DVX VIII

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Milano, palazzo della Prefettura, 19 aprile 1945
Franz Spoegler restò prudentemente dietro la porta del nuovo ufficio di Mussolini mentre Claretta vi entrava 2spedita. Ormai Spoegler ne aveva abbastanza di certe storie: era disposto anche a rinunciare alla sua simpatia per Claretta, pur di ritirarsi, almeno lui, sulla remota montagna di Jacheroff. Tuttavia aveva accettato di accompagnare Claretta fino a Milano.
Davanti a Mussolini che sedeva al tavolo desolatamente nudo della Prefettura, tra i mobili stile impero che parevano bare, Clara Petacci non ebbe l’ardire di fare la scenata che mentalmente si era preparata.
Disse soltanto: – Eccomi – e, sfinita, si mise a piangere.
Mussolini si passò la mano sul cranio nudo e giallastro: – Ma perché? Cosa ci stai a fare qui?
Clara ingoiò le lacrime: capì che da Benito non sarebbe sortito nessun sentimento se non di angoscia. Allora disse, improvvisando:
– Sono venuta a Milano per… salutare i miei. Sai che partono per la Spagna? Sì, l’ambasciatore Rahn ha messo un aereo a disposizione.
– Vai anche tu? – domandò Mussolini.
Clara non diede una risposta immediata, e con tutta probabilità Mussolini le fu grato. Disse Clara: – Io sono qui vicino, in piazza San Babila, a casa dei miei.
– Io ho molto da fare – disse Mussolini.
Qualche minuto dopo Claretta Petacci raggiunse Spoegler, che continuava a passeggiare impaziente davanti all’ufficio.
– Andiamo Spoegler, mi accompagni a casa, per favore. – Claretta piangeva con il volto nel fazzoletto e tra i singhiozzi ripeteva: – Se vogliamo salvarlo, Spoegler, se gli vogliamo veramente bene dobbiamo costringerlo con la forza a fuggire. Altrimenti lo perdiamo, Spoegler.
Franz Spoegler le dava piccoli colpi sulle mani, più per impazienza che per consolarla. Non voleva affatto dover rispondere alla domanda che sentiva incombere su di sé: “Spoegler: perché non rapisce il duce?”
Claretta gliene rivolse un’altra, di domande, e a Franz Spoegler non parve vero di accettarla subito. Gli chiese di tornare a Gargnano, a villa Mirabella, per prenderle dei vestiti. Aveva deciso di seguire Mussolini ovunque.
Così Franz Spoegler lasciò Milano e non si fece più vedere.
Milano, palazzo della Prefettura, 21 aprile 1945
Mussolini era a Milano da sessanta ore e il territorio della RSI s’era andato paurosamente restringendo attorno a lui. Le celebrazioni del natale di Roma, che il 18 sembravano ancora possibili, sarebbero state ormai una presa in giro. Come regalo per quel natale di Roma, Benito Mussolini ebbe la notizia che gli angloamericani avevano superato Bologna e si accingevano a passare il Po.
Il maresciallo Graziani disse: – Duce, non è più una guerra. È una rotta militare.
Mussolini assentì con indifferenza. Si volse a Pavolini che prese un’espressione trionfale. Il segretario del partito annunciò che tutte le brigate nere della Liguria e del Piemonte erano in marcia verso la Lombardia e, quindi, per la Valtellina.
Anche stavolta Mussolini assentì senza fiatare, mentre Graziani aggrediva Pavolini, accusandolo di essere un mentitore e un traditore. Pavolini uscì sbattendo la porta.
Mussolini rimase solo a rileggersi per l’ennesima volta il monito che il giorno prima il CLNAI aveva indirizzato a tutte le forze armate fasciste e tedesche. Leggeva senza nessuna emozione, ma concentrato quasi avesse voluto mandare a memoria ciò che il proclama diceva:
“Una sola via di scampo e di salvezza resta ancora ai tedeschi che calpestano il nostro suolo e a quanti, italiani, hanno tradito la Patria, sostenuto il fascismo, servito i tedeschi: abbassare le armi, consegnarle alle formazioni patriottiche, arrendersi al Comitato di Liberazione.
