DVX VI

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Desenzano sul Garda, 12 marzo 1945
Le tre automobili viaggiavano lentamente a distanza ravvicinata.
Sul sedile posteriore della prima, un’Alfa Romeo, sedeva, intabarrato come al solito, Benito Mussolini. Il comandante delle SS Karl Wolff occupava, con il suo attendente e due altri ufficiali, la seconda macchina, una Mercedes. Sulla terza macchina c’era la scorta armata. La sera primaverile era fredda, maledettamente serena: le tre automobili si sarebbero potute scorgere da duemila metri d’altezza.
Erano trascorsi esattamente quattro giorni da quando Karl Wolff, all’insaputa di Hitler e di Mussolini, s’era incontrato con Allen Dulles, e otto dalla sera in cui, durante una cena privata nella sua villa di Fasano sul Garda, a pochi chilometri da Gargnano, egli aveva deciso insieme ai suoi collaboratori di mettere in libertà il capo della resistenza italiana Ferruccio Parri.
2Il cameriere che aveva servito la cena in giacca e guanti bianchi era un italiano che capiva perfettamente il tedesco. Karl Wolff non aveva sospettato affatto che questo cameriere dall’aria composta e indifferente fosse una spia messagli in casa dal prefetto fascista di Novara. Wolff era quindi in perfetta buona fede quando aveva giurato ad Allen Dulles che i fascisti non avrebbero mai saputo della liberazione di Parri.
Mussolini, invece, sapeva ogni cosa; ma per una sorta di masochismo o di sfida aveva deciso di stare al gioco, di continuare a fingere. In fondo, i suoi rapporti con i tedeschi erano giunti a un punto tale di tensione che qualsiasi argomento ulteriore avrebbe potuto romperli del tutto: e la Germania, benché ormai soffocata da ogni lato, era pur sempre un gigante rispetto alla RSI. Mussolini voleva distaccarsene, non eccitarne la furia.
Il dottor Zacharias avrebbe sentenziato che l’atteggiamento di Mussolini era il naturale risultato della sua dissociazione mentale avanzata. In realtà Mussolini si sentiva amaramente offeso dal comportamento di Wolff, e aveva dovuto far forza su se stesso per controllarsi. Al conte Mellini Ponce de Leon egli era apparso più deluso e rassegnato che irato, il giorno stesso in cui aveva saputo della liberazione di Parri. Aveva detto a Mellini, secondo quanto il ministro aveva scritto sul suo taccuino: – Quest’uomo, questo Parri, è stato preso casualmente prigioniero dai tedeschi ed essi l’hanno rilasciato… Nonostante l’importanza della persona di Ferruccio Parri, quale capo della lotta che i partigiani conducono contro di noi, non mi sono opposto al suo rilascio nella speranza che questo potesse facilitare trattative intese a diminuire i danni alle persone e alle cose nell’Italia del nord e ad assopire l’acrimonia che ormai caratterizza la guerra civile…
Poi aveva avuto uno scatto subito trattenuto e, come Mellini aveva appuntato, aveva soggiunto: – Il Rahn e il Wolff, però, da troppo tempo si guardano bene dal farmi sapere che cosa sta succedendo. Eppure so che stanno trattando con il Comitato di Liberazione. Possono avere anche ragione nel farlo, può essere opportuno; però, perdio, credo di avere almeno il diritto di esserne informato!
Nei giorni successivi inutilmente Mussolini aveva aspettato che Karl Wolff gli accennasse qualcosa. Per creare le circostanze adatte, aveva intrapreso il breve viaggio fino a Mantova dal quale, adesso, stava ritornando. Pretesto del viaggio era passare in rassegna un gruppo di soldati della guardia nazionale repubblicana in addestramento. Sapeva che Wolff lo avrebbe seguito e sperava che, in un momento qualsiasi, avrebbe cominciato a parlargli delle trattative. Ma Wolff non lo aveva fatto, e il viaggio era quasi finito.
D’improvviso il rombo della macchina parve ingigantire: l’auto sterzò verso la cunetta e Mussolini vide dal lunotto posteriore un aereo a bassa quota che si avventava lungo il nastro stradale. Non ebbe neppure il tempo di pensare: si rannicchiò nelle spalle ad aspettare che la raffica di mitragliatrice lo uccidesse. L’aereo inglese sfrecciò sull’automobile seminando una pioggia di pallottole che sforacchiavano l’asfalto in centinaia di piccole esplosioni. Mussolini vide l’aereo rialzarsi, compiere un’ampia curva contro il sole e tornare indietro. Qualcuno gli stava gridando di uscire dall’auto: si fece trascinare e si lasciò spingere come un fagotto giù per la scarpata. Wolff era acquattato a pochi metri da lui: la terza macchina bruciava e un ufficiale tedesco, già morto, spuntava dal fumo solo con le gambe. L’aereo ripeté il percorso, mitragliò ancora: un altro tedesco della scorta, un soldato, fu colpito proprio accanto a Mussolini e cominciò a urlare. Il vecchio dittatore vide allora l’aereo scomparire verso il lago.
