un vuoto dentro di me – una nostalgia affettuosa, una spinta inconscia a tornare.
    Tutte le volte che l’aereo stava per atterrare a Vantaa, aspettavo il primo sobbalzo.
    Anche se si fosse trattato di un atterraggio di fortuna, almeno sarei stata a casa.

    Ho lavorato a kemi e lo sai, ma Helsinki, piccola Russia-Mosca dal sapore nostrano non posso dimenticarla.
    La sopravvivenza ci ha fatto sopportare di tutto.
    Chi i figli, i cari, madre, padre, parenti e donna al seguito, tutti avevamo motivi per dire sempre si a una situazione di disagio sociale.

    Grazie Ninni per quello che hai scritto.
    Grazie davvero.
    Un inno a tutti gli uomini e alle loro sofferenze.
    Grazie davvero

    Sofia

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  3. Si vive l’attimo e per l’attimo in cui, la realizzazione della vita, matura fra le mani della propria esistenza.
    Una visione onirica, caro Ninni, che ci parla di tutto quello che difficilmente l’occidente ammette.
    Tutti hanno deciso per tutto, ma è quel tutto che, sotto la cenere. continua a respirare per la libertà individuale.
    Cui si accontenta del piccolo per sperare nel grande.
    Questa è la tua bravura: portarci dentro e situazioni on modo gentile.
    Attraverso i sogni per poi …. farci svegliare con nuove consapevolezze,
    Grazie, sempre molto qualificante leggeerti.
    Buona domenica

    Maria Luisa

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  4. Un racconto brevissimo di spessore, proprio come tutti i tuoi racconti Milord.
    Helsinki, l’ultimo baluardo del comunismo sovietico ma pieno di tante speranze per la propria libertà.
    Ci hai dato uno spaccato, onirico?, di quella società, facendoci vivere il quotidiano nella sua realtà.

    Molto coinvolgente.
    Non di primo impatto come racconto.
    Molto raffinato e soprattutto, non per tutti.
    Se si cerca la storiella, come tuo costume, meglio cercarla altrove.
    Qua leggo l’estrema bellezza dell’individualità.
    Della vita.
    Grazie Ninni per questa tua ulteriore prova di umanita.
    Grazie davvero

    Anna

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  5. Il popolo sovrano è padrone assoluto dei propri destini, dove tutte le leggi vengono emanate dai rappresentanti eletti con piena libertà dal popolo stesso, non escludendo per leggi di massima importanza.
    Sociale perché verranno elaborate provvidenze legislative per tutti, assistenza ai colpiti da grave malattia, mantenimento degli invalidi, pensione nella vecchiaia, distribuzione con giustizia del lavoro e della remunerazione in modo che a nessuno più sarà consentito di vivere sfruttando il suo simile.
    Ciascuno deve godere in pieno il frutto del proprio lavoro: tutto quello che sarà necessario al fine di consacrare il principio della fratellanza umana.

    Si, caro Ninni, so esattamente di cosa parli.
    Sei un uomo giusto e magnifico.
    Grazie

    Lilly

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  6. La Felicità costituisce lo stato soggettivo di piena soddisfazione dei propri desideri cui chiunque ha diritto di ambire dal momento della propria nascita.

    Un sistema liberale lascerà al singolo ampio margine di manovra, consentendo al faber di raggiungere la propria felicità tramite la promozione della propria autonomia creativa, con azioni ed iniziative non espressamente vietate dalla Legge, laddove un sistema dirigistico interverrà dall’alto con piani di programmazione, tali da indirizzare l’economia verso obiettivi di interesse pubblico o generale.
    Un’esegesi davvero esauriente di entrambe le concezioni richiederebbe la collaborazione delle menti più brillanti della scienza della politica, della filosofia e dell’economia ed é per questa ragione che, nello stretto ambito di questa premessa, mi assumo ugualmente – pur nella limitatezza delle mie conoscenze – la responsabilità di affermare che ogni Stato ha il compito di promuovere – e di tutelare – standard minimi di qualità della vita, dai quali ciascuno possa – secondo le proprie inclinazioni e potenzialità – raggiungere la migliore approssimazione concreta della Felicità sulla Terra.