È questa l’intimazione formale e precisa che il Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia – delegato dal governo nazionale per la condotta della lotta di liberazione nell’Italia occupata – indirizza a tutte le forze di occupazione tedesche e ai loro complici. Sia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà fucilato…”.
Lo sguardo di Mussolini scivolava come affascinato sulla conclusione del proclama: “Che nessuno possa dire che, sull’orlo della tomba, non è stato avvertito e non gli è stata offerta un’estrema ed ultima via di salvezza”.
Come un’eco della memoria, Mussolini riudì la frase che il maresciallo Graziani aveva pronunciato a propria difesa una volta che, come al solito, litigava con Pavolini: — Io mettermi d’accordo con quei quattro fessi del Comitato di Liberazione che non si sa nemmeno chi siano e che cosa rappresentino? Tutto da ridere.
Non erano affatto fessi, ma erano proprio quattro gli uomini che da quasi un mese il Comitato di Liberazione aveva nominato a capo dell’imminente insurrezione milanese: si chiamavano Luigi Longo (comunista), Leo Valiani (partito d’azione), Emilio Sereni (comunista), Sandro Pertini (socialista). Questo, però, Mussolini non lo sapeva ancora.
Milano, palazzo della Prefettura, 22 aprile 1945, ore 18 circa
Carlo Silvestri, vecchio giornalista, socialista illuso di poter mantenere rapporti con i suoi vecchi compagni, entrò nel palazzo districandosi tra tedeschi e fascisti di guardia. Era atteso e fu subito introdotto nell’ufficio occupato da Mussolini.
Carlo Silvestri, come Nicola Bombacci, era di quegli uomini che appassionano i romanzieri popolari e avrebbero potuto ispirare un tragediografo, ma che mettono in imbarazzo gli scrittori di cose storiche.3 Socialista di vecchia data, come Bombacci comunista, Carlo Silvestri era stato tra i più acri accusatori di Mussolini al tempo del delitto Matteotti. Relegato ai margini della vita giornalistica quando il regime era al colmo delle sue fortune, Carlo Silvestri aveva cominciato a credere alla “buona fede” socialistica di Mussolini non appena la buona stella del dittatore si era offuscata. Al tempo della RSI, Silvestri, anziché vendicarsi del confino e del carcere patito, s’era a poco a poco avvicinato al dittatore in disgrazia. Tuttavia, dal momento che era un uomo onesto, anche se politicamente balzano, prima di tendere davvero la mano a Mussolini aveva voluto sincerarsi (a modo suo) di come fossero realmente andate le cose al tempo dell’assassinio di Matteotti. A chi rivolgersi se non all’uomo che tutto il mondo, ormai da vent’anni, accusava di essere il mandante e il responsabile dell’assassinio, a Mussolini stesso? E Mussolini aveva mostrato la migliore volontà di giustificarsi. Silvestri, Bombacci e il nuovo segretario di Mussolini, Luigi Gatti (un giovanotto di trent’anni), avevano passato alcuni giorni a leggere e meditare documenti inediti che Mussolini aveva collezionato vent’anni avanti e che aveva gettato loro in tono di sfida: – Controllate da voi se ero innocente o no, circa il caso Matteotti! Ne ebbi un solo guadagno: l’ulcera.
Silvestri e Bombacci avevano letto e s’erano, non si sa come, persuasi. Ripulita la coscienza, o meglio lo scrupolo antico che li affliggeva, avevano deciso di ingegnarsi ad aiutare il vecchio nemico. Ognuno a modo proprio, naturalmente: Bombacci, tagliato irrimediabilmente fuori dalla vita politica, legandosi al duce come a un amico moribondo di cui si vuol dividere la sorte; Silvestri – esattamente come il filosofo Edmondo Cione – illudendolo con la propria presenza e assistenza di poter davvero tendere la mano ai socialisti.
Quella sera, alle 18 del 22 aprile 1945, Carlo Silvestri salì da Mussolini per la penultima volta. Aveva soltanto una vaga idea di ciò che l’ex duce voleva da lui, ma era disposto ad acconsentire.