Si rialzò a fatica.
A Wolff che gli chiedeva: – Siete ferito, Duce? Rispose solo: – No, grazie. – Tornò alla sua auto e ordinò di proseguire. La sua era la sola auto in grado di farlo.
Quella sera, a Gargnano, Mussolini rifiutò di cenare. A Gargnano si sparse tra i soldati fascisti e tedeschi la voce che il “duce era stato miracolato”. I ministri telefonavano continuamente finché Mussolini smise di rispondere. Rachele era atterrita: chiedeva al marito di raccontarle tutto, lo supplicava di non muoversi più, mai più, da villa Feltrinelli.
Mussolini disse: – Non ha nessuna importanza.
Gargnano, villa Feltrinelli, notte tra il 12 e il 13 marzo 1945
Poteva essere morto da una decina di ore sotto la raffica di Desenzano. Il fronte militare stava crollando ovunque, le diserzioni tra le file della RSI aumentavano, i tedeschi tradivano: la sua buona stella era tramontata per sempre. La morte era solo rinviata, lo sapeva benissimo. Tuttavia l’incidente aveva risvegliato in lui una sorta di dignità: se la raffica l’avesse ucciso, la storia avrebbe detto ch’egli era morto stupidamente. E questo, almeno questo, doveva impedirlo.
Estrasse dal cassetto laterale dello scrittoio un foglio conservato in una cartella di pelle. Erano annotazioni frettolose, un promemoria ch’egli aveva preparato alla fine di febbraio e che suo figlio Vittorio aveva letto al cardinale arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster. Schuster, dopo aver ascoltato, aveva chiesto a Vittorio Mussolini che il duce gli scrivesse direttamente, senza intermediari, quanto aveva da dirgli. Da allora Mussolini non aveva più pensato alla possibilità di usare i buoni uffici dell’arcivescovo.
Quella notte, invece, riprese il promemoria, lo stese sotto la luce dell’abat-jour e cominciò a ricopiarlo e perfezionarlo.
Mise la data: 13 marzo 1945. Poi una specie di titolo: “Proposte di trattative del Capo dello Stato”. E con la lentezza di uno scrivano continuò:
“Nel caso che gli avvenimenti bellici o politici costringano le armate di Kesselring a ripiegare entro i propri confini, in quel momento le Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana di ogni specialità si raduneranno in località prescelte anticipatamente onde opporre la più strenua resistenza contro il nemico e le forze del disordine e del governo regio, consci che l’odio antifascista non concede loro altra via d’uscita se non il combattimento fino all’ultimo uomo e all’ultima cartuccia.
Pur tuttavia, per evitare nuovi lutti alle popolazioni dell’Italia settentrionale e preservare dalla totale3 distruzione quel che ci rimane del patrimonio industriale e agricolo, e per dimostrare che l’amore per l’Italia è anteposto ad ogni interesse di partito o di idee, il governo della Repubblica Sociale Italiana propone che vengano firmati accordi preliminari con il Comando supremo alleato, in base ai quali le due parti contraenti si obbligherebbero sui seguenti punti:
1 – Le forze armate della RSI al comando del maresciallo Graziani e tutte le altre formazioni armate della Repubblica manterrebbero per quanto possibile l’ordine nelle città e nei paesi, fino a che non intervengano accordi diretti tra il comando alleato e quello della RSI.
2 – Ogni movimento incontrollato ed estremista da parte di formazioni irregolari o di piazza (bande partigiane, comunisti, comizi, scioperi ecc.) verrà controbattuto dalle forze armate repubblicane e da quelle alleate. Il clero si impegna a svolgere fin da ora decisiva opera di propaganda a favore della pacificazione generale.
-Il Comando alleato si impegna di impedire che le formazioni partigiane svolgano azioni indiscriminate di terrore e di rapina, e provvederanno al loro disarmo prima delle formazioni regolari della RSI. Inoltre il Comando alleato eviterà nella maniera più assoluta che formazioni del governo Bonomi e dei Regi Carabinieri vengano nella valle padana sino a che l’ordine non sia completamente ristabilito.