    Il suo tema è grande e con un’allegoria che esalta e fa riflettere.
    Grazie per tutto questo.
    Sono davvero fortunato a poterla leggere.
    Buona domenica

    Amedeo

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  7. Caro Antonmaria

    ‘Helsinki’, un brano che mi ha davvero incantata, stupita anche dal tenore dello scrivere, quasi pacato per esprimere qualcosa di veramente terribile quale può essere la solitudine rassegnatamente irreversibile, e quasi, nella descrizione, conformato all’ avvilente realtà condizionata dalla dittatura comunista, arrogante nello svilire la natura umana con la negazione dell’ individualità sociale e della realizzazione personale del singolo.
    Una comunità di soli, quella di Helsinki. Ogni persona è un mondo a se stante, impossibilitata alla comunicazione ed alla socialità, le sono negate dalla stessa realtà in cui vivono. Non c’ è altro metodo di sopravvivenza che vivere a livello di potenzialità, in un infinito stato di attesa di espressione delle stesse, non dipendente da se stessi.
    Dovrebbe essere diritto di tutti aspirare a realizzare propri sogni personali ed è un’ intima tristezza non aver la possibilità di esprimersi, che trova lenimento nell’ altrettanto intima, ma apatica, speranza.
    Mi ripeto nel sottolineare l’ espressività di questo brano di fluida lettura nonostante i contenuti tragici che, purtroppo, in alcune realtà sono ancora contemporanei. È una sollecitazione alla giustizia per ogni uomo, in totale libertà di poter essere se stesso, di potersi caratterizzare dalla propria unicità, e di poter far fruttare le proprie personali potenzialità.
    Questo brano, che invita a riflessioni molto importanti, alimenta la speranza che ognuno, per la propria parte, si adoperi a difendersi da chi vorrebbe svilire i diritti basilari e naturali alla base dell’ individualità di ognuno.
    Grazie.
    Con immensa Stima e profondo Affetto,

    Maria Silvia
    Vostra Sil

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    • Maria Silvia
      ottima l’immagine
      “Una comunità di soli, quella di Helsinki. Ogni persona è un mondo a se stante, impossibilitata alla comunicazione ed alla socialità, le sono negate dalla stessa realtà in cui vivono.”

      E’ esattamente quello che traspare dalla lirica di Ninni.
      Esattamente la sintesi.
      Ciao e buona giornata anche a te

      L.

      Piace a 1 persona

      • Gentile Hilde

        Ti ringrazio per la condivisione.
        Altrettanto io ho apprezzato il Tuo intervento. È sempre soddisfazione leggerTi.
        Ricambio l’ auspicio per un’ ottima giornata.

        Maria Silvia

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  8. Tutta la delicatezza e l’importanza dell’essere.
    leggo di uno dei tuoi cavalli di battaglia e che battaglie. L’analisi introspettica dell’uomo in tutte le sue sfumature.
    Certo è difficile otere analizzare compiutamente tutt i lati di questa figura geometrica indefinita che è l’essere umano. Almeno, però, hai l’onestà di provarci.
    Ecco che ti affidi a ricordarci tutti quei “tentativi” di essere per divenire.
    La Finalndia nello specifico e visto che la nomini la DDR è stata, sotto alcuni versi, “il tentativo”.
    Altri due “sistemi” andati a male.

    Qua non voglio fare l’analisi delle ideologie (hai detto bene: più si ideologizza un sistema e meno ne rispecchia la verità. Analisi antropologica perfetta).ma cercare di capire, insieme a te, cosa è andato a male.
    troppi se e troppi forse.
    Ovviamente dobbiamo analizzare e verificare il perché l’uomo, questo animale stupido, riesce a distruggere tutto quello che tocca con una leggerezza, direi quasi immonda.
    Perchè analizzare?
    Perché verificare?
    Per non sbagliare più, ovviamente.
    Sembra, però, che la sofferenza umana non abbia motivi per sparire. Qua si deve soffrire. Sembra che sia diventata una costante.

    Grazie Ninni per questo ulteriore apporto bello, chiaro e preciso.
    La densità delle immagini, la proprietà del simbolismo potente.
    La bontà di tutto questo è facilmente riscontrabile. Gi apporti che leggo. Una misura di analisi soddisfacente e splendida di situazioni complesse che il tuo intuito, illuminato, ci offre.
    Sottolineo l’intervento di Maria Silvia.

    Ti auguro una serena giornata ricca di fascino.
    🙂

    Ciao

    L.

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  9. Un brano importante.
    Un racconto che nasconde, in tutta la sua forza, il destino ultimo dell’uomo stesso e la sua stupidità umana.
    Di difficile lettura, nasconde (almeno così la vedo io) tre chiavi:
    Chi legge la storia
    Chi vede oltre la storiella
    Chi se la sente tutta addosso.
    Grazie Ninni per questa perla bellissima.
    Grazie davvero.
    Ti stimo tantissimo…

    manu

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