Disse Mussolini: – Silvestri, voi sapete in che modo mettervi in contatto con il partito socialista? Voi sapete chi ne sono i capi qui al nord e quanto contino nel Comitato di Liberazione?
Per sentito dire, Silvestri lo sapeva. Ignorava che i socialisti lo definivano già “ex socialista” e non era certo disposto a fare nomi.
– Perché, caro Silvestri, penso sia un vero peccato non favorire la successione dei socialisti al potere. Per me è finita. La guerra è perduta irrimediabilmente. Io desidererei trovare un accordo con i socialisti. È loro interesse infine!
Mussolini parlava come se il 1921, l’anno in cui aveva tentato di riaccordarsi con il suo vecchio partito prima di prendere il potere, fosse stato ieri. Il fatto è che anche il suo interlocutore aveva lo stesso vizio mentale: vent’anni di persecuzioni, vent’anni di blocco della storia e della civiltà, si disfacevano nella mente di quei due uomini inguaribilmente disposti a considerare sepolto il passato.
Carlo Silvestri prese sul serio la proposta e sul serio pensò di poterla attuare. Silvestri e Mussolini scrissero insieme una lettera indirizzata ai responsabili socialisti del comitato d’insurrezione nella quale si offriva la resa dell’esercito repubblicano fascista e la consegna dei poteri ai socialisti, purché qualcuno, tra cui Mussolini, avesse salva la vita.
4La lettera non era firmata. Mussolini stesso ne redasse insieme a Silvestri alcune copie in modo da poterle consegnare, chissà come, al maggior numero possibile di capi socialisti.
Il testo di quella lettera non rimase stampato nemmeno nella memoria. Lelio Basso, destinato ad essere uno dei firmatari della Costituzione italiana dopo il fascismo, ne ebbe una copia. Chiese il parere di Sandro Pertini e questi si rifiutò persino di leggere lo scritto.
– Dì a Silvestri che con Mussolini non c’è proprio niente da trattare.
La mattina dopo Carlo Silvestri, che conservava ancora una bozza della lettera, incontrò in un negozio, per caso, Riccardo Lombardi, il socialista che di lì a tre giorni avrebbe preso in corso Monforte lo stesso posto, la stessa sedia, lo stesso tavolo di Mussolini con l’incarico di prefetto di Milano liberata.
Lombardi diede alla lettera, porta da Carlo Silvestri, appena un’occhiata. La stracciò e alzò le spalle.
Eppure Mussolini credeva sinceramente di poter essere preso sul serio. Sorvolando con la fantasia i milioni di tombe da lui provocate, se non volute, accorciando nella sua memoria sclerotica i tempi passati e rievocando i giorni remoti in cui, espulso a suon d’insulti dal partito socialista, se n’era andato urlando all’assemblea dei congressisti, paradossalmente: – Voi mi odiate, perché mi amate ancora! -, Mussolini diceva: – Non sarò più quello che ero, ma non potranno mai fare a meno di me.
In questo stato d’animo, mentre Carlo Silvestri vagava per la città semibuia alla ricerca dei suoi ex compagni socialisti che, al contrario di lui, aspettavano da vent’anni di poter mettere al muro Mussolini, il dittatore finito convocava il ministro degli Interni Paolo Zerbino e il generale della milizia Renzo Montagna per ordinare loro di trovare in qualsiasi modo, entro i prossimi giorni, un sistema per patteggiare con i componenti del Comitato di Liberazione.
Il più attento e scrupoloso degli storici della RSI, l’inglese Frederik W. Deakin, in uno dei suoi rari commenti personali avrebbe scritto qualcosa, in proposito, che ha valore di documento:
“Le istruzioni (di Mussolini) a Zerbino e Montagna non erano che un superficiale omaggio a formalità che egli aveva violato volontariamente per tanto tempo. Per temperamento e per la natura del ‘sistema’ di governo che aveva creato, progettava e analizzava le mosse isolandosi da tutti coloro che lo circondavano. Aveva i complessi dell’outsider e di un rinnegato, più che quelli di un vero rivoluzionario… Ma tra tutte queste manovre che gli erano servite per conservare il potere durante gli anni del governo fascista, il suo fondamentale atteggiamento di disprezzo entrava in conflitto, nel suo animo, con la nostalgia per il ristabilimento della causa del socialismo italiano, che egli aveva indebolito e rinnegato. Il suo carattere è inspiegabile senza considerare questa intima contraddizione”.