4 – Condizione assoluta per le trattative e la firma dell’accordo è che, contro coloro che mantennero fede ai patti liberamente scelti e si batterono con onore contro il nemico, siano essi fascisti o soldati che hanno giurato fedeltà alla RSI o civili impiegati nei vari ministeri ed enti e le loro famiglie, vengano, all’atto che gli accordi presenti siano firmati, immediatamente a cessare gli arresti, i processi e abolita ogni altra forma di persecuzione…”.
Ora Mussolini era giunto alla frase più difficile di tutta la lettera. La sola che lo riguardasse personalmente. Bastava un aggettivo o un verbo sbagliato ad annullare per sempre la sua dignità. Cominciò con un avverbio del tutto estraneo al suo vocabolario: “parimenti”.
“Parimenti si gradirebbe conoscere la sorte che avrebbero i membri del governo e quanti hanno avuto funzioni di comando nella RSI. (Arresti, campi di concentramento, esilio.)”
Continuò come si conclude un testamento:
5 – Il Partito Repubblicano Fascista si scioglie. Resta inteso che i cittadini avrebbero la parità dei diritti e dei doveri, e si auspica in quel momento la formazione di un Governo rappresentativo di ogni tendenza, e la convocazione della Costituente al più presto”.
Firmò e rilesse. L’auspicare la “formazione di un Governo rappresentativo di ogni tendenza” era, per lui, tornare indietro di oltre vent’anni, all’epoca della marcia su Roma, quando, per meglio insediarsi al potere, aveva chiamato a far parte del governo tutti i partiti, meno i comunisti. Nelle sue intenzioni egli stava uccidendo la dittatura e il fascismo. Ma ciò che più gli pareva abile, in questa lettera, ciò che realmente lo illudeva di possedere ancora l’antica genialità politica, era nell’aver chiesto perentoriamente, quasi brutalmente, tutto ciò che in fondo gli angloamericani volevano e avevano cercato di ottenere. In pratica egli proponeva un passaggio di poteri dalla dittatura alle “democrazie occidentali” che scavalcasse tutto il movimento partigiano. Egli ignorava che, nei “protocolli di Roma”, ai dirigenti del Comitato di Liberazione era stato chiesto e imposto il disarmo immediato, dopo la guerra, dei partigiani: e faceva agli alleati la stessa proposta. Ignorava che gli angloamericani avevano già tentato tutto quanto in loro potere affinché non ci fosse un’insurrezione partigiana.
Aveva agito seguendo una logica politica tutt’altro che disprezzabile. Il vizio del suo ragionamento (e sarebbe morto senza capirlo) era nella convinzione che tra gli angloamericani e se stesso non ci fosse alcuna reale forza politica; nella presunzione (agevolata da vent’anni di trionfi) di essere lui, e non altri, l’autorità costituita; di credere di poter tentare, quindi, un colloquio tra autorità costituite, scavalcando – come sempre aveva fatto – gli oppositori italiani.
Mussolini non riusciva a immaginare la trasformazione dell’antifascismo generico in forza politica internazionale. Non sapeva che l’odio che lo bersagliava non era più un vago sentimento: era il giudizio di un’Italia libera che s’era ormai data leggi, sentenze e programmi.
Meno di due settimane prima che Mussolini scrivesse la lettera a Schuster, e subito dopo che suo figlio Vittorio aveva accennato al cardinale le proposte del vecchio dittatore, un emissario dell’arcivescovo ne aveva informato le autorità militari inglesi. Queste ne avevano parlato, a Lione, con il generale Cadorna e con il rappresentante del Comitato di Liberazione per il Partito d’Azione, Leo Valiani. La cosa era stata comunicata solo come notizia. Leo Valiani ricorda che gli inglesi dissero: – Naturalmente si tratta di proposte inaccettabili. Mussolini si deve arrendere senza condizioni. – Cadorna e Valiani avevano assentito come dinanzi a un’ovvietà: in caso contrario l’esercito partigiano non avrebbe esitato a opporsi agli stessi angloamericani; e questi lo sapevano.
Gargnano, villa Orsolina, 17 marzo
Mussolini non aveva ancora ricevuto risposta alla sua lettera al cardinale. Quando gli fu annunciata la visita (l’ultima) di don Giusto Pancino. Pensò che gli portasse notizie di sua figlia Edda.
Don Giusto Pancino era un sacerdote di trentasei anni, amico di Edda prima ancora della marcia su Roma. Edda e lui erano stati ragazzi insieme, quando Mussolini era solo il direttore del “Popolo d’Italia”.
