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Como, villa Mantero, ore 18 del 25 aprile 1945
2La villa, avrebbe raccontato Rachele, era “grande, ma desolata”. L’uggia piovigginosa del lago, le grandi stanze bianche e disadorne, la tranquillità dei figli facevano disperare la moglie di Mussolini. Questa era la seconda tappa di una fuga che non sapeva dove l’avrebbe portata.
Appena giunta a Como insieme con Gatti, Rachele s’era fatta accompagnare in Prefettura. Il marito le aveva detto, durante l’ultima telefonata, che alla Prefettura di Como avrebbe trovato la benzina e la scorta necessaria per raggiungere la Svizzera. Invece non c’era niente.
– Se le cose stanno così – aveva detto Rachele – chiamerò io il Duce.
Erano le 18: una “voce sconosciuta” rispose da Milano.
– Il Duce è in Arcivescovado… Perché? Non si sa perché…
In quel momento la linea si interruppe: un ronzìo, suoni senza senso invasero il microfono. Poi un silenzio che sarebbe durato oltre ventiquattro ore.
Le squadre partigiane avevano interrotto le linee di comunicazione.
Milano, palazzo dell’Arcivescovado, ore 18.30 del 25 aprile 1945
MUSSOLINI – Bene, generale Cadorna…
CADORNA – Si rivolga pure all’avvocato Marazza; è lui che rappresenta il CLNAI. Io sono solo un combattente, non un politico.
Stavano entrando Graziani, Zerbino e Barracu: i due ministri s’erano intrufolati dietro le spalle maestose del generale. Ci fu un tramestìo di sedie spostate attorno al tavolo ovale.
MUSSOLINI – E così, avvocato Marazza, cos’ha da dirmi?
MARAZZA – Poco. Le istruzioni che ho ricevuto dal Comitato di Liberazione sono rigorose. Io posso solo chiederle di arrendersi senza condizioni.
MUSSOLINI – Non sono venuto qui per questo! Allora è tutto un equivoco. Sono stato ingannato. Io volevo parlare di ben altro. Da quello che mi avevano detto…
LOMBARDI – Ma che cosa le avevano detto, si può sapere?
MUSSOLINI – Mi era stato detto che avremmo discusso della sorte… della vita, dei gerarchi e delle loro famiglie, che la milizia fascista avrebbe potuto concentrarsi in Valtellina senza essere assaltata. Insomma: il prefetto Mario Bassi sa queste cose, dovrebbe esserci Bassi là fuori. Chiamiamo Bassi per favore.
MARAZZA – Questi sono particolari, e sui particolari possiamo anche trattare.
MUSSOLINI – Salvacondotti per le famiglie dei fascisti, trattamento da prigionieri per i componenti delle brigate fasciste: c’è la convenzione dell’Aja per questo: protezione dei diplomatici accreditati in base alla legge internazionale.
MARAZZA – Sono particolari, ripeto, trattiamoli.
LOMBARDI – Sono formalità.
MUSSOLINI – Se è così, possiamo continuare la discussione. I gerarchi che si arrenderanno dovranno avere in cambio l’immunità. Potranno ritirarsi con le rispettive famiglie, diciamo a Varese.
LOMBARDI – Un momento, un momento! Bisogna distinguere tra responsabili di crimini e nemici. I responsabili di crimini saranno giudicati.
CADORNA – I criminali di guerra non potranno avere le medesime garanzie dei prigionieri di guerra.
MUSSOLINI – Il problema, adesso e subito, è quello della ritirata in Valtellina. Ci è concessa?
MARAZZA – La ritirata sì. Purché non vi venga in mente di sparare nemmeno un colpo di fucile contro i partigiani che occupano la valle.
MUSSOLINI – Oh, per questo …
GRAZIANI – Duce, permettete! Noi ci siamo armati e stiamo tutti combattendo per difendere l’onore e la lealtà dell’Italia nei confronti della Germania. Io, come ministro della Guerra e comandante supremo delle forze armate repubblicane chiedo che il comando tedesco venga informato subito di queste trattative. Ne va dell’onore italiano!
