Joseph

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Oggi, tra le nebbie di quello che fu il ricordo di mio padre, mi perdo.
Mi parlava spesso del nonno. Ne parlava con rispetto e timore. Io non ho avuto l’occasione (ma quante occasioni la vita mi ha negato?) di conoscerlo. Ero molto piccolo e ricordo un quadro enorme nella sala da pranzo della enorme casa. Raffigurava un uomo anziano e con i capelli bianchi che, dall’alto dei suoi baffoni, osservava, distaccato e con sguardo rigido, tutti quelli che si attardavano davanti a quella finestra a olio.
Si chiamava Giuseppe.
Anzi, in verità, si chiamava Joseph ed era di origine tedesca.
Papà non volle mai parlarci del nonno; soprattutto non volle mai parlarci dei suoi trascorsi. Ricordo che parlava, genericamente, della “grande guerra”, pur tuttavia senza parlare del ruolo o di quello che nel passato aveva fatto.
Per la mia natura indagatrice andavo, da piccolo, alla scoperta di quell’uomo che m’incuteva timore e rispetto.
Era morto nel 1952, credo per una complicanza polmonare, lasciando mia nonna Sonngard (ma chiamata molto italianamente Serafina). La ricordo, molto vagamente, in abiti di foggia “antica” con il colletto alto e di colore nero. Magrissima, altissima, con i capelli bianchissimi e trattenuti a chignon- (Era alta 1 metro e 98 mentre mio nonno 2 metri e 02).
La domenica pomeriggio ci recavamo, con papà e mamma (ma già i nonni paterni erano morti), presso la casa “padronale”. Era una villa in stile neoclassico, molto squadrata e con l’intonaco bianchissimo, entro un parco con alberi e panchette. Questo piccolo parco era recintato da un’altissima ringhiera verde, in ferro battuto, e si trovava nella prima periferia della città, proprio dove terminavano le principali vie di comunicazione e iniziava la campagna (oggi tutto questo è fagocitato dal cemento e dagli ipermercati). Trascorrevamo placidamente la giornata festiva, in mezzo ai vialetti di quello splendido giardino dell’Eden dotato di querce, larici, olmi e due enormi ficus. Ricordo che, in quei frangenti, papà trascorreva buona parte della mattina a leggere il giornale seduto su una panchetta in ferro, proprio di fronte la porta finestra, lato interno della villa, dove mamma aveva approntato, su un tavolino in ferro battuto e con il ripiano in vetro, le tazze della colazione, caffè, tè, cornetti e biscotti.
Ne ricordo, ancora, il profumo.
Fu proprio durante una di queste bellissime giornate che scoprii molto di più su mio nonno.
Era un pomeriggio, credo un primissimo pomeriggio particolarmente soleggiato e mite. Il silenzio, rotto dal calore del sole e dalla visione di qualche libellula che sostava a mezz’aria sul laghetto interno, sovrastava la grande casa. Papà e mamma erano in giardino. Papà sonnecchiava placidamente disteso sulla panchetta e mamma, leggeva una rivista, seduta sotto la quercia grande.
Io nell’enorme atrio di quella casa, giocavo con i soldatini. Ricordo la penombra e la frescura che quelle pareti, altissime, offrivano.
Anche la nonna era morta da qualche tempo per cui, in quel momento, ero il padrone assoluto e mi avventurai sulla scalinata che portava al primo piano. Il salotto, molto grande, in stile vittoriano, pieno di tappeti, argenti e quadri, si apriva oltre l’ultimo gradino di quella scalinata in marmo.
Sulla sinistra il corridoio, lungo, lunghissimo, faceva da divisorio tra le due sale molto luminose, le camere da letto, lo studio del nonno e la biblioteca.
Ricordo che, con l’ardore di un esploratore (avevo sei o sette anni) m’intrufolai nella camera da letto della nonna. Era una stanza molto grande con un enorme letto matrimoniale in “argentone”. Un grande comò con tre specchiere sovrastava, con imponenza, metà della stanza. Alla sinistra, lato nonna, erano due poltroncine in seta azzurre, come la carta da parati in seta alle pareti. Fra le due poltroncine c’era un tavolino pieno di piccoli argenti. Alle spalle un tolettino con pettini, spazzole e specchi con le coperture in argento, osso intarsiato e madreperla. Dall’altro lato, quello del nonno, c’era uno scrittoietto con poltroncina, in stile Regency di legno chiaro color miele. A fianco lo scrittoio una porta, di quelle che si confondono con la parete, foderata e mistificata con la stanza.