Padre Pancino – come lo chiamava Rachele – non aveva alcuna autorità effettiva, ma, agli occhi di Mussolini, aveva un merito immenso. Dopo la fucilazione di Galeazzo Ciano era stato lui, don Pancino, a rintracciare in una clinica di Ingebolg, in Svizzera, Edda fuggita in odio al padre.
Ormai da un anno il giovane prete frequentava villa Orsolina con autorità pari a quella di un ministro. Per feroci che fossero le missive che Edda mandava suo tramite, Mussolini lo accoglieva come un benefattore.
Quel 17 di marzo, don Giusto tornava da uno dei suoi frequenti viaggi oltre il confine svizzero. Il dittatore gli chiese subito della figlia, ma il prete fu, per la prima volta, evasivo. Era latore di ben altri messaggi e non sapeva come cominciare.
4A Berna era stato fermato dalle SS di Wolff. Sul momento il prete aveva creduto che si trattasse della solita offerta di decine di milioni (s’era già arrivati a 100 milioni) per poter acquistare gli originali del diario di Galeazzo Ciano conservati da Edda. Gli emissari di Wolff lo avevano aggredito con argomenti assai più spinosi. In altre parole gli avevano detto: – Voi siete un uomo di fiducia di Mussolini, in qualche modo potete anche influire sul suo comportamento. Da qualche tempo Mussolini ha perso la testa: noi non sappiamo che cosa abbia in animo di combinare, ma voi fareste bene a sorvegliarlo, a impedirgli qualsiasi passo contro di noi o senza di noi. E questo non è un consiglio: è un ordine.
Don Giusto Pancino s’era schermito, ma s’era sentito avvampare. In effetti fin dal dicembre scorso Mussolini gli aveva chiesto di vedere un po’, attraverso il Vaticano, se non fosse stato possibile entrare in trattative con gli angloamericani. Da allora Mussolini aveva lasciato cadere il discorso, ma don Pancino se n’era ricordato: e proprio il giorno prima si era rivolto al nunzio apostolico, a Berna.
Il nunzio aveva promesso di interessarsi della proposta, ma aveva anche rivelato a don Pancino che, appena da qualche giorno, era stato incaricato dal cardinale Schuster di farsi interprete presso gli alleati in Svizzera di una serie di condizioni poste da Mussolini per la resa. Don Pancino, insomma, s’era accorto che il dittatore stava contrattando sul serio all’insaputa dei tedeschi e che gli uomini di Wolff avevano quindi ragione.
Soffocato dalle incombenze che all’improvviso gli erano cadute addosso, il giovane prete ritenne opportuno chiudersi più che mai nella propria missione spirituale. Trascurando ogni argomento concreto, fece a Mussolini una sorta di predica consolatoria, un invito alla pazienza e alla sopportazione.
Non immaginava l’esito che un simile atteggiamento avrebbe avuto sull’animo di Mussolini. Il dittatore rimase in silenzio, fissando il vuoto, e annuendo con brevi, lenti cenni del capo agli inviti del religioso a riavvicinarsi alla chiesa. Disse qualcosa come:
Ma io credo, padre, io credo… – e poi, d’improvviso, tendendo la mano: – Padre Pancino, salutiamoci qui, perché so che morirò ucciso.
Confessatevi, allora.
Mussolini prese tra le sue la mano del sacerdote e crollò il capo sorridendo. Don Pancino incalzava. Chissà come, gli era venuto in mente che, se fosse riuscito a confessare e comunicare Mussolini, gli avrebbe anche salvato la vita. Questo, naturalmente, non voleva dirglielo: Mussolini sarebbe stato capace di tappargli la bocca dicendo che vivere non gli importava più, in nessun modo.
Se voi sentite la morte vicina, Duce, ogni istante è prezioso. Io posso confessarvi qui, nel vostro luogo di lavoro; qui, nel vostro studio, ora.
Mussolini sorrideva inebetito: la sua mano, che stringeva sempre più quella di don Pancino, sudava freddo.
Il prete tentò ancora: – Ciano, vostro genero, si è confessato prima di morire.
Mussolini si irrigidì: – Addio, don Giusto.
Il prete si ritirò: non aveva ottenuto la confessione del dittatore, ma gli pareva di avergli somministrato l’estrema unzione. Non lo vide mai più.
Non molti giorni dopo, l’11 aprile, la nunziatura apostolica di Berna riceveva dal Vaticano il messaggio di risposta alle offerte di resa fatte da Mussolini tramite il cardinale Schuster e don Giusto Pancino:
“Consta alla Santa Sede che Alleati non intendono entrare in trattative ed esigono resa senza condizioni”.