MARAZZA – Forse il governo della Repubblica sociale non sa che i tedeschi stanno trattando con noi da una settimana.
MUSSOLINI – Come? Non capisco, avvocato. I tedeschi stanno trattando con voi?
MARAZZA – Il termine scade tra poco. L’atto della resa tedesca è già pronto.
MUSSOLINI (a Schuster) – È vero, Eminenza?
SCHUSTER – Sì, il generale Wolff ha iniziato a trattare da tempo. I comandi tedeschi firmeranno la resa qui, in Arcivescovado.
MUSSOLINI – La Germania ha pugnalato alla schiena l’Italia. Ci hanno sempre trattato come servi e ora ci hanno anche tradito!
GRAZIANI – Siamo arrivati a questo! Dov’è l’onore, dov’è la lealtà? Migliaia di giovani sono caduti nel nome di questi sentimenti!
SCHUSTER – Sentimenti nobilissimi, sentimenti nobilissimi.
MARAZZA – Eminenza, ma è proprio per questi sentimenti che noi siamo scesi in campo dalla parte opposta!
MUSSOLINI – Basta, basta con il sangue!
MARAZZA – D’accordo. E allora, cosa decidete di fare?
MUSSOLINI – Fin da questo momento dichiarò di riprendere la mia libertà d’azione nei confronti della Germania. Sono le sette e un quarto. Vado a fare i conti coi tedeschi e tra un’ora esatta torno.
LOMBARDI – Non tra un’ora; fra tre quarti d’ora. Alle 20 in punto smetteremo qualsiasi trattativa.
Ognuna di queste frasi – le sole che realmente furono pronunciate nell’incontro tra il dittatore e i suoi giustizieri – avrebbe avuto per la storia il valore di un documento: l’ultimo documento di oltre vent’anni di potere.
Uscito dalla porta dello studio del cardinale, precipitandosi lungo la scalinata di marmo, Mussolini usciva definitivamente dalla storia. D’ora innanzi, per le poche ore che gli rimanevano da vivere, egli avrebbe smesso di recitare la parte che, al tramonto del 25 aprile, lo aveva indotto a fingere d’ignorare le trattative tedesche. Non gli rimaneva più nulla da salvare.
In macchina si sfogò con Cella: lo accusò di avergli teso un tranello mettendolo “nelle mani di quei criminali del CLNAI”. In Prefettura aggredì il primo tedesco che incontrò: – Il vostro generale Wolff è un traditore! – Nel cortile affollato della Prefettura qualcuno tra i familiari dei gerarchi cominciò a caricare i bagagli sulle automobili. Mussolini scosso da un tremito sentiva tutti e nessuno. Si rivolse a Pavolini, d’un tratto, quasi con un urlo: – Pavolini, date gli ordini!
E Pavolini: – Quali ordini, Duce?
Mussolini non rispose.
Milano, palazzo dell’Arcivescovado, ore 20 circa del 25 aprile 1945
Sandro Pertini non riusciva a trattenere l’ira. Soltanto un’ora prima parlava agli operai della fabbrica Borletti annunciando loro l’insurrezione. D’improvviso era stato assalito dal sospetto che i moderati Marazza e Arpesani3 si sarebbero fatti ingannare da Mussolini o avrebbero accondisceso a promettergli salva la vita. Concluso sbrigativamente il comizio, Pertini era balzato in macchina e pigiando il clacson come un forsennato aveva guidato fino all’Arcivescovado. Per le scale s’era urtato contro un gruppetto d’uomini che scendevano, gesticolando: non li aveva nemmeno guardati in faccia, ed ora sapeva che il primo di quegli uomini era Mussolini.
– Ve lo siete fatto scappare! – sibilava Pertini; e, dandosi pacche sulla fronte: – E io, fesso, che non l’ho riconosciuto!