La sera del 23 aprile 1945, sempre alle 18, Mussolini ricevette nel suo studio Carlo Silvestri, reduce dalle insolenti alzate di spalle dei socialisti. Mussolini chiuse gli occhi e scrollò a testa: – Pazienza – disse.
Nelle ultime ventiquattro ore uno spiraglio di buon senso opportunista (o di istinto di conservazione) s’era aperto tra le idee aggrovigliate del dittatore. Doveva rinunciare definitivamente alla soluzione “socialista” e, se voleva mantenere qualche probabilità di salvare se stesso e i gerarchi, appellarsi alla parte più moderata del Comitato di Liberazione: ai democristiani, ai liberali, al generale
Raffaele Cadorna che, per le sue idee, il suo grado, persino la sua tradizione familiare, non poteva certo andare d’accordo con i socialisti e i comunisti. La vecchia esperienza politica gli insegnava che all’interno del Comitato di Liberazione ci dovevano essere divergenze profondissime tra i vari partiti: tutto faceva prevedere che i democristiani avrebbero cercato di trattare, se non altro per impedire quell’insurrezione rivoluzionaria che i comunisti e i socialisti non potevano non tentare. Gli storici avrebbero dimostrato che Mussolini, in questa sua estrema intuizione, era assai vicino alla realtà.
Così Benito Mussolini, nella giornata del 23 aprile 1945, esattamente cinque giorni prima di morire, cercò di ripetere, per istinto, lo stesso gioco che ventidue anni prima lo aveva portato al potere: trattare più o meno segretamente con settori politici formalmente alleati, ma fondamentalmente divisi, sfruttare a proprio vantaggio le rivalità dei suoi avversari, mostrare a ciascuno di loro, separatamente, che gli sarebbe convenuto allearsi a lui. Ma se nel 1922 questo gioco aveva per posta la vittoria e gli era riuscito alla perfezione, ora, nel 1945, esso appariva come il disperato, cieco e atterrito divincolarsi di un animale accerchiato.
Nel pomeriggio di quel 23 aprile, mentre Carlo Silvestri stava cercando le parole più acconce per dirgli che i socialisti gli avevano sbattuto in faccia ogni proposta di trattativa, Mussolini telefonò in Arcivescovado al cardinale Schuster.
Mussolini espose a Schuster, per sommi capi, le proprie intenzioni: disse che ad ogni costo avrebbe voluto risparmiare altro sangue. Disse insomma le stesse cose che, sia per spirito cristiano che per accortezza politica (impedire l’insurrezione socialcomunista), Schuster andava ripetendo da tempo. Mussolini, però, commise un errore, un “errore di tempismo”, proprio lui che sul “tempismo” aveva costruita gran parte della propria fortuna politica. Timoroso di uscire dalla Prefettura, chiese al prelato di raggiungerlo nel palazzo di corso Monforte.
Schuster esitò al telefono, poi disse: – Questo è impossibile, eccellenza. Il protocollo cardinalizio lo vieta e il protocollo cardinalizio è stato esplicitamente riconosciuto dal Concordato. Devo essere proprio io a ricordarglielo? Venga lei da me, piuttosto.
Riabbassato il telefono, Mussolini ebbe qualche minuto di panico.
Allora, per la prima volta in cinque giorni, chiese al centralino di passargli Gargnano, villa Feltrinelli, sua moglie o qualcuno della sua famiglia.
Parlò con Rachele, brevissimamente. – Aspettatemi entro stasera. Me ne torno a casa.
Ciò che accadde nelle ore immediatamente successive è un groviglio di aneddoti e di fatti memorabili nei quali5 tuttavia cominciano a manifestarsi quelle contraddizioni, quelle omertà, quelle bugie o reticenze che avvolgeranno Mussolini fino a piazzale Loreto.