30 pensieri su “DVX VI

  1. Notevole proprio, caro Milord. Ci fai rivivere quei momenti con gli occhi di adesso.
    Incredibile. Sto guardando quegli avvenimenti con occhi nuovi.
    Buona domenica

    dalla partenope Capitale,
    Dudù

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    • Grazie Dudù.
      Gli avvenimenti, qualsiasi storia si proponga, non sono mai cristallizzati nello spazio del ricordo. Più si studiano e più si comprendono le ragioni, o addirittura, la ragione di alcune scelte.
      Grazie e buona serata

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  2. Ormai mi dedico, a tempo pieno nel mestiere di nonno, per cui ho pochissime occasioni di navigare tra i siti. Dopo aver letto questa puntata, però, non posso esimermi dallo scriverle quanto sono soddisfatto per la sua trasposizione storica senza storpiare gli eventi.
    Forse, tutto, è andato proprio così.
    Anzi, le dirò che sicuramente quegli avvenimenti hanno preso questa piega.
    Le auguro una buona giornata

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    • La ringrazio per le espressioni estremamente generose.
      Mi conforta il fatto che, alcune frasi dette da lei, sono doppiamente gradite.
      So, perfettamente, quanto lei sia “parco” negli elogi.
      Buon pomeriggio

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  3. Un capitolo straordinario per capacità stilistica, analisi storica e suspense (anche se ovviamente sappiamo tutti come andò a finire). Ci sarebbe da fare un lungo discorso sui partigiani e sugli assassini – italiani – di via Rasella.
    Lo farò alla fine.
    Buona serata!

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    • Grazie per le gentili espressioni.
      Sempre generosa.
      Giusto per l’odierna data, in merito agli assassini e agli assassinii di Via Rasella, anch’io avrei qualcosa da scrivere.
      Ovviamente, attenderò il tuo pezzo che sarà, sicuramente, di pregevolissimo interesse.
      Ciao, grazie e buona serata.
      (Ovviamente, come già scritto, in occasione della serie DVX ho sospeso l’uso del Voi).
      Ciao e buona serata

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  4. Difficilissimo scrivere di Mussolini con i tempi che corrono.
    Ti prenderanno, nottetempo e verrai ricoperto di pece e piume. E più urlerai più ti faranno contorcere nel dolore delle sofferenze.
    Finquando non ti faranno baciare e genuflettere davanti ad una falce e martello.
    A quel punto, anche l’ultimo briciolo di dignità, per te sarà finito.
    Elemosinerai pietà mentre, dentro un gulag, verrai sferzato con un nerbo di bue.

    Ciao milord (sei proprio bravo).
    Sorrido

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    • Sì, è vero. E’ molto difficile scrivere di Mussolini soprattutto quando l’analisi storica del periodo fascista è stata fatta, compiuta, ad origine, non da italiani, ma dal rimenente del pianeta.
      Certo è che il prospetto che poni mi lascia perplesso per le prossime estensioni (Ho scritto il n.7 e sono, sempre, avanti di una puntata che scrivo al bisogno).
      Vedrò di farmi forza, raccogliere tutto il mio coraggio e continuare a scrivere.
      Grazie per le parole gentilissime.

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  5. Ho letto con avidità e tutto d’un fiato.
    Qualche difficoltà a starti duetro. Infatti la dovizia di informazioni, la precisione e la pulizia, mi hanno proprio stupita.
    Bravissimo come sempre.
    Ciao

    Lilly

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  6. Pingback: Mussolini bersagliato con Wolff tra Lonato e Desenzano – Brescia Genealogia

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