– Cosa volevi fare?
– Ammazzarlo subito, con la mia pistola, lì, per le scale!
Leo Valiani e Emilio Sereni, giunti in Arcivescovado subito dopo Pertini, erano più calmi, ma solo in apparenza. Si rendevano conto che era stato un errore lasciare ai moderati Marazza e Arpesani l’iniziativa dei colloqui. Se Mussolini avesse tenuto fede ai patti, se fosse tornato per le otto, democrazia cristiana e liberali avrebbero potuto dettar legge. Marazza, in piedi al centro della stanza, faceva la voce grossa con Pertini, lo fronteggiava: – Se Mussolini si arrende, dobbiamo mantenere la parola. Non siamo assassini!
– La nostra parola è una sola: giustizia sommaria! – tuonava Pertini.
Il prefetto Tiengo, uno degli uomini più detestati dai capi della resistenza, entrò nell’anticamera piena di fumo e si avvicinò a Marazza.
Sono qui a nome del generale Diamanti, comandante della piazza di Milano. Vuole arrendersi.
Pertini ghignava furioso, Valiani e Sereni guardavano ostentatamente da un’altra parte. Marazza, imbarazzatissimo, disse a Tiengo: – Se vuole arrendersi, si arrenda. A noi cosa importa!
Fu allora che Sandro Pertini esclamò rivolto a tutti: Se Mussolini torna c’è una sola cosa da fare. Consegnarlo subito a un tribunale popolare e fucilarlo. Stasera stessa.
Il prefetto Tiengo mosse le labbra per parlare, ma non disse nulla. Scivolò via, tornò alla sua automobile e dieci minuti dopo era nel cortile della Prefettura a balbettare:
Vogliono fucilare il Duce, fucilarlo stasera…
Milano, Prefettura, ore 20.30
Ora Mussolini sapeva per certo che sarebbe morto fucilato. Benché intorno a lui tutti urlassero, le voci gli giungevano come un ronzio. Suo figlio Vittorio dovette tirarlo per la manica per fargli ascoltare l’ultima proposta: sbarrare l’unico ingresso della Prefettura, postare le mitragliatrici a ogni finestra, resistere ai partigiani fino all’arrivo degli angloamericani.
Il maresciallo Graziani tagliò corto: batté l’indice sull’orologio d’oro e sentenziò: — Duce, le otto sono passate!
Solo in quel momento e a quella frase Mussolini si riscosse dal torpore in cui l’aveva precipitato la notizia portatagli dal prefetto Tiengo.
Ormai, anche se per miracolo i “moderati” fossero riusciti a impedire la “giustizia sommaria”, era tardi per arrendersi. Era stato lui a mancare i patti: qualsiasi partigiano avrebbe potuto sparargli a vista. Mussolini spalancò la finestra sul cortile: il suo impero era ridotto a una carovana di una trentina di macchine con i portabagagli stracolmi. Le SS Birzer e Kisnatt alzarono il viso verso di lui.
– Sofort alles fertig in machen! – gridò loro Mussolini. E ripetè l’ordine in italiano: – Prepararsi a partire immediatamente!
Si rivolse a Graziani, a Pavolini, agli altri gerarchi assiepati intorno a lui: – Per ora si va a Como – disse.
In fondo alla stanza, silenzioso, c’era un uomo assolutamente tranquillo. Indossava calzoni grigi a righine e una lunga giacca nera.
Aveva in mano una valigia piccolissima che poteva contenere, al massimo, due camicie, un paio di calzini, e lo spazzolino da denti. Era l’ex comunista Nicola Bombacci. Bombacci colse lo sguardo sperso del suo antico nemico e gli sorrise. Mussolini gli si avvicinò e scese le scale aggrappato al suo braccio:
– Ti prego, vieni in macchina con me. Non ne posso più…
– Certo.
– È finita.
– Lo so.