Mussolini fece chiamare l’industriale Gian Riccardo Cella, un uomo che, per affari, viveva praticamente insieme a Mussolini in Prefettura. Tra Cella e Mussolini c’erano rapporti di quattrini: l’industriale, convinto di fare un ottimo affare, aveva comprato dall’ex dittatore il palazzo e la tipografia del giornale “Il Popolo d’Italia”. Cella si era tuttavia accorto che l’affare era stato pessimo: nella migliore delle ipotesi gli avrebbero sequestrato tutto. La sorte di Mussolini sarebbe stata la stessa dei suoi assegni: perciò Gian Riccardo Cella era interessato a che il vecchio dittatore trovasse una scappatoia.
– Sentite Cella, – Mussolini cominciò – voi conoscete qualcuno… qualche moderato, un democristiano per esempio, con il quale si possa parlare?
– Credo di sì.
– Come, “credo”?
– Spero di poterlo raggiungere – disse Cella malfidente.
– E allora trovatelo, perché ho intenzione di incontrarmi con lui e con Cadorna.
– Quando?
– Quando è possibile.
Chiamò di nuovo Rachele al telefono. Le disse di non aspettarlo più: aveva cambiato idea, non sarebbe tornato a casa. Inventò una scusa: gli Alleati avevano investito Mantova e tagliato la strada per Brescia. Succhiandosi le labbra, impacciato e assente, sentì Rachele che gridava:
– Non è vero, Benito! Ti stanno ingannando. Ho parlato io stessa poco fa con dei militari appena arrivati da Milano. La strada è sgombra, ti stanno ingannando, Benito!
Contraddicendosi, Mussolini propose: – Venite voi allora. Anzi, mando subito a prendervi da una macchina che vi porterà a Monza. Abiterete nella Villa Reale. Domani vi raggiungerò.
Il dittatore era ormai prigioniero della propria paura: una paura paralizzante. Aveva deciso di non tornare più a Gargnano, con lo stesso stato d’animo con cui aveva rifiutato di recarsi subito in Arcivescovado da Schuster, dove, forse, si sarebbe salvato. Milano lo atterriva. Più delle notizie catastrofiche appena portategli dal fronte da Pino Romualdi, più che il rifiuto dei socialisti a trattare, egli era ormai posseduto dallo sgomento di una novità che per lui aveva un significato spaventoso: per ordine del Comitato di Liberazione, i ferrovieri della Lombardia avevano iniziato lo sciopero. Ventidue anni prima, la marcia su Roma di Mussolini e dei fascisti era stata consentita dall’appoggio quasi incondizionato dei ferrovieri. Forse, anzi, era stato questo il particolare determinante del successo della marcia. Superstizioso com’era sempre stato, moralmente prigioniero dei simboli e dei presagi, Mussolini si convinse che lo sciopero dei ferrovieri, dichiarato quella sera del 23 aprile, chiudeva irrimediabilmente l’era fascista.

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14 pensieri su “DVX VIII

  1. Nonostante tutte le trame e le strategie del momento inesorabilmente giunse “Piazzale Loreto”, un epilogo drammatico, cruento, da “rivoluzione messicana” come disse qualcuno ma che almeno salvò gli Italiani tutti, vinti e vincitori da un epilogo farsa che si andava delineando ed aveva buone probabilità di attuarsi.

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  2. Vennero momenti particolari che parlavano di aberrazione umana. Non è possibile, infatti, defiire umane le condizioni richieste e offerte. Dall’una all’altra parte.

    Un capitolo, caro Ninni, che apre alla conoscenza sociale e umana.
    Senza sconti.
    Sei bravo sul serio.
    Buona giornata

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  3. In questi tempi, densi di valori disattesi e di storia scritta “al momento” la sua visitazione e rivisitazione storica” (senza nulla omettere alla storia rendendo, anzi, fruibile el’umana narrazione) è impeccabile e ineccepibile.
    In attesa, dunque, del prossimo capitoli, le auguro buona giornata.

    Amedeo

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