Era lo spogliatoio.
Dentro, lato destro e sinistro, erano due enormi armadi quattro stagioni. Uno del nonno e uno della nonna. Alle pareti enormi rastrelliere con cappelli, porta bastoni da passeggio, racchette da tennis; una cassapanca a forma di forziere in mogano e un armadio a vetri pieno di armi.
La mia attenzione di bambino venne attratta dalle armi e da quell’enorme forziere.
C’erano fucili da caccia con il calcio in legno con intarsi in madreperla e che riportavano le iniziali del nonno. Erano tanti, circa cinque o sei. Poi c’erano pistole. Grandi ed enormi pistole a tamburo, argentate, che sicuramente erano appartenute alla famiglia del nonno, messe in bella mostra e allineate. Fioretti, spade, mazze ferrate e scatole piene di munizioni, completavano la vista. Ricordo, ancora, l’odore penetrante dell’olio per armi.
Il vero enigma, però, era rappresentato da quella cassapanca.
Era, veramente, imponente.
In lunghezza prendeva quasi tutta la parete, mentre in altezza arrivava alle spalle. Oggi, se ci ripenso, rimango stupito da quelle dimensioni.
Sul coperchio, a rilievo e colorato con smalti, era il nostro stemma di famiglia.
Mi feci coraggio, dunque e lo aprii.
Suddiviso in tre scomparti, uno grande e lungo e altri due un po’ più piccoli. Pieno di indumenti, oggetti e un paio di stivali neri da uomo. Mi colpirono due cose, nell’immediato: gli stivali erano lucidissimi, enormi e di foggia militare e una uniforme militare, di colore grigio azzurro, perfettamente ripiegata.

Presi la giacca, la tirai fuori e la distesi in terra.
Era in panno pesante e orlata di rosso.
Il colletto, alto e con una fila di bottoni dorati fino al collo aveva due mostrine di colore azzurro, con una fibbia dorata, e che proseguivano giro giro fin dietro la nuca.
Le spalline erano rappresentate da una treccia formata da tanti cordoncini dorati dove erano incastonate tre stellette per spallina, dorate anch’esse.
I pantaloni erano in lana grigio chiaro con una banda rossa ai lati. Il cappello, in foggia militare con una visiera piccola, aveva al centro un’aquila e sul lato sinistro un numero con una striscia dorata che mostrava tre stellette in oro.
Sul lato sinistro della giacca c’erano tanti nastrini e distintivi di tante fogge strane.
Quello che su quella giacca, mi colpì maggiormente, fu una croce nera appuntata sul lato sinistro come una spilla.
Poggiata, in fondo alla cassapanca, semisepolta da carte, documenti e tanto altro, era uno sciabolone con una dragona in oro.

Qua si ferma il mio racconto in quanto, mentre ero assorto nelle mie esplorazioni, entrò mio padre che sorridendo (cosa molto strana in quanto sorrideva molto poco) mi prese in braccio e mi spiegò che suo papà, mio nonno, era stato un ufficiale di cavalleria prussiano (Rittmeister) durante la prima guerra mondiale e che era stato decorato al valore con la croce di ferro di prima classe.
Ogni tanto ripenso a quel periodo con una punta di nostalgia e rispetto.
Finestre dentro un passato che nessuno aprirà mai più.
Un passato pieno di vita, speranze, sofferenze e aspettative. Un passato che oggi rivive nelle mie parole e che, un giorno, verranno dimenticate.
Oggi ho scritto tutto questo, in attesa di morire, per ricordare quei sorrisi che addolcivano l’anima e che, adesso, mi uccidono di solitudine.

12 pensieri su “Joseph

    • Annelise Baum

      Grazie, milady.
      Una piccolissima carrellata su un “raccontato piano”.
      “Una storia”, come da piano, verrà pubblicata domani (potrebbe, anche, essere ai primi minuti del nuovo giorno.
      Salutations.

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  1. un pezzo toccante che si legge con emozione.
    Un pezzo di vita vissuta che colpisce per la sua tenerezza.
    Credo che tutti eravamo in quello spogliatoio per cercare di aprire quell’enorme cassapanca.
    Una bella emozione.
    In attesa, dunque, per la nuova puntata del romanzo.
    Buon sabato

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  2. Quanta dolcezza e quanta emozione in queste parole, trasudano vita vissuta caro Milord.
    Ci si addentra nel racconto che ne viene fatto con delicatezza, quasi con timore di rovinare l’atmosfera che si crea a mano a mano che le parole scorrono nella lettura.
    Grazie per queste emoziono Milord.
    Ossequi e cordialità. Patrizia

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