Vittorio Mussolini, che faceva strada, domandò a Bombacci se il suo bagaglio consistesse in quella valigetta soltanto.
– Ero con Lenin quando dovemmo fuggire da Pietroburgo. Lenin mi ha insegnato che in certe circostanze non occorre altro.
Mentre ad una ad una le macchine uscivano dalla Prefettura, la radio clandestina dei partigiani ripeteva l’annuncio:
“Qui radio Milano-Libertà, qui radio Milano-Libertà! Patrioti del nord! L’esercito rosso è entrato a Berlino, nel centro nevralgico dell’imperialismo nazista e del militarismo prussiano, nel cuore della Germania. I vittoriosi eserciti della libertà, le colossali forze sovietiche, inglesi e americane hanno dato l’assalto finale alla fortezza hitleriana. Le unità corazzate e motorizzate del valoroso maresciallo Tolbukin avanzano velocemente sull’autostrada Vienna-Venezia per incontrarsi con le armate vittoriose di Alexander che sono al di là del Po. Da occidente un’armata francese incalza i tedeschi. L’invasore è preso in una morsa d’acciaio.
Radio Milano-Libertà, autorizzata dal CLNAI, vi chiede di prendere le armi e di insorgere in tutte le città e province.
Patrioti del nord! L’insurrezione è cominciata a Bologna. Quasi tutto il traffico è già arrestato. I partigiani si sono impadroniti di altre vaste zone dell’Emilia, della Liguria, del Piemonte, della Lombardia e del Veneto. Questo è il momento di gettare nella battaglia tutte le riserve. Tutti gli uomini e donne che hanno nel petto un cuore italiano debbono ribellarsi, insorgere e combattere con le armi in pugno l’odioso nemico. È l’ora della rivolta armata di tutto il popolo. Patrioti di Milano, di Torino, di Genova, di Venezia e di Trieste, insorgete!
Qui radio Milano-Libertà, qui radio Milano-Libertà…”.
Milano, palazzo dell’Arcivescovado, ore 21 circa del 25 aprile 1945
Don Giuseppe Bicchierai dovette aspettare a lungo prima che qualcuno rispondesse al centralino della Prefettura. I capi partigiani avevano smesso di discutere subito dopo aver preso la decisione di avvertire Mussolini che l’ora era scaduta- Ora fissavano don Bicchierai che agitava la cornetta del telefono per indicare che la risposta tardava. Finalmente don Bicchierai disse:
È il prefetto in persona? Qui è l’Arcivescovado. Volevamo conoscere…
Non disse altro: l’espressione solitamente cordiale e suadente gli sparì dal viso. Riabbassò la cornetta dopo qualche istante e disse ai capi del CLNAI, come se parlasse da solo:
Mussolini è partito. Non ha lasciato nessuna comunicazione. Partito per dove? – ruggì Pertini. Non si sa.
Il telefono squillò quasi subito. Don Bicchierai rispose e poi tese la cornetta a Pertini: – È per lei.
Pertini disse due o tre volte: – Sì, sì. – E alla fine: – Meglio così. Lascia che passino. – Quindi si volse a Valiani e a Sereni e mormorò: – Ora sappiamo dove sta andando.
La telefonata proveniva da un appartamento di corso Sempione, via obbligata per raggiungere Como. Dall’appartamento un gruppo di partigiani comandati da Aldo Marozin, soprannominato Vero, spiava la fuga dell’autocolonna di Mussolini.
Como, villa Mantero, tarda sera del 25 aprile 1945
Il Duce è a Como? Perché non è venuto qui da noi? – domandò donna Rachele all’ufficiale delle brigate nere che, con venti uomini infradiciati di pioggia, era stato mandato da Mussolini a villa Mantero.
– Il Duce è molto occupato, eccellenza. Ci siamo noi per proteggervi.
Rachele Mussolini era in vestaglia; i figli Romano e Anna Maria dormivano. I militi si dispersero nelle stanze buie e vuote: qualcuno di loro trascinò dei materassi davanti alla porta della camera di Rachele.
– Se non vi dispiace, noi dormiremo qui.
– C’è tanto pericolo? – domandò Rachele.
– Como è ancora nostra – rispose l’ufficiale.
Rachele provò a sollevare il telefono: ma non ne uscì nessun suono.
– Perché i telefoni non funzionano? – domandò.
– Sarà il temporale, eccellenza.
– Come sta il Duce?
– È ospite del prefetto. Quando l’abbiamo lasciato stava cenando.
– Voi avete fame? Vi preparo qualcosa?
– Andate a riposare, eccellenza.
– Non ho coperte per tutti, avrete freddo…
Con la stessa, drammatica rapidità con la quale Benito Mussolini aveva smesso i modi e i toni di un capo di stato per assumere quelli di un vecchio impaurito e braccato, Rachele Mussolini, che per oltre vent’anni era stata la prima donna d’Italia, ora si preoccupava della fame e del freddo di uomini che, in altri tempi, avrebbe guardato solo come servitori o parassiti. Per Rachele Mussolini, ormai da giorni, gli uomini si dividevano in traditori e in poveri moribondi.
Tornò a letto dopo aver indicato ai militi i servizi, la cucina, l’acqua potabile: se occorreva qualcosa, chiamassero: ma piano, per non svegliare Romano e Anna Maria. Si addormentò, nella stanza vibrante di lampi e tuoni. Contro il cielo denso di nuvole basse si rifletteva verso nord un chiarore costante, spettrale, rossastro. Era uno spettacolo che Rachele aveva ormai dimenticato: il riverbero delle luci di una città d’oltreconfine, Chiasso, in contrasto con il buio che soffocava Como.
Quando i militi che avevano sonnecchiato davanti alla porta della camera bussarono, era trascorsa la mezzanotte. Rachele, che non s’era tolta la vestaglia, si affacciò.
– Una lettera dalla Prefettura di Como, eccellenza.
Rachele prese stupita una busta: la grafia, la matita blu, erano quelle di Benito Mussolini. Rachele svegliò Anna Maria e Romano, sedette con loro sul letto, disse:
– Papà ci ha scritto, leggiamo tutti insieme.
Stracciò la busta e ansimava.
Cara Rachele,
eccomi giunto all’ultima fase della mia vita, all’ultima pagina del mio libro. So che forse non potremo più rivederci, per questo ti scrivo. Ti chiedo perdono per tutto il male che ti ho fatto senza volerlo, ma tu sai che sei stata l’unica donna alla quale ho veramente voluto bene: te lo giuro davanti a Dio e al nostro Bruno in questo momento supremo. Noi dobbiamo andare In Valtellina, ma tu, coi ragazzi, cerca di raggiungere la frontiera Svizzera. Là vi farete una nuova vita. Credo che non vi rifiuteranno il passaggio, perché li ho aiutati in ogni circostanza e soprattutto, perché siete estranei alla politica. Se così non fosse, dovete presentarvi agli Alleati, che probabilmente saranno più generosi degli italiani. Ti raccomando Anna e Romano, specialmente Anna che ne ha tanto bisogno. Ti bacio e ti abbraccio assieme ai ragazzi.
Tuo Benito.”
Le lacrime scivolavano sul viso di Rachele. Anna e Romano, seduti sul letto, tacevano. Rachele si alzò, vacillò un po’ per la stanza, si domandò, intontita, ad alta voce: – Come, non ci vedremo più?
Con la lettera in mano spalancò la porta della camera, scavalcò i materassi dove i militi di guardia s’erano riassopiti, raggiunse il telefono. Per la prima volta, da quasi ventiquattr’ore, il telefono diede il normale segno di “libero”. Un minuto dopo, Mussolini, con la voce roca, le rispondeva. Fu il loro ultimo colloquio:
– Benito, dormivi?
– No, no…
– Ho avuto la tua lettera.
– Bene, come stanno i ragazzi?
– Come ti senti tu, piuttosto.
– Così.
– Mi hanno detto… che la lettera l’hai consegnata a Buffarini Guidi. Dovrebbe essere qui fuori… che cosa c’entra Buffarini: sai che non voglio più vederlo.
– Non ho dato la lettera a Buffarini, ma l’importante è che tu l’abbia ricevuta. Cercate di raggiungere la Svizzera.
– Con Buffarini?
– Ma che cosa c’entra questo Buffarini?
– Mi dicono che è qui sotto con una macchina per portarci in Svizzera.
– Senti Rachele, me ne infischio di Buffarini o di altri, vai con chi vuoi, ma vai in Svizzera. Non preoccuparti, almeno a te nessuno farà del male.
– E a te? Benito!
– A me…
– Benito.
– Non piangere, su.
– Ti dò Romano, è qui.
Romano non piangeva. Disse al microfono, con la voce che cominciava a farsi adulta:
– Papà, chi c’è con te? Vi state organizzando per difendervi?
La voce del dittatore era molto calma:
– Non c’è più nessuno, Romano. Sono rimasto solo. Tuo papà… è rimasto solo!
– E i militi della guardia? Dove sono finiti? E Pavolini?
– Non so niente, Romano. Pensa che poco fa se n’è andato anche Cesarotti, l’autista. Sono proprio solo.
– Vieni qui!
Romano piangeva.
Rachele gli prese il telefono:
– Benito, perché non vieni qui?
– Devo… devo seguire il mio destino. Rifatevi una vita, per piacere, datemi retta…
– E tu?
– Vado in Valtellina…
– Con Pavolini? Quanti uomini hai?
– Aspetto di saperlo. Tu e i ragazzi partite al più presto. Subito.
La telefonata finì così.
Un’ora più tardi Rachele e i figli sarebbero partiti per la frontiera svizzera.
Venti minuti d’auto verso il riverbero delle luci nel cielo nuvoloso. Davanti alla sbarra di confine avrebbero atteso l’alba per sentirsi dire da un gendarme di frontiera:
– Dovete tornare indietro. I Mussolini non passano.
Rachele tornò a Como. Mussolini era già ripartito, senza dormire, né cambiarsi d’abito, né farsi la barba.
Nasceva, tra la nebbia, il 26 aprile.
Como, palazzo della Prefettura, alba del 26 aprile 1945
4Svizzera, Svizzera, Svizzera! – scandiva Mussolini, e batteva il pugno destro contro il palmo sinistro. Negli anni a venire la storia si sarebbe preoccupata di sapere ciò che realmente voleva il dittatore: se rifugiarsi in Svizzera, tentare la ritirata in Valtellina, entrare in Germania attraverso il Brennero. In effetti egli voleva solo – e umanamente – salvarsi; perciò saltava da una proposta all’altra senza sapersi decidere. Gli pareva, decidendo per una soluzione, di precludersi le altre due.
In quell’alba ritardata dal cielo cupo e piovoso (il temporale s’era spento in una pioggia fitta e silenziosa) Mussolini disse ancora una volta, in faccia al prefetto di Como, Renato Celio:
– Proviamo la Svizzera! – E subito, senza alcun pudore per i gerarchi: – Celio, telefonate a Lugano, al consolato americano. Dite che sono qui e che voglio passare il confine. Avanti, telefonate!
Passò un’ora, prima che Celio riuscisse a mettersi in comunicazione con il console americano Don Jones e questi con Allen Dulles. Poi fu Don Jones a richiamare la Prefettura: aveva svegliato Dulles, lo aveva informato della proposta di Mussolini e Dulles aveva acconsentito a un patto: che soltanto due fascisti oltre a Mussolini passassero il confine e che ciò avvenisse entro le ore tredici.
L’ufficio del prefetto Celio, invaso di gente, esplose in un coro di proteste: – E noi, Duce? Noi cosa facciamo? – gridavano i gerarchi.
Solo Bombacci, seduto in un angolo con la sua valigetta, si carezzava la barba biondiccia in silenzio.
Va bene, va bene, c’è tempo, non è ancora giorno! – disse Mussolini.
Non sapeva che in quello stesso momento sua moglie e i figli intirizzivano in automobile alla frontiera di Chiasso nell’attesa vana che la sbarra di confine si alzasse.
Il prefetto Celio guardò l’ora: – Sono le quattro, Duce. Dovreste dormire.
Qualcuno lanciò allora un allarme cui tutti finsero di credere nella frenesia di guadagnare qualche chilometro verso il nord:
– Gli americani sanno che voi siete qui, Duce. Dobbiamo aspettarci da un momento all’altro un bombardamento a tappeto su Como.
– Non è escluso, Duce – ammise Celio, e propose di trasferirsi a Menaggio, trentaquattro chilometri più avanti, più vicino al confine di Porlezza con la Svizzera.
Mussolini si rivolse a Bombacci: – Che dici? Andiamo?
Bombacci si tirò su, raccolse la piccola valigia e fece strada verso l’Alfa Romeo del dittatore. Nella macchina, come un’apparizione, Mussolini vide rannicchiata Claretta Petacci. Poco prima gli avevano detto che Clara, “la signora”, aveva lasciato Milano sulla lussuosa automobile di suo fratello Marcello e con documenti spagnoli falsi. Mussolini se n’era stizzito: – Mandatela via! Cosa ci viene a fare qui, quella donna! – Adesso, scorgendola nell’opalescenza dell’alba, si strinse vicino a lei, prendendole le mani. Bombacci guardava fuori dal finestrino.
A Menaggio, nella villa del vice-federale, Mussolini si addormentò per due ore. Si risvegliò più intontito di prima, alle sette, proprio mentre a Milano squadre di attacchini volontari affiggevano per le vie il primo manifesto della libertà:
“Assunzione dei poteri da parte del Comitato di Liberazione Nazionale della Lombardia – Il Comitato di Liberazione Nazionale della Lombardia, espressione unitaria delle forze che hanno collaborato alla lotta di liberazione nazionale – per volontà ed azione di popolo – in forza del mandato conferito dal governo democratico italiano al CLNAI, rappresentante legittimo del Governo stesso e come tale riconosciuto dalle Autorità Alleate, assume tutti i poteri di amministrazione e di governo nel territorio della Lombardia e decreta… Tutte le forze armate dell’ex regime fascista sono sciolte. Gli appartenenti alle disciolte forze armate del passato regime sono tenuti, sotto pena di morte, a presentarsi per la consegna delle armi e dell’equipaggiamento al Comando dei Volontari della Libertà… Una Commissione per l’Epurazione e per la repressione dei reati di collaborazione col nemico, e una Commissione di Giustizia sono istituite presso questa Giunta Regionale di Governo per la punizione esemplare dei criminali di guerra e di quanti si sono resi complici della barbarie e dell’oppressione nemiche. – Milano, 26 aprile 1945. F.to: Sereni Emilio, del Partito Comunista Italiano; Tamaro Tullio, del Partito Comunista Italiano; Canetta Arturo, del Partito d’Azione; Polese Pablo, del Partito d’Azione; Sola Mario, del Partito della Democrazia Cristiana; Annoni di Gussola Pier Maria, del Partito della Democrazia Cristiana; Bergamasco Giorgio, del Partito Liberale Italiano; Guglielmetti Cesare, del Partito Liberale Italiano; Frigè Edoardo, del Partito Repubblicano Italiano; Ottini Luigi, del Partito Socialista Italiano di unità proletaria; Jori Lamberto, del Partito Socialista Italiano di unità proletaria”.
Il “tribunale” che avrebbe condannato alla fucilazione Mussolini funzionava già.
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